Ho trovato piuttosto interessante un frammento della seconda appendice del Libro Rosso di Jung che si situa alla fine del volume. In quelle paginette conclusive sono prese di nuovo in esame le figure di Elia e Salomè, ovvero un vecchio e saggio padre, il quale rappresenta il Logos, e la di lui figlia che svolge la stessa procura per l'Eros.
Per come sono presentati, e con qualche spontanea forzatura, paragono quei due princìpi allo spirito apollineo e allo spirito dionisiaco di Nietzsche, ma in entrambi i casi riconosco come l'uno non sia posto in antitesi all'altro. Col medesimo grado d'approssimazione avrei potuto riferirmi ai due elementi del Tao e così via, in un dotto saccheggio di schemi analoghi dopo il quale, di fatto, non mi sarebbe rimasto nulla: che beffa. A proposito: ovunque io mi volga mi sembra che il dualismo sia sempre stato apparente, a uso e consumo delle morali regolatrici, per il bastone e la carota, per fare sì che gli inferi si stagliassero (bene e male) sul paradiso o viceversa.
Non ho fatto questa premessa per lanciarmi nell'ermeneutica del Libro Rosso o per azzardare una retrospettiva sul simbolismo della mia giovane specie: ho le spalle abbastanza larghe per sollevare un bilanciere, ma non per sobbarcarmi il peso di quelle impalcature filosofiche.
Oltre a vani tentativi di sagacia è opportuno che io giunga al punto, ammesso che da questo si possa poi tracciare alcunché. Certuni hanno imputato la mia verginità (fisica ed emotiva) ad un ricorso eccessivo della ragione, ma in tali occasioni costoro hanno commesso l'errore di credere che il Logos si opponga all'Eros; anche se non sono cristiano (e almeno per questi scampoli di primavera e l'estate imminente non lo diventerò), voglio parafrasare il Nazzareno: "Padre (o chi per lui) perdonali perché non sanno quel che fanno". Anzi, nessuna grazia e non sanno, punto.
La capacità di discernimento per me non si oppone ai moti del cuore, ma quando l'una si trova in sintonia coi secondi fa in modo che questi si esprimano con la massima autenticità, nella piena eleganza della loro consapevolezza e non per la furia cieca d'una passione che talora è viziata dal timore della solitudine: nel mio immaginario la differenza è la stessa che intercorre tra un cavallo imbizzarrito e uno che galoppa libero lungo praterie incontaminate, a mezzodì (nella fiera giovinezza) o alle ultimi luci dell'occaso (quando la vita si accorcia, come se prima la morte non le fosse stata sempre accanto…).
La mia facile teoria è la seguente: la puerile contrapposizione di Logos ed Eros è utilizzata da taluni per giustificare i propri passi falsi e soprattutto la consapevolezza con cui furono mossi; è troppo facile incolpare la cosiddetta "passione" ed è questo, sì, invece un trucco nel quale io ravviso un impiego davvero volgare dell'intelletto. Cerco di ragionare con il cervello in quanto è l'organo deputato a tale compito, perciò non mi occupo di chi delega il cazzo o altri genitali (e quanti sono mai?). Non posso intavolare alcun dialogo con chi non veda al di là del proprio prepuzio od oltre i propri estrogeni: errore di ambo i sessi a cui non mi presto.
Mi occupo anche di contraddizioni del genere nel saggio che sto scrivendo a intervalli quantomai irregolari, ma non so quando o se quest'ultimo vedrà mai la luce e d'altronde non me ne frega nulla, proprio come a chiunque altro: ecco un esempio di silente unanimità.
Mi sono soffermato su due capitoli del Libro rosso: il nono e l'undicesimo.
Il mio interesse s'è destato all'incontro di Jung con Izdubar, l'uno diretto verso oriente e l'altro verso occidente; il nome del secondo protagonista è quello con cui gli assiriologi indicavano il personaggio di Gilgamesh quand'ancora non ne era nota la giusta traslitterazione.
Izdubar irrompe come un gigante che brandisce un'ascia bipenne e anela all'immortalità, tratti che di primo acchito me l'hanno fatto associare alla mitologia norrena, però egli cade presto vittima delle parole di Jung che involontariamente lo avvelena col sapere scientifico di cui costui si fa inconsapevole nunzio: da qui l'enantiodromia oscura i cieli e riempie le pagine.
Così prende piede il noto gioco degli opposti, che prima chiamerei "incontro" e poi "accordo" dei contrari se volessi rendere un po' più serio il mio approccio al tema, ma questa volta lascio i riferimenti alchemici a chi vuol credere più del necessario a ciò che scrive o a quello che legge.
La razionalità quasi uccide il dio (in quanto Izdubar lo rappresenta col pensiero orientale), però l'altro vuole salvarne l'esistenza e s'ingegna per farlo. Alla fine Jung riduce Izdubar a una mera fantasia e così può trasportarlo in un uovo (e la semplicità della soluzione a me ricorda proprio l'espressione "uovo di Colombo"). Portato in una casa e fatto oggetto di incantesimi, così sono chiamate nel decimo capitolo quelle che a me sembrano preghiere, l'uovo viene aperto e il dio rivive: mi ha colpito molto l'immagine che Jung ha realizzato per descrivere questo momento.
La rinascita di Izdubar non è letterale e io ne associo il senso lato a quello della morte di dio secondo Nietzsche; nel primo caso si manifesta un rinnovamento di sé stessi, nell'altro invece v'è un preludio al superamento dei vecchi valori (poiché ne viene decreta la fine).
Jung non filosofa con il martello, forse non filosofa affatto, inoltre suppongo che i suoi scopi siano altri, perciò non metto in contrapposizione due pensatori di così diversa natura che io vedo comunque vicini laddove il tempo è quasi un orpello della metafisica.
Oltre alle dotte (in apparenza) elucubrazioni, personalmente non riesco a trasporre nulla di ciò nella mia realtà, perciò ne elogio la forma e ammetto la mia totale incapacità di identificarmici.
Non mi sognerei mai (eh già, il verbo è proprio adatto, e anch'esso lo è, "il verbo", come in una scatola cinese da calembour) di screditare la tecnica dell'immaginazione attiva di cui Jung si è avvalso, ma riconosco come questa non mi appartenga; d'altronde, in modo tutt'altro che ermetico, è egli stesso a mettere in guardia il lettore in un passo del Libro rosso: "Quello che vi do, non è né una dottrina né un insegnamento. E da quale pulpito potrei indottrinarvi? Vi informo della via presa da quest'uomo, della sua via, ma non della vostra. La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. La via è in voi, ma non in dèi, né in dottrine, né in leggi. In noi è la via, la verità e la vita".