Attendevo il kairos per leggere il “Fedone” di Platone e il momento opportuno è giunto in una notte di mezza estate senza ingerenze shakespeariane. Il dialogo mi ha trasmesso una balsamica accettazione degli eventi e certe arguzie maieutiche mi hanno strappato più di un sorriso. Non ho mostrato grande interesse per le questioni dell’anima, quelle in cui Sìmmia e Cebète avanzano dubbi sulla natura e l’indistruttibilità di quest’ultima, bensì mi sono deliziato con l’imperturbabilità di Socrate dinanzi all’imminenza del suo aperitivo di cicuta.
Secondo me il clima di questo scritto costituisce un esempio primevo della “destinazione tanatologica della filosofia”, così come riporta una nota del testo, ovvero quella che io ancor oggi reputo la meta capitale di tale pratica: imparare a morire. Gli spunti ivi presenti non hanno nulla di esoterico, quantomeno non nella degradata accezione degli ultimi decenni, ma neanche in quella letterale poiché con una esse in più al massimo possono essere essoterici, cioè di pubblico dominio; una scrematura avviene invece con la sua comprensione: quand’essa risulti soltanto scolastica o accademica credo che in qualche misura ne vada persa la parte migliore, quella di cui in certe condizioni si può persino fare esperienza.
Già edotto da me stesso anni fa in merito ai molteplici concetti di Platone, non ho quindi trovato stimolante la rilettura di quanto riguarda l’Iperuranio, l’anamnesi, l’analisi dei contrari e il tentativo di conciliare l’impianto eracliteo con quello di Parmenide, però mi è piaciuto il rimando alla dottrina pitagorica della metempsicosi in quanto conferisce un ulteriore slancio a quella tensione spirituale di cui il Socrate platonico è reso sommo interprete.
Appigli metafisici su una parete cerebrale
Pubblicato mercoledì 6 Gennaio 2016 alle 23:09 da FrancescoHo fatto mia una domanda nella quale sono incorso durante una lettura serale: il linguaggio è una prerogativa degli esseri umani? A tale quesito non v'è ancora una risposta unanime, ma v'è una distinzione sostanziale da compiere, ovvero quella tra linguaggio e intelligenza: di fatti il primo non è indispensabile per il pensiero e la sua assenza non esclude la facoltà astrattiva.
Nella disamina dei tipi più comuni di afasia (cioè i disturbi del linguaggio di origine organica) ho letto che in ambito clinico sono ancora utilizzati dei riferimenti ad aree alle quali un tempo erano ascritte precise funzioni, ma la cui localizzazione è stata in seguito ridimensionata dai progressi delle neuroscienze: mi riferisco in particolare all'area di Broca e all'area di Wernicke.
Porto il nome di un santo che parlava con gli animali, una figura per cui oggi un sindaco non faticherebbe troppo a chiedere il trattamento sanitario obbligatorio, tuttavia mi domando se nel folclore e nella costellazione degli archetipi non vi siano già verità di cui la scienza deve tornare in possesso per tradurle nello spirito di questo tempo (ricorro qui a un’espressione di Jung): un po' come l'anamnesi di Platone. Quante cose (o presunte tali, monadi) sfuggono alla ragione o forse è questa che vi si ritrae per il timore che possa esserne sopraffatta.
Le lesioni di determinate aree provocano dei problemi di comprensione, altri tipi di danni invece cagionano difficoltà di espressione e perciò mi chiedo se la più intima essenza di un individuo sia riducibile all'efficienza del suo sistema nervoso centrale. A questo proposito mi torna in mente (e dove altrimenti?) il momento in cui Jung descrive l'incontro con Izdubar (episodio di cui anche pochi giorni fa ho fatto cenno): o meglio, lo scontro tra lo scientismo e la devozione infantile.
Malgrado la profonda solitudine del mio ateismo non riesco a ridurre tutto in termini organici e dunque non ho modo di attingere dalla tracotanza con cui taluni impugnano il rasoio di Occam per recidere ogni altra forma d'esistenza, ogni principio che non faccia sinapsi, ogni filo invisibile che colleghi tutto a un motore immobile.