13
Mag

Cibo

   

Pubblicato venerdì 13 Maggio 2011 alle 21:16 da Francesco

Ramen, tacchino e verdure al forno. Non sono mai stato un virtuoso ai fornelli e mai lo sarò. Anni e anni or sono mangiavo male poiché stavo ancora con mia madre e costei preparava i miei pasti. Sono rinato quando ho cominciato a gestire la mia alimentazione. Potrei assumere le proteine dai legumi per fare a meno della carne e diventare vegetariano, ma poi come potrei guardare i miei gatti negli occhi da carnivoro a carnivori? In realtà faccio già a meno della carne rossa, fatta eccezione per quelle rare volte nelle quali mi trovo a cenare con un kebab che acquisto sempre da un simpatico extracomunitario.
Il ramen e i noodles in generale mi deliziano oltremodo, specialmente quando il tutto risulta particolarmente piccante. Il negozio di cibo etnico nel quale mi rifornisco per me è un po’ come El Dorado. Nei prossimi giorni conto di prepararmi di nuovo un po’ di cous cous senza però aggiungerci alcunché. Gnam.

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11
Mag

Stato di fatto

   

Pubblicato mercoledì 11 Maggio 2011 alle 15:26 da Francesco

Sto completando la pagina numero quarantatré del mio terzo libro. Scrivo molto lentamente, ma inesorabilmente. In queste meravigliose giornate di primavera preferisco svolgere attività fisica all’aperto, perciò dedico alla scrittura quel tanto che basta per non trascurarla.
Ho cambiato il mio allenamento perché ho deciso di ridimensionare il ruolo della corsa sebbene quest’ultima resti un perno della mia attività. Ho sviluppato la resistenza aerobica al punto che per migliorarla ulteriormente dovrei dedicarmi all’agonismo, ma non intendo farlo poiché non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di fare il maratoneta. Ormai l’allenamento pesistico ha assunto un ruolo paritario alla corsa nel mio programma.
Ultimamente corro dodici chilometri cercando di sfiorare la soglia della mia frequenza cardiaca e a metà del percorso mi fermo per eseguire trazioni e addominali. Talvolta corro con le cavigliere da due chili e mezzo l’una, altre volte senza e ogni tanto le metto ai polsi dove le accuso di più. L’ausilio delle cavigliere mi ha aiutato a migliorare la forza esplosiva nelle gambe e la resistenza nelle braccia, difatti adesso riesco ad allenare ciascun bicipite con un manubrio da sedici chili: il bilanciere lo adopero soltanto per eseguire quella che in gergo si chiama military press. Invece le serie di piegamenti a terra sulle braccia le faccio sempre da quaranta ripetizioni l’una, ma con un ritmo più veloce rispetto al passato e talvolta ne eseguo qualcuna in più per gasarmi un po’. In ultima analisi, la mia attività fisica ha assunto i contorni di un allenamento militare che non ha nulla a che vedere con i programmi delle palestre né con corsi di qualsivoglia genere. Si tratta di un allenamento che ho ricamato su misura per me e nel quale, con l’avvento dell’estate, inserirò il nuoto. In passato sono stato sicuramente più veloce, ma non sono mai stato più forte di ora. Ovviamente io posso ancora correre senza problemi i ventuno chilometri sui quali mi allenavo precedentemente, tuttavia con un tempo medio superiore a quello che registravo quando la mia attività era prettamente aerobica e ciò è normale poiché ho dovuto sacrificare un po’ di velocità. Per quanto riguarda lo yeop chagi sono ancora lontano dal poterlo eseguire correttamente, ma ho notato qualche lieve progresso nella flessibilità degli arti inferiori (cazzo escluso).
Ho ripreso in mano un libro di programmazione in C per rinfrescarmi la memoria e avvalermi del linguaggio informatico per evitare che la mia mente si areni nelle letture di carattere umanistico. Spero che il mio terzo libro sia anche l’ultimo: vorrei evitare di scriverne altri. Speriamo bene, va.

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10
Mag

Princìpi d’amore

   

Pubblicato martedì 10 Maggio 2011 alle 16:41 da Francesco

Ultimamente dalle mie parole s’alzano verso la coscienza le mancanze affettive di cui io sono un portatore sano. Forse le spire della primavera, in cui paiono volteggiare le creazioni più sublimi, acuiscono in me una nostalgia che non posso definire tale perché antecede la separazione dalla quale solitamente si origina. Credo che ogni cosa buona si generi autonomamente e allo stesso tempo conceda agli esseri senzienti l’illusione di potersene ascrivere i meriti.
Ricorre in me la mancanza di una controparte e l’incompletezza che ne deriva. Talvolta mi sento come un invalido emotivo benché mi renda perfettamente conto di quanto io sia predisposto ad amare. Le incursioni dell’autocommiserazione vorrebbero minare la mia autostima, ma riescono soltanto a produrre frustrazioni di scarsa portata che puntualmente riciclo per produrre energia durante l’attività fisica. La tristezza non mi domina sebbene tenti in ogni modo d’impadronirsi di me, ma qualche volta credo che sia opportuno cedere  po’ di terreno alle forze antagoniste per poi metterle in fuga. Questa lotta interiore dimostra quanto io sia in salute sotto ogni aspetto. Se non provassi nulla o se mi fossi arenato in quella bieca idiozia che è il fatalismo, allora forse sfoggerei un’atarassia insincera. Il travaglio precede il parto e quest’ultimo attesta la creazione. Senza ingiuriare troppo la modestia, io mi sento come un tesoro da scoprire, immerso nel tempo corrente e nascosto dagli schemi consuetudinari delle relazioni interpersonali.
La mia inclinazione monogama desta spavento e agli occhi altrui produce congetture sbagliate. Non si tratta di una gara benché l’amore sia effettivamente una disciplina olimpica, ma ammetto di non conoscere persona alcuna che sia in grado di essere all’altezza d’un sentimento univoco. Concedersi a molti o a nessuno è cosa assai comune e semplice, perciò a qualsiasi livello, fisico o platonico, taluni e talune tengono i piedi in più scarpe, ma proiettare il tempo e le attenzioni verso un unico individuo senza ingenerare dipendenza reciproca è un atto miracoloso.
Non è una semplice unione dilatata nel tempo ad elevare l’animo umano, altrimenti basterebbe omologarsi ai falsi valori di qualche stupida religione per toccare il cielo con un dito, bensì è la consapevolezza e l’autenticità dei sentimenti reciproci a determinare una compiutezza duplice. Dall’istinto si può evadere soltanto con la ragione e secondo me è un percorso razionale quello che conduce all’amore sebbene io creda che quest’ultimo non rientri nel primo né nella seconda. La poesia e il romanticismo spicciolo alimentano i rapporti di dipendenza, nascondendone i tratti insinceri con parole quali “alchimia” e “magia”, ma io non conferisco all’amore soprannaturalità e per questo motivo lo elevo al livello dell’essere umano invece di confinarlo nella superstizione. La mancanza che provo è naturale così come lo è ciò che può dissolverla, di conseguenza tutto è nell’ordine delle cose e per me è un grande privilegio rendermene conto.
Chiunque venga sopraffatto dalla tristezza per l’assenza d’amore nella propria esistenza forse riduce a quest’ultima l’intera realtà, ma la natura e le regole che la sottendono non sono affatto il riflesso di un’esperienza soggettiva. Un tempo gli esseri umani si limitavano a riprodursi, ma poi alla necessità di figliare s’aggiunse quella di amare nel senso più profondo che da qualche secolo viene attribuito a questo verbo, erede di parole diverse e sito nell’etimologia quanto lo è l’amore nella filogenesi. Non mi si parli d’amore quando due solitudini annoiate si ritrovano a giocare con i loro sessi: quello è un passatempo istintuale che se venisse praticato in misura maggiore renderebbe questo pianeta meno frustrato e non è affatto paradossale che io scriva ciò. Quanto mi auguro non s’eredita né si compra, non si patteggia né si può pretendere, perciò è meglio che io aguzzi lo sguardo per ravvisarlo nel susseguirsi degli eventi.
Nessuna idealizzazione deve colonizzarmi e non devo tributare nulla ai pensieri perché questi non esistono a meno che non abbiano dei garanti nella realtà in grado di avvalorarne l’essenza. Nella realtà quotidiana quanto ho scritto finora non si tradurrebbe né si traduce affatto in un asservimento mutuo e sfuggirebbe (difatti sfugge) di certo ai toni ampollosi di questo appunto, perciò conterebbe (e solo può contare) sull’ironia, perno di ogni istanza che abbia la sua origine nelle regioni più nobili e autentiche della personalità. Io non devo identificarmi nell’altra né delegarle la mia sopravvivenza, bensì rassicurarla per andarci di pari passo.

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9
Mag

Il sei giugno dell’ottantaquattro

   

Pubblicato lunedì 9 Maggio 2011 alle 11:46 da Francesco

Vado dritto verso i ventisette anni e non mi sono mai sentito meglio. Dando un rapido sguardo al passato vedo un bambino timido e un adolescente disadattato che non c’entrano più niente con il sottoscritto. Qualche persona della mia infanzia è morta, qualcun’altra è come se lo fosse, però io sono ancora qua e non me la passo male. Forse avrei potuto combinare qualcosa di più nella vita, ma per fortuna non l’ho fatto. Mia madre sarebbe stata contenta se mi fossi iscritto all’università e forse alla fine anche a me avrebbe fatto piacere frequentare una facoltà, però io non ho mai avuto grandi ambizioni tranne quella d’amare, forse una delle più difficili da coronare e infatti non ho mai passato il test d’ingresso.
Sono stato bocciato, mai baciato, e ho sempre ripetuto lo stesso esito. Eh, esaminatrici severe. Ho tutta la vita davanti, anche se dietro me ne manca qualche pezzo. Attorno a me vedo padri di famiglia, arrivisti, studenti, farabutti e utopisti svogliati. Qualcuno corre ancora dietro ad un pallone ed è l’unica cosa che riesce a far rotolare dalla propria infanzia. Quasi tutti miei coetanei sono diventati adulti nel peggior senso della parola. Credo che ognuno decida deliberatamente quando invecchiare. Sono governato da idioti che a loro volta vengono criticati da altri idioti e anch’io a mentre punto il dito contro questi individui non mi sento particolarmente intelligente.

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7
Mag

Emozioni evolutive

   

Pubblicato sabato 7 Maggio 2011 alle 01:15 da Francesco

Se io mi fossi lanciato nella lettura de “Il cervello e il mondo interno” da una base di convinzioni religiose o filosofiche forse avrei finito per prendere in considerazione l’eventualità di suicidarmi. Ritengo che un approccio sbagliato al libro summenzionato possa creare derive materialistiche e disincanto, ma per fortuna io non sono andato incontro né alle une né all’altro e non ho avuto problemi ad accettare la nicchia genotipica delle emozioni di base.
Al momento mi trovo ad affrontare quelle pagine che trattano delle emozioni e dei luoghi in cui queste si originano. Non nego (né d’altro canto potrei) d’aver provato un po’ di disagio quando ho compreso pienamente che le emozioni possono essere accese, spente e modificate con la somministrazione di alcune sostanze, per mezzo di ablazioni chimiche o con interventi chirurgici. Ovviamente non mi sono stupito di quello che ho letto poiché ero già a conoscenza di quanto le emozioni siano ascrivibili ai processi neurobiologici, tuttavia mi ha colpito la freddezza di come è stato sottolineato questo rapporto; d’altronde non potevo nemmeno aspettarmi qualcosa di diverso poiché ho tra le mani un testo scientifico, mica “Cime tempestose”.
Le cosiddette “emozioni di base” sono comandate da quattro sistemi e le strutture che questi chiamano in causa si concentrano in una regione cerebrale circoscritta, più precisamente tra le zone superiori e mediali del tronco encefalico. Ho appreso che durante alcuni esperimenti certe cavie animali subordinavano le azioni biologicamente utili all’esecuzione di compiti che, con la tecnica del bastone e della carota, permettevano loro di ricevere una stimolazione elettrica del sistema di piacere, sito in gran parte nel prosencefalo basale. Il parallelismo tra le cavie di cui sopra e i tossicodipendenti  è sorto spontaneamente in me, ancor prima che il libro me l’offrisse. Il sottotitolo di questo volume è “Introduzione alle neuroscienze dell’esperienza soggettiva” e lo trovo significativo. La mia formazione autodidattica è prevalentemente umanistica benché di fatto non lo sia secondo certi canoni e forse per questa ragione ho impiegato un po’ di tempo a mettere le mani su determinati testi. Alla mia introspezione sta giovando la trattazione di questi argomenti e sarebbe stato meglio se già in passato me ne fossi interessato con più attenzione.

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3
Mag

Nell’ecumene

   

Pubblicato martedì 3 Maggio 2011 alle 00:13 da Francesco

Negli ultimi giorni l’agenda del globo terrestre è stata dettata da avvenimenti che hanno avuto una grande risonanza, tuttavia soltanto le nozze reali hanno suscitato in me un po’ di curiosità. Kate Middleton mi ricorda la ragazza australiana (di origini scozzesi) che lo scorso gennaio mi folgorò con il suo sguardo indaco durante il tragitto in barca sul fiume Hozugawa. Anche se non dovessi mai esperire l’amore, mi resterà comunque quella visione celestiale da portare con me. Mi ha disgustato il fanatismo che ha accompagnato la beatificazione di quel vecchio filibustiere di Karol Wojtyla e spero vivamente che il clero imploda presto come il nucleo di una supernova. In quest’epoca l’ignoranza e la superstizione esercitano ancora la loro egemonia. Tanti fedeli si dichiarano tali senza conoscere profondamente la dottrina che abbracciano e ciò vale per ogni religione. In Italia l’aria è viziata dal misticismo da osteria che si respira in vari ambienti, a vari livelli e per causa di una variante del varicocele che affligge le teste di cazzo: l’eziologia risiede nell’escatologia, nell’ermeneutica, insomma, nel mito.
Per Gandhi, con la mentalità dell’occhio per occhio il mondo diventerebbe cieco, ma la perdita della vista almeno permetterebbe a questo pianeta di non doversi più specchiare nelle proprie miserie. I terroristi sono come i papi e viceversa: morto uno ne giunge un altro. Poveri tutti noi. Mi auguro che un giorno il mondo possa fare a meno delle carceri e che invece di correre ad armarsi corra ad amarsi, ma per ora quell’orgia planetaria la ritengo più distante di quanto la mia immaginazione riesca a galoppare. Intanto la Luna c’è sempre, pallida per lo spavento di ciò che è costretta a vedere. Anche il sistema solare è colpito dalla piaga del bullismo. C’est la vie.

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1
Mag

No mercy for any fashion victim

   

Pubblicato domenica 1 Maggio 2011 alle 02:49 da Francesco

Aborro i jeans e le camicie, difatti non ne possiedo. Mi disgustano i bottoni e le chiusure lampo. Per me la t-shirt è quasi una seconda pelle e la uso anche d’inverno nonostante le perplessità degli estranei. Le felpe le adopero di rado o quando mi trovo all’estero, ma tendo a vestire allo stesso modo per tutto l’anno, un po’ come il personaggio di un cartone animato. Non potrei mai separarmi dai pantaloni di tuta sportiva che recano due bande per gamba e lo stemma di un qualche club calcistico in declino benché io, sia chiaro, non tifi per nessuna squadra.
Quanto scritto finora potrebbe identificare il mio stile come prossimo a quello di un senzatetto o di un nordafricano in cerca di un futuro migliore, ma io preferisco definirlo uno stile “pop”. Adoro la t-shirt ironica e politicamente scorretta perché veicola un messaggio. Non spenderei manco mezza rupia per indossare dei capi griffati. Sono sempre stato un minimalista. Da piccolo mia madre mi vestiva come un coglione, infatti prima d’entrare nell’età della ragione avevo una guisa alla Gian Burrasca sebbene nell’animo assomigliassi più a Saddam Hussein, come soleva chiamarmi la mia nonna materna ai bei tempi della prima guerra del Golfo (invero anche dopo). Io non sono sciatto, bensì diversamente fashion. In realtà della moda non me ne frega proprio un cazzo e nessuno mi vedrà mai con un paio di Ray-Ban sul volto. D’altronde Franco Battiato ai tempi di “Bandiera Bianca” intonò una grande verità: “C’è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero”.
La mia non è avversione verso un determinato mondo, bensì una sorta di fanatismo per quella santa alleanza che vede coinvolti lo stile personale e la comodità. Ai piedi porto sempre un paio di Mizuno per essere pronto a correre in qualsiasi momento, ma non disdegno manco le Asics. Spesso noto come certe aspiranti sgualdrine tentino goffamente di imitare Kate Moss e in me suscitano tanta tenerezza, come se bastasse avere una trentotto e sniffare cocaina per avere stile. Un portamento grezzo, dei movimenti rozzi, una dizione degna di una vaiassa e un ricorso al trucco a mo’ di Scaramacai rendono certe signorine le antagoniste agguerrite dell’eleganza e soprattutto della naturalezza che a mio avviso va di pari passo con la prima.
Provo un’avversione estetica verso quelle donne che caricano i loro corpi con vestiti e oggetti che non sono chiaramente in grado di portare, perciò credo che un negozio di moda o un atelier prima di fornire un abito dovrebbero approntare un corso per l’abilitazione ad indossarlo. Provo quasi ribrezzo dinanzi a certe stonature e preferisco di gran lunga guardare la merda dei cani che si mette in posa sui marciapiedi. L’abito non fa il monaco, però talvolta può far sorgere il desiderio di diventarlo. Di per sé la questione stilistica è una grande cazzata, ma è indice di qualcosa di più profondo. Ci sono sottigliezze che fanno grandi differenze in campi che paiono non riguardarle. Un esempio per rendere più chiaro ciò che intendo può mettere a confronto le differenze tra Roberto Bolle e qualunque altro individuo che abbia un corpo simile ma che non sia in grado di muoverlo allo stesso modo.

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28
Apr

La mente, la coscienza e il corpo: triumvirato esistenziale

   

Pubblicato giovedì 28 Aprile 2011 alle 16:26 da Francesco

Sono un vile perché zucchero il tè verde, ma espio le mie colpe levando le zecche ai miei gatti. Quando Freud affermò che la coscienza è solo una proprietà della mente egli ricevette molte critiche dai luminari del suo tempo, però in seguito la sua posizione fu ripresa da vari neurologi. Secondo quanto ho letto, la coscienza si originerebbe nel tronco encefalico e riguarderebbe una percentuale assai ridotta delle azioni umane che in larga parte (per oltre il novanta percento) si svolgerebbero inconsciamente.
Sono stato un po’ spiazzato dallo stretto legame che pare intercorrere tra l’evoluzione biologica e la coscienza, però non sono riuscito a convincermi che tale rapporto non sussista. Sono stato colpito anche dalla questione dell’esperienza unificata della coscienza, difatti gli stimoli sui quali si poggia quest’ultima seguono percorsi differenti nel cervello e non è chiaro come poi risultino inscindibili all’individuo. Per chiarire questo punto alcuni studiosi hanno cercato di identificare le strutture che accolgono ed elaborano gli stimoli delle percezioni, io tuttavia sono rimasto più affascinato dall’ipotesi dei quaranta hertz che declina la questione in termini temporali. Secondo l’ipotesi summenzionata, e stando a quanto ho letto limitatamente all’esperienza visiva, vi sono cellule corticali che effettuano scariche sincronizzate con un ritmo di quaranta hertz, perciò ogni secondo di coscienza sarebbe suddiviso in quaranta momenti che si alternano in modo talmente rapido da garantire alla coscienza la sua parvenza continuativa e unitaria. Durante la lettura di questo argomento mi è venuta in mente una citazione olistica di Aristotele: “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”.
Ho esteso il mio sorriso quando mi sono imbattuto sul ruolo che gioca l’intelligenza nella mente. Attraverso alcuni esempi che prendevano in esame l’intelligenza artificiale per il test di Turing è emerso chiaramente come non sia possibile riprodurre anche una mente, difatti un software su un computer non ha consapevolezza di sé e non può generare il bagaglio emotivo che risulta proprio di un individuo. Tutto ciò avalla la tesi secondo la quale la coscienza è legata al tronco encefalico che a sua volta è in stretto collegamento con i visceri del corpo, perciò anche a me pare plausibile che la presenza di quest’ultimo determini la coscienza. Quanto ho appreso mi è chiaro, o almeno credo, e da profano non ho ragione di obiettare qualcosa, però io credo che sarebbe un errore considerare tutto ciò come bieco materialismo.
Prima di affrontare l’argomento in una lettura recente, non avevo mai considerato la possibilità che un comportamento cosiddetto “intelligente” potesse verificarsi anche laddove mancasse la coscienza. A riprova di quanto appena scritto vi sono casi di pazienti neurologici in cui sono state riscontrate delle capacità cognitive nonostante queste non fossero accompagnate affatto dall’esperienza cosciente. Da questo punto si genera una domanda interessante sul ruolo e il fine della coscienza, difatti se i comportamenti intelligenti sono possibili anche in sua assenza allora sorge spontaneamente la necessità di spiegare il motivo della sua esistenza.
A costo di saltare di palo in frasca (ma non credo di correre questo rischio) mi sono imbattuto in un’intervista a Michelle Thomasson, moglie di Henri che diffuse in Italia il pensiero di Gurdjieff. Costei afferma delle cose interessanti in cui mi rivedo e parte da considerazioni sull’estetica per estenderle coerentemente fino a questioni esistenziali: notevoli gli ultimi tre minuti e mezzo.

“La ricerca del conforto e del non-sforzo ci ha condotto ad essere completamente schiavi […] la nostra propria vita è passata al servizio della materia”
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25
Apr

Neuropsicoanalisi

   

Pubblicato lunedì 25 Aprile 2011 alle 20:05 da Francesco

Da circa una settimana mi sono immerso nella lettura de “Il cervello e il mondo interno” di Mark Solms e Oliver Turnbull. Questo testo costituisce un punto d’incontro tra le neuroscienze e la psicoanalisi, ma forse sarebbe più opportuno definirlo come un ricongiungimento poiché Freud riconobbe i limiti di cui soffriva la neurologia al suo tempo e l’abbandonò per battere una strada che ancor oggi certuni (specialmente nel mondo scientifico) fanno oggetto di ludibrio.
Un paio di anni fa ho letto un manuale di neuroscienze, però ne ho ricavato un’infarinatura che soltanto adesso mi risulta meno confusionaria, grazie all’integrazione con la lettura del libro suddetto, e di cui, in ogni caso, conservo pochi concetti di base. Temi quali la neurofisiologia, la neurochimica e la psicofarmacologia mi attraggono, tuttavia non intendo profondere sforzi per studiare compiutamente queste branche del sapere perché, oltre a dubitare d’esserne in grado, posso limitarmi ad attingere quanto mi è necessario e indirizzare altrove le mie energie.
Il tentativo di mappare la coscienza nelle aree del cervello è affascinante e, con un approccio un po’ naif, mi domando se i progressi in questa direzione possano portare l’uomo a svelare cosa si celi dietro (o dopo) la perdita della coscienza nel senso tanatologico del termine.
Di difficile accettazione e di stampo materialistico, voglio annotare una citazione di Francis Crick che tuttavia dal basso della mia ignoranza non sottoscrivo affatto: “Tu, con le tue gioie, i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, non sei altro che la risultante del comportamento di una miriade di cellule nervose e delle molecole in esse contenute”.
Sulla relazione tra cervello e mente la filosofia ha creato varie scuole di pensiero (eh, penso che non vi sia espressione più adatta in questo caso) e le più diffuse sono sintetizzate nelle pagine de “Il cervello e il mondo interno”. Tra le varie teorie sono stato colpito da quella del monismo dal duplice aspetto percettivo. Secondo questa concezione un essere umano non è in grado di conoscere la materia di cui è composto senza prima rappresentarsela attraverso le percezioni. Di conseguenza, secondo il monismo dal duplice aspetto percettivo non è possibile conseguire una visione diretta della materia della mente, bensì solo rappresentazioni figurate: dei modelli. Stando a quanto ho letto e capito, la mente appare fisica quando viene osservata dall’esterno e assume un aspetto “mentale” da una prospettiva interna, rendendola perciò una produzione delle percezioni e ciò sottolinea una sorta di conflitto d’interessi dove l’osservatore della mente è anche il mezzo attraverso cui la suddetta viene osservata. Da qui (o meglio, anche da qui) continua l’indagine sul legame che correla la soggettività di un individuo ai processi del cerebro.

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23
Apr

Il sogno della perdita dei denti

   

Pubblicato sabato 23 Aprile 2011 alle 23:11 da Francesco

Due settimane fa ho sognato di perdere i denti: un evento onirico del genere non mi è nuovo. Per la tradizione popolare (probabilmente eredità della cultura greca) questo genere di sogno annuncia la morte di un congiunto, però secondo altre interpretazioni, più oculate e prive della zavorra della superstizione, la perdita dei denti può essere legata alla paura della fine di una relazione sentimentale o di qualcosa che le assomigli.
Escludo quest’ultima ipotesi poiché io non ho legami profondi con nessuno. Nel sogno, appena muovevo la lingua sopra i denti questi si staccavano dalla gengiva e finivano a terra. Come ho letto altrove, la lingua può simboleggiare la parola e dunque il sogno potrebbe significare il mio timore di porre fine ad un rapporto per mezzo di una conversazione. Poiché nella mia esistenza al momento non ci sono rapporti importanti (che lo ripeta nell’arco di poche righe è indicativo), tendo a credere che il sogno si riferisse ad un rapporto potenziale e allora tutto mi tornerebbe. Tra le altre letture possibili ho notato che vi s’annovera anche il timore di non essere all’altezza di qualcosa, ma anche la paura di invecchiare si staglia nel quadro delle interpretazioni papabili. Sono portato a ritenere che la matrice del mio sogno sia stata un’esagerazione di alcune ansie frammiste a piccole frustrazioni, tuttavia nulla di cui debba avere ragione di preoccuparmi. Tutto ciò mi ha ricordato che da piccolo mio padre (questa figura ignota) mi allungò uno schiaffo e mi fece perdere un dente da latte che comunque si sarebbe staccato presto: rammento che il fatto avvenne su una salita. Mi chiedo se possa esserci una connessione tra l’episodio infantile e il sogno suddetto. In ogni caso i miei denti sono sani, ben saldi e non ospitano manco una carie. Forse devo staccarmi un molare, metterlo sotto un bicchiere e attendere che la fatina dei denti arrivi a raccattarlo per avere l’occasione d’invitarla ad uscire insieme a me.

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