15
Set

Un taglio breve

   

Pubblicato mercoledì 15 Settembre 2010 alle 20:25 da Francesco

Le mie giornate sono scandite dalla tranquillità e dalle abitudini salutari che popolano il fronte diurno del mio tempo. Le inquietudini mi snobbano: di questo passo mi ammalerò di serenità. Devolvo sempre una piccola oblazione ai miei rapporti sociali e spesso quest’ultima consta di parole vacue, ciarpame dialettico e pezzi di vernacolo che pendono dalla lingua italiana. Non ho in serbo grandi sorprese per il mio futuro e non aspetto una perturbazione di manna. Io non saprei proprio cosa farci con un miracolo e, per non lasciarlo alle mercé della polvere, tutt’al più potrei affittarlo d’estate alle coppie in crisi.
Non vivrei mai in una casa di marzapane né in una di quelle torri d’avorio che spesso vengono servite in una campana di vetro. I cipressi mi guardano dall’alto in basso, ma io sono abituato a quelle occhiate oblique e di conseguenza non ne risento affatto. Per ragioni anatomiche non posso unirmi agli scodinzolii dei miei gatti, però sono in grado d’imitare la placidità dei felini che mi circondano. Melodie moderne e distorte, composizioni barocche e tempi dispari: ecco quali elementi s’insinuano nei miei silenzi. Ultimamente, pensando a me stesso, mi viene in mente un frammento di Friedrich Nietzsche su “Così parlò Zarathustra”: “Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve cadere!”. Nei miei scritti ricorre spesso il tema della morte, ma in quest’ultimo non instillo mai tristezza e allo stesso tempo evito con cura di edulcorarlo con dolcificanti metafisici. Io non vivo ogni giorno come fosse l’ultimo e non intendo imparare a farlo per accumulare dei significati esistenziali da sbandierarmi addosso. Mi pare che ogni dì abbia la sua personalità e per quanto mi è possibile cerco di assecondarla senza tuttavia assoggettarmi al fatalismo né ad altre concezioni di tal fatta.

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11
Set

Questioni chilometriche

   

Pubblicato sabato 11 Settembre 2010 alle 20:11 da Francesco

Ieri mattina sono riuscito a scendere sotto i quattro minuti al chilometro e ho completato il mio percorso di ventiquattromila metri in 1 ora, 34 minuti e 49 secondi. Ho mantenuto una velocità media di 15 chilometri orari con un passo al chilometro di 3 minuti e 57 secondi. La mia andatura è stata più costante del solito grazie a un po’ di stanchezza che non mi ha permesso d’eseguire alcuna accelerazione, perciò non ho accusato la fatica degli allunghi a cui mi sottraggo di rado in condizioni normali e questo risparmio energetico mi ha consentito di non diminuire l’intensità nel tratto finale del percorso. Considero piuttosto paradossale il ruolo svolto dalla stanchezza nella mia prestazione. Sentivo le gambe un po’ pesanti e nei giorni precedenti avevo perso qualche ora di sonno, tuttavia conservavo ancora diversa energia: immagino che quest’ultima sia stata ottimizzata più o meno consciamente dalla consapevolezza di averne a disposizione meno del solito. Adesso mi sento in grado di abbattere più spesso il muro dei quattro minuti al chilometro e mi ritengo soddisfatto dei miglioramenti che l’allenamento pesistico ha portato all’allenamento podistico. Non credo che possa fare parecchio di più in termini di velocità a meno che non decida di seguire una dieta specifica e degli esercizi mirati, ma per mia fortuna le velleità agonistiche continuano a non trovare spazio in me.
Sette giorni fa, durante un allenamento pomeridiano, ho incontrato un podista di settant’anni e mi sono adeguato al suo ritmo quando mi ha rivolto alcune domande sulle mie prestazioni. Mi ha detto che sono “una freccetta”, ma io gli ho illustrato i miei tempi per fargli intendere che non sono affatto un agonista e se egli non avesse dovuto svoltare troppo presto avrei anche sottolineato alla sua attenzione che per me la corsa è uno strumento a servizio del benessere. Comunque sono rimasto colpito dalla tempra del settantenne e un giorno mi auguro di potermi fregiare della stessa longevità.
Nel mio modo di correre c’è qualcosa di autistico e ossessivo, tant’è che si sprecano i paragoni con Forrest Gump. Forse ho davvero qualcosa in comune con il personaggio interpretato da Tom Hanks e quantomeno ne condivido una citazione: “Stupido è chi lo stupido fa”.

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7
Set

Una conoscenza picaresca e una visione d’insieme

   

Pubblicato martedì 7 Settembre 2010 alle 09:34 da Francesco

B. è tornato in Romania, però sono certo che lo incontrerò ancora da qualche parte in Europa. Alcun giorni fa pensava di recarsi al confine tra la Spagna e il Portogallo per fare qualcosa che potrebbe interessare all’Interpol in mancanza di casi migliori. Prima del suo ritorno a casa gli ho proposto di andare insieme fino alla frontiera lusitana e separare le nostre strade nel momento in cui egli avesse deciso di occuparsi dell’affare che aveva in mente.
Penso che B. finirà di nuovo in carcere o in qualcosa più grande di lui. Gli piacciono i crimini che non nuocciono alle persone comuni e in parte lo rispetto per questo. Forse se io fossi nei suoi panni agirei in modo analogo e se invece facessi parte delle Forze dell’Ordine mi augurerei di arrestarlo per dargli una pena esemplare. B. non necessita di delinquere per vivere e le frodi così come i furti con scasso per lui rappresentano una droga. Vuole tutto e ogni tanto, per brevi periodi, riesce ad avere ciò che desidera, però puntualmente, dopo un po’ di tempo, si ritrova sempre in qualche casino. È un tipo abbastanza sveglio e parla quattro lingue, ma è cresciuto con il culto del guadagno facile ed escludo che sia intenzionato a compiere un atto di apostasia.
Mi mancano le sue storie del periodo carcerario e le nostre discussioni in inglese. B. è proprio un figlio di puttana, nel senso buono. Farà una brutta fine, ma ne è consapevole e forse gli andrò a fare una visita quando finirà al camposanto, sempre che io non sia così incauto da precederlo.
“Wie gehts bruder?” gli domandavo spesso per farmi raccontare le storie più o meno plausibili dei suoi trascorsi dietro le sbarre e lui mi rispondeva sempre “Alles klar” prima di lanciarsi nei suoi racconti. Potrei scrivere molto di più, ma alcune cose ho promesso di non rivelarle a nessuno e dunque non possono occupare le righe di questo spazio ad accesso pubblico, ma c’è un fatto che invece m’è concesso annotare e ricordare con più di un sorriso.
Una notte d’agosto, durante un giro in auto, notammo una vettura scura nel centro del mio comune. Il mezzo era fermo, il motore accesso e le portiere anteriori erano entrambe aperte. Il guidatore si trovava sul sedile del passeggero, visibilmente ubriaco, ma forse anche sotto l’effetto di stupefacenti. A questo punto B. mi suggerì di fermarmi accanto all’auto per andare a controllare se il tipo fosse ancora vivo, ma io lo guardai e gli dissi: “Man, no way. You go and I wait you here with the engine on”. Andò e tornò presto. Mi disse che il tizio sembrava fatto, ma stava bene. Appena ripartimmo B.  accennò ad un “wallet full of money” e si rammaricò di non averlo potuto prendere per timore che qualcuno avesse visto la scena e la targa della mia auto.
Io sono un individuo pragmatico e non mi riparo sempre dietro le leggi dello Stato benché in una certa misura le ritenga importanti. Non credo che la società possa essere sempre regolata dal codice penale o da quello civile, perlomeno non in questa epoca.
Se B. si fosse appropriato di quel denaro ne avrei accettato candidamente un po’, in quanto appartenente ad un individuo di mia conoscenza che è dedito all’uso di droga.  Insomma, quei soldi avrebbero fatto meno danni nelle nostre manine che in quelle di qualche pusher al quale prima o poi sarebbero inevitabilmente giunti. 
Qualcuno potrebbe dirmi che tutto ciò non è giusto, però non me ne frega proprio un cazzo. Insomma, io vedo nella droga uno strumento del potere per controllare le masse e mi sento in diritto di trattare i tossici e gli spacciatori come subumani. Praticamente ogni acquisto di droga è un contributo alla criminalità organizzata, perciò mi farebbe piacere se ai consumatori venisse contestato anche il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Recentemente ho letto un’intervista di Felice Maniero in cui egli stesso afferma che la sua pena non è stata adeguata ai crimini che ha commesso. Nelle stesse righe fa notare come oggi egli conduca una vita soddisfacente, nella quale figura una famiglia e un lavoro che svolge per passione, mica per necessità. Fantastico: un incentivo all’onestà.
Maniero in quella stessa intervista asserisce: “”La mafia si batte spedendo i boss al confino. Ricordo che quando la proposta la fece Andreotti in cella tutti tremavano a quell’idea”. Parole plausibili in quanto anche in regime di 41 bis c’è qualcuno che dà ordini e gestisce il proprio potere senza problemi. Dato che si respira il profumo di elezioni imminenti, io da bravo cittadino dovrei pensare a chi votare, ma in mancanza della possibilità di scelta prevedo ancora una volta di optare per l’astensione. La politica fa troppo poco per contrastare la criminalità organizzata che rappresenta il vero cancro dell’Italia assieme al Vaticano. Io attribuisco qualunque successo contro le mafie solo ed esclusivamente alle Forze dell’Ordine. Troppa gente trova riparo dietro il garantismo per rimpinzare i propri ideali autoreferenziali, perdendo così il contatto con la realtà e con ogni possibilità di assumere delle posizioni pragmatiche per risolvere problemi concreti. Per quanto mi riguarda qualcuno potrebbe pure istituire una nuova Gestapo se questa fosse in grado di annientare le organizzazioni criminali e non mi scandalizzerei affatto per la violazione dei principi democratici. D’altronde la costituzione italiana è già macchiata di sangue e poi credo che servano ancora diversi secoli per attuare la democrazia in termini che non risultino risibili.
Da un confronto tra la prima parte di questo appunto e la parte restante potrebbero emergere delle contraddizioni forti nella mia persona, ma in realtà tutto ciò mi conferma una certa capacità di inquadrare le cose al di là  del bisogno (tipico dell’insicurezza, a mio avviso) di avere sempre una posizione precisa che tragga la sua forza da un’entità superiore come lo Stato, la coscienza civica o il proprio interesse, insomma qualunque cosa che la legittimi al livello dell’Io.
Un excursus sociale per un passaggio introspettivo: un procedimento macchinoso. L’autoanalisi la pago con opinioni del tutto trascurabili: ah, dannata recessione!

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6
Set

Distanze attigue e ossimori scadenti

   

Pubblicato lunedì 6 Settembre 2010 alle 07:00 da Francesco

L’italiano è la mia lingua madre e queste parole nascono dall’incesto con lei. Non peso i vocaboli e lascio a terzi l’arduo compito di quantificarne la tara per ottenere una misurazione precisa che non sfori i limiti della decenza. Cosa ti suggeriscono queste parole? Noi non siamo lontani, bensì siamo lontananze. Ti arrampichi su queste pagine per guardare al di là della siepe, ma l’infinito è attorno alle nostre teste, mica dentro. La tua costanza è ammirevole, il tuo seno invece appare manchevole. I minorati adorano le maggiorate. Sì, mentirei spudoratamente se negassi la ricorsività della tua immagine idealizzata tra le oscillazioni spontanee del mio pensiero.
A turno potremmo ritenerci dei donatori di sangue incompatibili malgrado l’alto tasso d’affinità e comunque, al riguardo, restano svariati dubbi che soltanto degli esami più accurati potrebbero dipanare. Il nostro interesse reciproco è tacito, ma nessuno dei due è un ventriloquo e questo non è un problema di poco conto. Mi piace il tempo perché risolve ogni cosa senza ammettere mai alcun ritardo e tutto sommato credo che i suoi metodi draconiani siano accettabili. Destinata alla dimenticanza della memoria a lungo termine, ecco la probabile fine della simpatia a cui la mia indole manichea e la tua accondiscendenza non sanno trovare una sistemazione migliore. Ho già assistito ad altre evanescenze di questo tipo e ormai ho imparato a considerarle delle aurore boreali dalla frequenza minore. Spirino pure i venti solari e sotto di loro sospiri chiunque lo voglia fare. Non mi sottraggo alle sensazioni né sfuggo dall’ammissione della loro presenza e non contemplo neanche l’opzione di combatterle per accontentare le rimostranze dell’orgoglio infantile. Panta rei, nei secoli dei secoli.

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3
Set

Un’intervista in bianco e nero

   

Pubblicato venerdì 3 Settembre 2010 alle 08:41 da Francesco

Ho concesso un’intervista incompleta a Orsetto Fracassacrani. Mi sono state poste alcune domande in merito al mio ultimo libro, ma io ne ho approfittato per divagare un po’. Non ho la minima idea di cosa ne pensi la società moderna, ma per me un animale di peluche non può essere un’autorità culturale: giammai.

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31
Ago

Autunno in pectore

   

Pubblicato martedì 31 Agosto 2010 alle 07:06 da Francesco

L’estate comincia ad allontanarsi dai calendari benché all’equinozio d’autunno manchino ancora ventiquattro giorni. Gli ombrelloni si chiudono piano, come se fiorissero al contrario. Gli stranieri tornano a casa e allo stesso tempo gli estranei si moltiplicano. Uomini abbronzati e donne con i seni nivei concludono le collaborazioni carnali. Anche le infatuazioni stagionali vengono cessate di comune accordo, ma spesso ne resta qualche traccia in una foto digitale o in una sequenza numerica che quasi sempre corrisponde ad un’utenza telefonica. Per qualcuno s’avvicina il primo giorno di scuola, il primo giorno di lavoro o il primo giorno dopo l’ultimo di una vita intera.
Gli esami non finiscono mai per i malati cronici né per gli universitari svogliati. A me non serve un corso di laurea per raggiungere i titoli di coda, però frequenterei volentieri una facoltà se fosse in grado d’estendere le mie. Non mi affianco a nessuno perché il tempo lo seguo a una velocità diversa: lo accompagno, mica lo rincorro. Nessuna novità all’orizzonte e neppure un motivo per rammaricarmene, però davanti a me scorgo ancora ampie distese di terra su cui correre da solo. Alzo soltanto pesi di ghisa e non ne ho altri da sollevare. Potrei aggiungere molte cose alla mia vita, ma io prediligo uno stile minimalista; tutt’al più sono disposto a congiungermi. I tempi sono maturi, però a giudicare dal sapore del liquido rachidiano pare che i cerebri siano ancora acerbi. Non devo inventarmi nulla, bensì dovrei prenotare un last minute per l’iperuranio dimodoché possa ricordarmi subito quanto devo ancora apprendere sul campo incolto dell’agape, senza passare per Parco della Vittoria né attraverso l’enantiodromia

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28
Ago

Dicotomie evitabili

   

Pubblicato sabato 28 Agosto 2010 alle 09:32 da Francesco

In quest’epoca di pace apparente ci sono individui che cercano ugualmente un rifugio e alcuni di loro lo trovano nella cultura. Mi fa sorridere chiunque ritenga che sia sufficiente coltivare le virtù dianoetiche per tenere a debita distanza i propri limiti. Io non entro in una torre d’avorio, però una pisciata prospiciente il suo ingresso sono sempre disposto a concederla.  
Pare che per qualcuno la lettura di certi libri e la frequentazione di determinati corsi forniscano un voucher con cui ritirare subito un attestato per la propria personalità. Ai miei occhi la sete di sapere è pressoché identica a quella di potere ogniqualvolta dismetta i panni della necessità evolutiva per diventare la tonalità dominante del proprio autoritratto. L’edonismo intellettuale è piuttosto squallido. Per fortuna non sono abbastanza acculturato da tenere più alle nozioni che a me stesso. Non di rado odo invettive vivaci contro certe figure dell’intrattenimento televisivo e solitamente queste critiche feroci provengono da individui che sentono il bisogno di sminuire quanto risulti contrario al loro mondo per avallare ulteriormente quest’ultimo. Nemmeno io sono sempre estraneo a questi infantilismi, perciò posso tenere per me qualche frase di scherno da rivolgermi all’uopo; come si suol dire: “Prendi l’arte e mettila da parte”.
Nella mia esistenza non cerco di forzare ogni cosa dentro determinati confini per aggrapparmi all’illusione di controllare ogni aspetto della vita. Io non sono né la somma delle mie conoscenze frammentarie né il feto di un futuro gravido e non sento proprio la necessità di definirmi poiché già negarmi per me costituisce un certo impegno. La morte di Raimon Panikkar mi ha riportato alla mente Jiddu Krishnamurti e in particolare un passaggio di una sua conferenza che ho letto mesi fa in quel di Taiwan.

“Per poter sperimentare la morte mentre siamo ancora vivi, dobbiamo abbandonare ogni sotterfugio mentale, ovvero tutto ciò che ci impedisce un’esperienza diretta. Siamo plasmati dal passato, dalle abitudini, dalla tradizione, dagli schemi di vita; siamo invidia, gioia, angoscia, zelo, godimento, ognuno di noi è questo, ovvero il processo di continuità. Ognuno è attaccato alle proprie opinioni, al proprio modo di pensare, ed ha paura che senza i suoi attaccamenti non sarebbe nulla, allora si identifica con la casa, la famiglia, il lavoro, gli ideali… ma quanti sono quelli capaci di porre fine a tale attaccamento e realizzare il distacco? È necessario comprendere i processi del pensiero e la comprensione del pensiero è la cessazione del tempo. Il pensiero, tramite un processo psicologico, crea il tempo, e il tempo poi controlla e configura il nostro pensiero. Il senso di continuità è stato edificato dalla mente, quella mente che guida se stessa per mezzo di precisi schemi e che ha il potere di creare ogni sorta di illusione. Lasciarsi intrappolare mi sembra una scelta tanto inutile quanto priva di maturità”.

Non mi ritengo ancora in grado di esperire il distacco a cui si riferisce Krishnamurti e di cui comunque fiuto la validità, però lo inquadro come un atto episodico da compiere a tempo debito e nient’affatto come un invito a praticare un’ascesi vitalizia. D’altronde egli derideva spesso i santoni, i guru, le meditazioni e ogni altro balocco mistico con un’ironia fantastica. Ricordo che una mattina, mentre ero intrappolato nella metropolitana di Taipei, sul mio volto comparve per l’ennesima volta un’espressione divertita e in quell’occasione l’innesco dell’ilarità fu una frase di Krishnamurti che paragonava l’ashram a un lager.
Io non mi avvicino a certe tematiche per sopperire alle  mancanze della mia vita e non cerco un pensiero al quale uniformarmi per denigrarne degli altri. Raccatto qualche visione d’insieme qua e là per prenderne ogni spunto che mi possa tornare utile nell’introspezione. Non m’interesso all’interpretazione del mondo in senso lato benché spesso l’autoanalisi la chiami in causa. Sono io la mia priorità, ma allo stesso tempo non posso inquadrarmi al di fuori del contesto sociale in cui vivo e se provassi a fare una cosa del genere mi limiterei a coltivare una nevrosi autoreferenziale. Faccio parte di questo mondo a tempo determinato e ormai, dopo quasi due decenni di adattamento, posso affermare di trovarmici bene.

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27
Ago

Introspezione retrospettiva: terza parte

   

Pubblicato venerdì 27 Agosto 2010 alle 06:08 da Francesco

Tra la prepubertà e la tarda adolescenza ho custodito regolarmente delle fantasie affettive in relazione all’altro sesso. A letto, prima di addormentarmi, assumevo spesso una posizione fetale e solevo cingere uno dei miei due cuscini per ricreare dei momenti d’intima dolcezza. Tutto ciò avveniva in modo spontaneo e mi faceva sentire bene, in particolare di domenica, quando alla possibilità di dormire più del solito si aggiungevano gli effetti di quella simulazione sentimentale. Non escludo che a quel tempo l’assenza di rapporti con le mie coetanee, oltre alla timidezza coeva, sia dipesa in minima parte anche dalla mia disponibilità a farmi bastare quelle fantasticherie notturne per soddisfare le mie esigenze emotive. Alla luce dei particolari anzidetti mi permetto di suppore che già allora in me fosse nascente l’attuale concezione dell’amore, seppur in una forma ancora grezza. Probabilmente le mie prime conclusioni sono state ideate attraverso gli sbagli altrui che ero abituato a ricavare in modo naturale dai discorsi degli adulti, durante quei pranzi e quelle cene in cui venivano consumati piatti abbondanti e sistemi nervosi. Senza saperlo io giocavo con le contraddizioni che udivo, giustapponendole e incastrandole come dei mattoncini colorati fino al punto di ottenere delle costruzioni rivelatrici.
Da adolescente non mi sono mai esposto ai pericoli dei rifiuti, però ho accolto le attenzioni di alcune ragazze curiose e sulla scorta di cotanta superficialità si sono originate delle infatuazioni platoniche piuttosto ridicole da cui ho comunque saputo trarre qualche insegnamento.
Ricordo una certa pudicizia nelle mie prime fantasie amorose che io faccio risalire all’età di dieci anni. Ricordo che allora l’idea di un bacio mi catapultava in un imbarazzo tremendo e quasi non riuscivo a concepirla. Provavo una sensazione analoga ogniqualvolta appoggiassi  la mano destra sulla zona vuota di un banco scolastico: mi sembrava di mettere il palmo sulla parte superiore di una coscia. Non sono mai riuscito a risalire fino all’origine di questo turbamento, ma credo che abbia evidenziato una dissonanza tra la totale estraneità all’erotismo e le prime masturbazioni, in concomitanza delle quali è poi sparito del tutto.
La mia fantasia nell’arco di tempo in esame si è divisa tra la pornografia e il desiderio profondo di avere una relazione: in seguito questi livelli della mia immaginazione si sono sovrapposti per conformarsi all’idea idilliaca di un legame completo. Se in questa fase delicata del mio sviluppo io avessi avuto una relazione sentimentale forse la mia mente si sarebbe impigrita e avrebbe compromesso o almeno reso più difficoltoso il mio percorso introspettivo. Quest’ultimo dettaglio non è nuovo, però mi piace riproporlo di tanto in tanto poiché lo considero come l’aneddoto di qualcuno che abbia scampato un pericolo enorme.
Anche grazie a questo iter tortuoso sono giunto a un livello di autocoscienza che reputo buono. Il processo di cambiamento è stato così veloce in me che ha doppiato la vecchia identità, ma a uno sguardo estraneo potrebbe sembrare che quest’ultima sia ancora in testa, anche in senso letterale. Un mutamento graduale e costruito sarebbe stato possibile da parte mia, ma avrebbe snaturato completamente la mia personalità per adeguarla a maggiori occasioni sul piano delle relazioni umane. La mia introspezione ha escluso l’evenienza dell’anaffettività nel mio carattere e per me già questo particolare è un motivo di contentezza abnorme, ma forse se me lo facessi bastare mi ridurrei ad ammodernare l’errore che fu proprio della mia pubescenza. È un segno di salute psichica la mia voglia d’amare ed è un capolavoro dell’autoanalisi la mia capacità di non sentirmi frustrato né amareggiato per l’attuale impossibilità di farlo, ma su questo punto non intendo spendere altre parole poiché in più occasioni ho incensato giustamente il mio stato d’animo e, per quanto sia stupefacente, a ‘na certa pure io mi rompo i coglioni di elogiarlo.

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25
Ago

Introspezione retrospettiva: seconda parte

   

Pubblicato mercoledì 25 Agosto 2010 alle 03:43 da Francesco

Tra l’infanzia e l’adolescenza mi sono sentito sempre inadeguato al cospetto della vita. Credevo di non essere affatto in grado di piacere agli altri, perciò spesso tendevo a isolarmi in silenzio o assumevo dei comportamenti asociali, volgari, talvolta persino aggressivi. Mangiavo molti dolci per colmare i vuoti affettivi, ma ovviamente non me ne rendevo conto, con buona pace del povero cesso che per oltre una decade ha ospitato i miei tocchi di merda. All’origine del mio disagio penso che vi sia stato un concorso di cause. In primis, ricordo un episodio che mi segnò.
Quasi certamente avevo cinque anni quando una sera d’estate i figli dei vicini mi esclusero dal loro gruppo e mi lasciarono davanti alla porta chiusa di una casa in cui erano entrati prima di me per giocare insieme. Io non ebbi alcuna reazione particolare, ma scesi le scale e rincasai. Da piccolo ero tremendo e fastidioso, perciò non escludo che l’assenza di proteste da parte mia sia stata in realtà un’ammissione di colpa (anche solo inconscia) e dunque posso supporre che io abbia ritenuto (giustamente) d’essermi meritato quel trattamento. 
In seguito stentai sempre di più a relazionarmi con gli altri perché temevo di rivivere lo stesso dispiacere. A quell’età non sapevo ancora scorgere né analizzare i movimenti del mio mondo interiore. Comunque l’episodio dell’esclusione mi espose ancor di più al clima familiare che era piuttosto teso, tanto che non c’era nulla che ricordasse anche solo per sbaglio il Mulino Bianco; manco i biscotti di quella marca arrivavano in tavola e difatti bruciavano prima in quell’atmosfera domestica, quasi come delle meteore ignifere. Il mio presunto padre era occupato con le amiche di mia madre e mia madre tra le sue priorità aveva l’onere di soffrirne. Mi ricordo ancora quando il mio presunto padre mi parcheggiava in sala giochi sotto l’egida del titolare (un suo amico) e se ne andava per qualche ora: io passavo i pomeriggi là, con i videogiochi, e mi divertivo.
Immagino che anche la mancanza di una figura paterna abbia contribuito a rafforzare in me una condotta erronea per tutta la fase del mio sviluppo, ma non posso certo negare quanto mi sia piaciuta quella libertà e probabilmente è stata più propedeutica di quanto avrebbe mai potuto esserlo una presenza soffocante.
È troppo facile accusare i propri genitori di essersi comportati male e io non mi avvalgo di una giustificazione del genere, altrimenti oggi, malgrado tutto, non sarei così radicalmente diverso da com’ero un tempo. Nessuno può imparare a crescere un figlio e la pedagogia non è una scienza esatta. Chi mi ha messo al mondo ha provato a tirarmi su, ma sotto molti aspetti ho dovuto rimediare io alle mancanze altrui. Comunque ho goduto anche di alcuni privilegi e ancor oggi devo molto a mia madre, perciò è giusto che io sottolinei anche questo particolare.
In fin dei conti non me la sono mai passata male e se pensassi il contrario allora dovrei proprio chiedermi come valutare le esperienze di quei miei coetanei che sono cresciuti nell’indigenza, tra storie di abusi e indifferenza. Certi figli tendono a fare i vittimisti per non prendersi alcuna responsabilità in merito ai loro demeriti, ma io non ho nulla da rimproverare a nessuno e sono contento di come mi sono corretto. Il mio carattere tra l’infanzia e l’adolescenza mi ha portato a non coltivare amicizie profonde né rapporti con l’altro sesso, infatti mi sono tagliato fuori da molte dinamiche sociali, ma questa mancanza, per quanto possa essere ritenuta gravosa, mi ha facilitato la vita. Oggi sono abbastanza maturo per intrattenere rapporti di ogni tipo e potrei persino avere una relazione, ma sono uno sconosciuto sereno e questo paradosso mi fa morire dalle risate. Va bene così.

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24
Ago

Introspezione retrospettiva: prima parte

   

Pubblicato martedì 24 Agosto 2010 alle 04:14 da Francesco

Non ricordo esattamente quanti anni avessi il giorno in cui si verificò questo episodio, tuttavia frequentavo la scuola elementare e il mio rapporto con il buio notturno non era ancora sereno. Una mattina mi svegliai prima di mia madre e dopo averla guardata per un attimo mi diressi in cucina per prendere un coltello. Dopo qualche difficoltà dovuta all’altezza a cui erano riposte le posate, riuscii ad afferrarne una e tornai subito nella stanza. Mi fermai a più di mezzo metro dal letto di mia madre e stetti attento a non fare rumore. Probabilmente non trascorsero neanche trenta secondi prima che in me sopraggiungesse uno spavento enorme. Mi allontanai dalla camera e ritornai in cucina per mettere a posto il coltello, però durante l’azione non riuscii a liberarmi dalla paura che mi aveva assalito qualche secondo prima e gli effetti di quest’ultima echeggiarono per giorni nel mio cranietto ingenuo.
Una lettura superficiale di questo episodio potrebbe indurre qualcuno a credere erroneamente che io abbia provato a commettere un matricidio senza riuscirci, ma trovo che un’interpretazione del genere sia risibile. Dopo molti anni penso di essere giunto a una spiegazione plausibile per quella strana mattina. Quand’ero bambino temevo tremendamente di perdere mia madre poiché se lei fosse morta io sarei rimasto solo al mondo, perciò mi inquietava molto questa idea ricorrente che spesso mi tormentava prima d’addormentarmi.
Quella mattina cercai di simulare una situazione pericolosa per capire quali sarebbero state le mie reazioni a una morte prematura di mia madre. Lo spavento che mi colse subitamente evidenziò un attaccamento forte e un timore altrettanto grande. Il mio stazionamento con un coltello in mano davanti a lei dormiente riprodusse per un breve momento la possibilità della sua scomparsa e non necessariamente per mano di un’altra persona, ma anche a causa di una malattia o di un incidente. Non ho mai avuto rancori forti con la mia genitrice, neanche durante l’adolescenza, quando cominciarono a crescere dei conflitti che poi svanirono del tutto un po’ di tempo dopo, quando ormai io avevo già passato la maggiore età. Ho vinto da pochi anni la paura di affrontare ed elaborare la perdita di mia madre, come del resto, sempre da parte mia, sono piuttosto recenti i superamenti di altri timori che alcune vite ospitano per tutta loro durata. Voglio bene alla mia mamma, specialmente ora che il cordone ombelicale non può più essere utilizzato sul patibolo.

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