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Divagazioni sul tema del suicidio

Pubblicato sabato 18 Ottobre 2014 alle 21:39 da Francesco

Alcuni giorni fa ho iniziato la lettura de “Il suicidio” di Durkheim, ma prima di affrontare il testo originale mi sono immerso in un’introduzione di oltre duecento pagine che mi ha dato un quadro attuale del tema. La sociologia non mi attrae poiché allo studio delle masse io preferisco quello dei singoli casi, però so che le une non sono scisse dai secondi poiché questi formano le prime. Il pensiero della morte mi accompagna fin dalla più tenera età: non ho mai tentato d’eluderlo e so anche che non potrò deluderlo. In determinati casi persino l’uso delle assonanze può essere considerato come un ricorso all’eutanasia: quella dello stile.
Malgrado le più tetre elucubrazioni non ho mai compiuto dei tentativi di suicido, infatti volente o nolente non mi fanno difetto né la salute fisica né quella mentale: tutt’al più mi sono procurato qualche problema di troppo con la mia lucidità, talora un’arma a doppio taglio.
Finora nel libro succitato non ho scorto nulla di nuovo, niente che non abbia già appreso altrove o a cui non sia già arrivato da solo, tuttavia lo reputo un ottimo lavoro di verifica e apprezzo il fatto che l’introduzione offra il proprio fianco all’autocritica, in particolare quella sulla raccolta dei dati e sulle loro comparazioni. Che anche i ricchi piangano o che, a seconda dei contesti e delle congiunture economiche, delle condizioni sociali o dei frangenti politici, determinate fasce d’età siano più esposte al rischio di uccidersi rispetto ad altre, ebbene, tali conclusioni a me erano già note. Mi ha colpito l’impiego del termine anomia con il quale Durkheim riassume la carenza di solidarietà e le sue nefaste conseguenze, ma al di là della forma non l’ho condiviso poi molto in quanto mi pare che egli lo designi come il cippo iniziale di una crisi dei valori, ciò che io ho subito associato al Crepuscolo degli idoli di Nietzsche e che dal mio punto di vista non reputo negativo. Pecco di empatia, coltivo il mio orticello dove a volte pare che nulla nasca e tutto sia già morto? Può darsi, infatti porto in un contesto autoreferenziale tutto quello che posso trascinarmi dietro dalla trattazione di cui sopra e non ho alcuna intenzione di fornire interpretazioni generali.
Per Aristotele (e chissà per quanti prima e dopo di lui) l’uomo è un animale sociale, ma io credo che ci sia una netta differenza tra la percezione di sé stessi come pecora in un recinto o come lupo in un branco: poi ci sono i disturbi bipolari che permettono il rapido avvicendarsi d’ambo le esperienze a costo della dissociazione, ma questo è un altro discorso, un’altra altalena; forse.
L’identificazione (uno dei mali che Gurdjieff e i suoi allievi hanno spesso sottolineato) mi sembra che sia una spontanea attività compensatoria: la politica, la gelosia, il tifo, la religione e tutto il resto dell’illusorietà, compresa la cultura quando sia ridotta ad un semplice accumulo di nozioni.  Io credo che sia possibile appartenere autenticamente a qualcosa o a qualcuno (non nel senso del possesso, bensì in quello stabilito da un’intesa che sappia sancire e annullare le rispettive solitudini), ma lo reputo tutt’altro che semplice, eppure non vedo a cos’altro possa tendere chi non avverta una vocazione naturale per il romitaggio (e anche nelle pratiche ascetiche ho visto molta identificazione). Thanatos prevale quando Eros latita, come i topi ballano quando il gatto non c’è, perciò, senza scadere nell’ingenuità o nella pochezza di certi sentimentalismi, condivido quanto sosteneva La Fontaine, ovvero che tutto l’universo obbedisce all’amore.

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