Sabato sera sono andato a mangiare un calzone senza prosciutto cotto in un’ottima pizzeria. Dopo mezz’ora dal mio arrivo un gruppo di statunitensi si è accomodato ad un tavolo vicino e io sono stato ipnotizzato dalla yankee più giovane, probabilmente la figlia di una delle due coppie che facevano parte della compagnia anglofona. Ho riconosciuto quasi subito l’accento di quegli avventori e con altrettanta celerità l’aspetto e la voce della bionda suddetta m’hanno rapito. A più riprese ho scambiato delle occhiate fugaci con costei, ma devo ammettere di non essere riuscito a sostenere il suo sguardo abbastanza a lungo per stabilire un ponte radio.
Più i minuti passavano e più cresceva in me il desiderio di conoscere quella ragazza, però non avevo idea di come rompere il ghiaccio. Per introdurmi avrei potuto domandare l’intenzione di voto a lei e ai suoi commensali, ma se mi avessero detto di appoggiare Romney probabilmente non sarei nemmeno riuscito a finire lo squisito calzone senza prosciutto cotto che nel frattempo mi era stato portato. La situazione non mi ha permesso alcun tipo di approccio e quando me ne sono dovuto andare l’ho fatto a malincuore. Non so che tipo di persona si celasse dentro quella statunitense, però mi sarebbe piaciuto scoprirlo in una conversazione lunghissima. Per me sono rare le intuizioni di questo tipo e non riesco mai ad approfondirne una. Forse ho un debole per le anglosassoni dato che, in ordine di tempo, la penultima sensazione di questo tipo l’ho avuta più di un anno e mezzo fa a Kyoto al cospetto di una meravigliosa australiana. Ah, il caso!
Mercoledì mi sono recato a Bologna per godermi l’Heidenfest. Purtroppo sono giunto con un’ora di ritardo, di conseguenza mi sono perso l’apertura dei Krampus e una parte dell’esibizione dei Trollfest, ma tanto non m’importava granché né dei primi né dei secondi. Ho rivisto i Varg che avevo già avuto modo di apprezzare quattro anni prima al Paganfest e mi hanno convinto ancora una volta nonostante i loro dischi non mi facciano impazzire. Anche i Korpiklaani mi sono piaciuti parecchio e ho gradito il loro folk metal assai festoso, trascinato da parti di violino efficacissime. Quando sono saliti sul palco i Wintersun ho iniziato davvero a gasarmi e non so che elogi fare a questi finlandesi senza cadere nella banalità. Il nuovo album a mio avviso supera il primo, quel debutto omonimo uscito ormai otto anni fa, ma durante il live non ho sentito manco un attimo di calo e ho assistito ad un continuo susseguirsi di pezzi epici che m’hanno trascinato. Non ho potuto filmare Jari e soci perché mi trovavo in prima fila, attaccato alla transenna, perciò troppo vicino al palco per eludere una registrazione eccessivamente distorta: in compenso ho preso qualche ricordino filmato dei Varg (ottimi organizzatori di moshpit) e dei Korpiklaani.
Mi sono goduto un gran bel concerto, in un’ottima atmosfera, con un pubblico partecipe e gruppi validi: ancora una volta posso affermare che è valsa la pena di fare quasi settecento chilometri.
Parole chiave: Heidenfest 2012
Slancio cadaverico
Mi trovo in una notte incantevole, coi pensieri tutt’intorno al fuoco sacro della mia forma mentis. Sfoglio piano il libro dei morti per trovare una piega da dedicare a qualche agonizzante di mia conoscenza. Stride il mio distacco austero dinanzi ad un alito di vita sempre più fievole, tuttavia per me la pietà non è un premio alla carriera.
Non m’interessa ricavare la vanagloria di un’inutile coerenza, bensì ho cura di mantenere intatta la mia spontaneità mentre un corpo avanza verso una decomposizione inevitabile. Seggo sullo scranno di un’età giovane e mi pare di tenere il mondo in pugno proprio come taluni un tempo stringevano il globo crucigero, ma anch’io prima o poi dovrò abdicare e ho la sensazione che in parte la scrittura sia propedeutica per l’avvicinamento alla dimenticanza cinerea alla quale sono destinato. Il mio entusiasmo per la vita passa attraverso la certezza della fine e vado in estasi quando riesco a trattenere in profondità questa concezione, ma qualche volta mi distraggo e fatico ad avvalermi d’un approccio così ameno. Danzano Eros e Thanatos, ora vicini, ora lontani. Qua soltanto le apparenze sono macabre, però servono anch’esse per esorcizzare il timore e la tradizione cristiana che lo alimenta. Non sono proprio in grado di descrivere i moti d’entusiasmo che talvolta ribollono in me, ma dimostro la stessa incapacità nel tentativo di coniugare queste parole con ciò che dovrebbero sostenere. La morte di cui vaneggio non è quella d’inedia che si abbatte quotidianamente nel mondo, non è manco quella elargita dai signori della guerra né il risultato di sfruttamenti d’ogni genere, ma si tratta di una fine più dolce nei modi e altrettanto categorica nell’esito. Sono consapevole del duplice privilegio che il caso mi ha concesso, ovvero quello di contemplare la morte con calma e di potermici preparare, perlomeno in qualche misura. Non ho alcuna fretta di defungere, però mi piace pensarci perché mi rallegra.
Vorrei tanto che il mio primo appuntamento con una ragazza avesse luogo in un cimitero, tra le tombe e il silenzio: io lo troverei di un romanticismo infinito, specialmente con una femme fatale.
Parole chiave: danse macabre, danza macabra, globo crucigero, morte e romanticismo, slancio cadaverico
Minuzie ordinarie
La mia esistenza è sottoposta a dei cicli ed è per questa ragione che a intervalli regolari tendo a imbevere le parole nella ridondanza, ma tali ripetizioni costituiscono anche una prova pedante e monotona della coerenza che fa da sostrato alle fasi suddette.
Mi trovo in luna crescente, come per altro attesta il colorito latteo che non abbandono neanche l’estate. In questo periodo oscillo tra un umore neutro e un po’ di entusiasmo: metterei la firma al cospetto di qualunque vicario di Lucifero per mantenere lo status quo, ma sfortunatamente un servizio del genere non è previsto dalla compagnia assicuratrice che al momento mi succhia il sangue. In realtà sono perfettamente conscio dei turbamenti che prima o poi si abbatteranno sulla presente quiete, d’altronde conosco bene la calma foriera di tempesta, però sono altresì certo che saprò far fronte ai fastidi futuri senza concitazione. Mi sento nel pieno possesso delle facoltà d’intendere e volere, imperniato su una lucidità estrema, tuttavia resto carente a livello affettivo e non ho proprio idea di come colmare questa lacuna. Immagino che prima o poi avrò la possibilità di vagliare le occasioni che il caso mi sottoporrà, ma io farei già un passo avanti se mi sbarazzassi dell’ampollosità con cui talvolta mi faccio scudo, un po’ come in questo appunto.
In totale distensione
Dovrei crearmi un futuro io che non vivo nel passato e salto a piè pari sul presente: sono senza fissa dimora nel tempo. Accenderei un cero alla Madonna se prima mi fosse dato di cospargere cherosene tutt’intorno. Non sono un piromane né un indigente, perciò non ho a disposizione né il fuoco sacro né la rabbia sociale. Mi assolvo e porto i giudici a bere qualcosa, ma non c’è nulla che m’ispiri nelle sostanze alcoliche e dunque non mi resta che attendere la loro ubriacatura per accennare risate di circostanza: mi piace tanto la granita alla menta, anche a gennaio.
Mia madre è preoccupata e vorrebbe che circuissi qualche coetanea, però io non credo molto ai facili e sporadici entusiasmi di cui ogni tanto sono oggetto: faccio il toy boy per le fantasticherie passeggere di nubili addolorate. La verginità non mi pesa e anzi, non trovo un contrappeso che mi convinca a rimuoverla dal curriculum vitae. Tutti la sanno più lunga di tutti: ecco come si fa la scaletta per andare a fare in culo. Sono in giacenza e non mi aspetto che qualcuno mi ritiri, men che meno il sottoscritto: never back down. Noto troppo affanno per fanfaluche e fanfaroni: io mi defilo e calcio via la matassa. Mi sfugge la differenza sostanziale tra l’inseguimento della lepre e la lepre in quanto fuggiasca. Al traguardo mando il sosia e gli cedo tutti gli onori. Ho baci nuovi di zecca, mai usati, parole intonse, roba che non si trova dai rigattieri né dai puttanieri redenti. Non mi ci vuole nulla a segnarmi un bersaglio sul miocardio, tuttavia sono le tiratrici che latitano ancor prima dello sparo: contumacia preventiva. Il verbo non mi spaventa, però quello con la vu maiuscola mi fa ridere di gusto: m’immagino Cristo che moltiplica cazzi. Ah il turpiloquio, tuttavia concedo spazio anche a sprazzi di sentimento e la dimostrazione è qualche riga sopra, come i panni stesi in un condominio: all’ultimo piano c’è sempre qualcuno che progetta il cedimento delle fondamenta. Se avessi una specialità mi farei valere nei suoi confini, ma brillo lo stesso in lontananza e non pretendo di attirare telescopi né occhiali: emano luce fine a se stessa.
L’eutanasia dovrebbe essere un diritto per tutti. Se fossi un malato terminale rifiuterei ogni tipo di accanimento terapeutico e cercherei una morte dolce. In Italia non c’è la libertà di disporre del proprio corpo perché il Vaticano vuole imporre anche ai non credenti i suoi precetti deliranti. Queste ingerenze sono i capisaldi di una teocrazia invisibile che cagiona inutili sofferenze e crea corsie preferenziali per coloro che possono permettersi un viaggio di sola andata all’estero.
Non sono un cattolico e non voglio avere niente a che fare con la religione di merda che inquina la mia nazione, ma l’avverso perché s’impone attraverso degli alfieri politici, ovvero puttanelle al soldo di alti prelati. Il cattolicesimo è intriso di fanatismo, ma se fosse un culto privato a me non recherebbe fastidio alcuno. Se un domani io dovessi ammalarmi gravemente la mia volontà non verrebbe tutelata e sarei costretto a sottostare a quello che de facto è un divieto ecclesiastico. Forse il dio inteso da Nietzsche è morto, ma evidentemente occorre fare scempio del cadavere affinché non ne rimanga più traccia.
Altre volte ho accennato l’argomento, ma negli ultimi giorni sono tornato a ripensarci perché ho visto uno spot geniale a favore dell’eutanasia in cui s’invitano i malati terminali a farsi vivi per prenderne parte. Qualcuno ha trovato tale iniziativa di cattivo gusto, ma penso che difficilmente una campagna del genere avrebbe potuto trovare un’impostazione migliore: da parte mia tanto di cappello! La vita non appartiene a nessuna divinità del cazzo ed è disumano sacrificare la dignità di certi malati per contentare un branco di dementi. Un cattolico deve restare libero di soffrire quanto e come vuole, allo stesso modo in cui riconosco il diritto dei Testimoni di Geova a rifiutare le trasfusioni di sangue, ma parimenti la mia volontà deve essere rispettata in pieno. Tutto questo discorso gronda banalità in quanto è formato da auspici che dovrebbero essere già conquiste datate, ma credo che ormai sia soltanto una questione di tempo e spero di vivere abbastanza per usufruirne sul punto di morte qualora dovessi giungervi con un male oscuro.
Parole chiave: autodeterminazione, eutanasia, malato terminale
Dissolvenze
A me non interessano i piani pensionistici né le prospettive di crescita economica, tuttavia non mostro disprezzo per scadere in un anticonformismo banale né tanto meno per darmi un tono. Io vorrei avvicinarmi davvero a quella mentalità che permette di accogliere la morte in qualsiasi momento, senza l’ausilio di ciarle roboanti che hanno il solo scopo d’intonare una virilità stantia. Per me questo è un tema ricorrente poiché lo considero un punto di svolta per la mia esistenza e al tempo stesso un obiettivo irraggiungibile. Non so proprio come spiegarmi senza prestare il fianco all’approssimazione. La cultura cristiana non facilita il raggiungimento di questo obiettivo perché infonde una parvenza d’eternità nella percezione del tempo anche in alcuni di coloro che fanno professione d’ateismo: questa è una delle tante colpe che imputo alla fede monoteistica di cui sopra. Per me il culto della morte non deve essere contrapposto alla vita né tanto meno deve ridursi ad un’autodistruzione che usurpi il buon nome del nichilismo, bensì lo considero un modo per comprendere la propria finitezza. Io devo morire. Il mio cuore smetterà di battere, il mio ricordo sarà spazzato via e prima o poi la stessa fine toccherà al sistema solare nel quale ho avuto il privilegio di vivere per quello che è un battito di ciglia nei tempi dell’universo.
Queste parole restano banalità a meno che non producano un minimo livello d’inquietudine in grado di certificare il loro impatto sulle profondità di chi le verga e di chi le legge. Con tutto ciò io non intendo disinnescare qualunque anelito, ma rafforzarlo in favore di quella clemenza cosmica che è la fine. A me spaventerebbe l’idea di vivere per sempre. Rinuncerei all’immortalità anche se la prossima finanziaria la prevedesse per tutti i cittadini maggiorenni: tutt’al più mi potrebbe andare bene una proroga di qualche secolo per mera curiosità, ma poi saluterei tutti e mi ritirerei nel nulla senza più abiti né carne.
Alla fine di questo appunto mi rendo conto che non riesco neanche a scalfire il muro che separa la mia capacità di esprimermi dal concetto che io cerco d’illustrare senza successo, come se quest’ultimo fosse ineffabile: non so se lo sia davvero o se sia la mia mediocrità a renderlo tale.
Parole chiave: dissolvenze, fine della vita, la morte
Di senso compiuto
In testa non porto turbamenti né turbanti. Attraverso un periodo neutro, ma non si tratta di un appiattimento emotivo. La calma della mia vita interiore può essere confusa col disinteresse, ma in realtà è una grazia periodica che si presenta ogniqualvolta i miei desideri risultino sfitti.
Non ho un nome da caldeggiare nottetempo. Attorno a me noto molti comportamenti meccanici e anch’io talvolta ne assumo qualcuno a mia insaputa, però faccio il possibile per non entrare in tali ingranaggi. Mi riferisco a questioni prettamente affettive giacché scadrei in una ottusità fuori misura se prendessi in esame qualcosa di meno privato. Talvolta mi sento come un cane che tenta invano di mordere la propria coda quando invece vorrebbe scodinzolarla per un buon motivo. Faccio da mediatore tra i miei slanci naturali e la mia interpretazione della realtà, però non sono ancora riuscito a trovare un punto d’incontro, in senso lato. Spesso avverto troppo pressappochismo nell’aria. Ho la pressione bassa e il morale alto: la prima non mi dà problemi e il secondo mi restaura la quotidianità. Ho circa quarantaquattro pulsazioni al minuto: un cuore da atleta, ma forse non da spasimante. Il passaggio del tempo mi acquieta. Non sto sulle mie e non giro coi trampoli, ma evito le forzature per motivi di lungimiranza. Non mi preoccupo affatto dei fraintendimenti poiché il loro scavalcamento per me costituisce la precondizione di qualsiasi tipo di conoscenza: in altre parole si tratta di una prima scrematura che posso delegare al caso.
Apologia di fascino
Negli ultimi mesi la pochezza di certuni mi ha indotto ad affezionarmi alla figura di Nicole Minetti. Per me costei non avrebbe mai dovuto ricevere un incarico politico, ma io la considero soltanto un effetto e non la causa dell’infinita pochezza che pervade la res publica. Alla luce di questa considerazione mi risulta semplice intravedere nell’accanimento verso la consigliera regionale qualcosa in più della giusta critica al ruolo che ella occupa senza merito. A parziale riprova di quest’ipotesi adduco l’attenzione che le è rivolta in misura assai maggiore rispetto a chi invece l’ha scelta e contro il quale, secondo me, andrebbero puntate le dita, ma capisco quanto sia preferibile guardare queste rispetto al pallido spettacolo della Luna.
In Nicole Minetti taluni non vedono solamente un opportunismo deplorevole, bensì allargano il campo delle sue colpe per collocarci al vertice la sua avvenenza: in ciò io avverto il fetore di un retroterra cattolico su cui mi permetto di calare le braghe per cagarci sopra. Per certi uomini la consigliera rappresenta un traguardo irraggiungibile e in virtù delle sue vere colpe consente a costoro di sfogare le frustrazioni per i cessi ambulanti con cui stanno, però tale qualifica non giunge dall’arbitrarietà del mio giudizio che appunto qui per il gusto del turpiloquio, bensì viene dall’atteggiamento di maschi insoddisfatti. Parimenti certe donne prendono come pretesto gli ingiusti privilegi dell’igienista dentale per dissimulare la loro invidia in un’indignazione farlocca. Da tutto questo emerge la cultura cristiana e la misoginia che puntualmente l’accompagna, di conseguenza la bellezza femminile (che nel caso della Minetti non è manco del tutto naturale) è considerata da taluni l’aggravante d’ogni colpa e una colpa di per sé. Un’altra riprova di questa teoria la rintraccio in una persona del tutto diversa dalla Nicole nazionale, “colpevole” anch’essa d’avvenenza e bersaglio di critiche pretestuose: Beatrice Borromeo.
Una donna particolarmente bella deve sempre fare i conti con la sua immagine, al di là di quale sia la propria condotta. Se sei brutta ti tirano le pietre, ma se sei bella aspettati un’intera frana.
Parole chiave: Colpa delle bellezza, consigliera regionale, misioginia cristiana, misoginia cattolica, Nicole Minetti
Ipertrofia junghiana
È un po’ di tempo che ho tra le mani “Il mito dell’analisi” di James Hillman, un libro nel quale la psicologia del profondo viene messa in discussione. Vi sono critiche al linguaggio psicologico e al modus operandi dei terapeuti, ma questo allievo di Jung (a cui egli fa spesso riferimento) non si limita a contestare l’analisi e ne propone una lettura archetipica per opporsi al primato della razionalità. La mia esperienza mi obbliga a riconoscere l’importanza della mitologia e dei simboli nel mondo interiore, ma, pur consapevole di tutti i suoi limiti, prediligo l’approccio più scientifico e illuminista di Freud che Hillman contesta apertamente.
La psicologia del profondo è per sua stessa natura indefinita, maculata di zone d’ombra, perciò guardo con circospezione tutto ciò che possa confonderne ulteriormente le acque. Non mi piace uscire dai ridotti confini dello scibile a meno che non si tratti di una gita fuoriporta nei dintorni del mondo onirico o della fabulazione. Non mi appartiene alcuna spiritualità, però al contempo non mi reputo né un materialista né tanto meno lascio una porticina aperta con l’agnosticismo. Mi guardo bene da usare un termine come “anima” in luogo di “psiche” perché ho l’impressione che possa prestarsi ad ambiguità svianti, talvolta persino volute. La preminenza del mito non mi convince e trovo parimenti limitativa la scientifizzazione della psiche, ma credo che quest’ultimo approccio abbia ampi margini di miglioramento con il progresso delle neuroscienze. Purtroppo è pressoché impossibile trarre conclusioni definitive in un processo che è in continuo divenire e di conseguenza non c’è modo d’imbrigliare l’epistemologia. Io ho riscontrato più volte il concetto di inconscio collettivo che Jung propone nella psicologia analitica, credo inoltre che non sia difficile trovarne conferma qualora si abbia la possibilità di entrare in contatto con culture diverse dalla propria, ma non riesco a reputare il ruolo degli archetipi più importante di quanto già lo ritenga. Non porto l’organicismo sul palmo della mano perché è assodata l’efficacia di approcci antitetici a quest’ultimo (altrimenti non mi sarei mai interessato alla psicodinamica). Mi domando se la mia ritrosia ad accogliere pienamente l’interpretazione archetipica dipenda dalla mia avversione per ogni pantheon o se, invece, scaturisca da un moto verso quell’obiettività a cui tendo senza però mai illudermi di poterla raggiungere. Per me non è un problema stracciare le convinzioni, infatti queste sono quasi sempre valide per intervalli di tempo ristretti nonostante in proporzione alla durata della vita umana sembrino sfiorare l’eternità: io non mi faccio stregare dalle clessidre. Hillman non mi convince e mi pare che a tratti scada nella sterilità della teologia, però la lettura del suo libro non mi tedia e anzi, mi dà modo di pormi qualche dubbio.
Ho dato una scorsa ad un approfondimento generale del suo pensiero e mi è rimasto impresso un punto in cui la cultura italiana è chiamata in causa. Egli domanda per quale ragione i suoi colleghi italiani cerchino la psicologia al di fuori della loro tradizione quando le loro psiche sono legate al Rinascimento su cui ancor oggi vive tutta l’Europa. Dal punto di vista di Hillman ciò non fa una piega in quanto egli dà un valoro assoluto alla cultura classica che nell’epoca suddetta fu riscoperta, ma potrei obiettare che forse quei mitologemi avevano bisogno di altri interpreti per essere riproposti in chiave moderna, ovvero di qualcuno che fosse estraneo a quella tradizione. Per me quest’ultima questione è una faccenda di mero colore, ma la trovo simpatica. C’è invece una citazione di Hillman che ha catturato la mia attenzione sebbene non riguardi direttamente il tema di questo appunto ed è la seguente: “Anche coloro che credono nella pace e nella nonviolenza si radunano, marciano, manifestano. La fede è la miccia che accende la forza archetipica di Marte e avvia l’imprevedibile, rovinoso corso della guerra”.
Parole chiave: analisi, Hillman, Jung, psciologia analitica, psicoanalisi, psicodinamica, psicologia del profondo, terapia