La mia ultima gara podistica risale a gennaio, tuttavia nell’ultimo trimestre dell’anno intendo partecipare a qualche evento agonistico ed è in ragione di questo che proposito che da giugno ho ripreso ad allenarmi con fortune alterne, difatti luglio e buona parte di agosto si sono dimostrati periodi difficili per impostare certe andature con determinati volumi.
Quest’oggi sono riuscito a fare un cosiddetto “lungo” di qualità, ossia trenta chilometri a un ritmo di medio di 4’04” al chilometro, tra l’altro in una giornata un po’ ventosa, a tratti ancora calda e con delle gambe nient’affatto riposate: me gusta!. Nei primi sei giorni del mese ho incamerato novantasette chilometri in 6 ore e 27 minuti, perciò con un passo medio di quattro minuti spaccati al chilometro: sono numeri che mi soddisfino sebbene ancora non indichino la mia forma migliore di sempre.
Mi sento un privilegiato perché m’è dato di correre e questa mia passione ormai si basa su un rapporto di lungo corso (appunto) tra me, la distanza e il tempo, insomma una sorta di ménage à trois! Forse è anche per la bontà e l’efficacia di questo triangolo che io non ho mai avuto relazioni sentimentali né carnali. A trentanove anni mi sento in uno stato psicofisico eccelso per il quale sono molto grato a me stesso, tanto per non smentire ancora una volta i miei marcati tratti solipsistici e autoreferenziali. Il tempo scorre e io con lui.
È mio costume leggere con attenzione e ad alta voce, prassi che ho seguito anche per “Il mondo al contrario” del Generale Vannacci (rimandando l’inizio de “La parte maledetta” di Georges Bataille).
Non so se la mia copia sia difettosa e manchi di qualche pagina, ma non ho trovato né razzismo né omofobia e anche la misoginia risulta assente: forse non sono inclusi (ops, inclus*) nel prezzo e vanno aggiunti di propria sponte in base alla faziosità di riferimento. Chiunque decontestualizzi le frasi altrui compie un’opera meritoria giacché palesa agli altri la propria disonestà intellettuale. Per me pari(ah) sono coloro che hanno stigmatizzato o lodato “Il mondo al contrario” per partito preso: gente da cui guardarsi, gonzi di prim’ordine, danni collaterali del suffragio universale a prescindere dalle inclinazioni politiche. Lo scritto del Generale Vannacci raccoglie le idee di un uomo posato, convintamente democratico (questo per me è un difetto), pragmatico e ragionevole.
Nulla da eccepire su quanto afferma in merito alle energie rinnovabili, ossia un traguardo da raggiungere facendo però valere il principio di realtà, senza porre in essere quell’evirazione economica a detrimento dei ceti medi e meno abbienti di cui le sinistre progressiste (per me regressive) sono sostenitrici; ovvie e condivisibili le sue considerazioni in termini di giustizia, tasse e immigrazione: tutti questi argomenti sono suffragati da dati riportati come corollario e di cui ognuno può verificare motu proprio l’attendibilità. In oltre trecento pagine non vi è una sola virgola che possa indurre qualche magistrato a formulare un’ipotesi di reato, però immagino quale grande dispiacere ciò provochi lungo tutte le ZTL popolate dalla gauche caviar italiana. Il concetto di “normalità” evocato da Vannacci in merito all’orientamento sessuale fa leva su un dato statistico e non è un giudizio di valore né ha presupposti discriminatori, ma al contempo è una ghiotta occasione per chi voglia distorcere il significato delle parole pro domo sua: tanto chi se ne frega dell’autenticità, no?
Il pregiudizio diventa l’arma di chi millanta una lotta al pregiudizio stesso: questo cortocircuito mi fa pisciare addosso dalle risate. Dovrò cambiarmi il pannolone, ancora una volta.
Il Generale Vannacci non ha lo stile di Tommaso Landolfi e nel testo si succedono refusi (che ho appuntato in un file), un uso della di eufonica a me sgradito e qualche passaggio incerto, ma credo che il suo scritto non abbia intenzioni né vocazioni letterarie e quindi ogni critica esasperata alla forma mi fa sospettare che ci siano serie difficoltà a controbattere la sostanza.
Forse qualche “giornalista” non ha mandato giù il successo di un’autopubblicazione e può darsi che qualcun altro abbia dovuto accorgersi controvoglia di quale sia la maggioranza silenziosa del paese. Se Vannacci scendesse in politica io non lo voterei perché non credo nella democrazia, ma se facesse un colpo di stato avrebbe il mio pieno supporto.
Parole chiave: Il mondo al contrario, leggere, letture, libri, Roberto Vannacci
Nei miei riguardi
Non riesco a fare una stima di quanti momenti svaniscano negli automatismi d’ogni giorno, ma più passa il tempo e meno riesco ad accettare queste perdite sulla rete neurale che s’interfaccia con il presente. In certi periodi devo compiere uno sforzo notevole per evitare che i miei pensieri si proiettino troppo in avanti e sconfinino oltre la loro giurisdizione. Non punto a cogliere l’attimo per ossequiare una frase fatta, ma cerco di limitare gli sprechi delle energie mentali e di quelle risorse che fanno capo a Kronos: in questo senso il solipsismo si rivela un utile strumento.
Non mi definisco attraverso la rincorsa di beni voluttuari e neanche punto ad avere conferme con la ricerca d’un qualche consenso o del riconoscimento sociale, ma ho in me dei paradigmi rispetto ai quali avverto l’esigenza di essere all’altezza: questi termini di paragone non sono statici e mutano nel corso del tempo, così come si fanno via via diversi modi e ritmi con cui mi ci rapporto. Sono autoreferenziale per comodità, ma non escludo che io possa vivere in un altro modo né mi stupirei se in futuro la mia esistenza facesse propri termini ancora inediti per lei e per me. Trovo sublime la sensazione di appartenermi sebbene non sappia descriverla e presenti un principio di esclusione da cui non posso prescindere. Posso fornire loro battesimi esotici e descrizioni capziose, tuttavia non sono in grado di cartografare quei moti interiori da cui sono portato e di cui, al contempo, sono portatore. Non indosso le scarpe di altri perché non mi starebbero nemmeno se fossero della mia misura e non ho bisogno di calzarle per lasciarci impronte sulle sabbie del tempo.
Ho terminato la lettura de Il cinema secondo Hitchcock, una lunga intervista che Sir Alfred rilasciò in più occasioni a François Truffaut. Sotto il profilo aneddotico ho trovato questo volumetto meno divertente rispetto a quello curato da Peter Bogdanovich per la sua brillante intervista a Orson Welles, anch’esso pubblicato da Il Saggiatore, ma ha saputo ugualmente carpire il mio interesse e mi ha dato qualche strumento in più per inquadrare il cinema tout court: in entrambi i casi ho appreso qualcosa dall’intervistato e dall’intervistatore giacché tutti registi.
Di Alfred Hitchcock ho visto trenta film, dal 1940 con Rebecca, la prima moglie, fino al 1975 con Complotto di famiglia. Mi viene difficile esprimere una preferenza assoluta in questa panoplia di opere stupende, ma devo ammettere un’inclinazione verso La finestra sul cortile, Caccia al ladro e Il delitto perfetto per la presenza di Grace Kelly, a mio parere la donna più bella e aggraziata che sia mai scesa su questo pianeta. Apprezzo molto anche Intrigo internazionale con il leggendario Cary Grant in quanto stilistico precursore di tutta la saga basata sul personaggio di James Bond; il già citato Rebecca, la prima moglie con una stupenda Joan Fontaine e L’ombra del dubbio sono altre due pellicole di mio sommo gradimento. Forse, tra quelli da me visti, gli unici film di Hitchcock che non sono riuscito ad apprezzare sono gli ultimi due, ossia Frenzy e Complotto di famiglia. Titoli eccelsi come Nodo alla gola, Psyco, Gli ucccelli e La donna che visse due volte parlano da soli.
Parole chiave: Cary Grant, Cinema, cinematografia, Grace Kelly, Hitchcock, Il saggiatore, La finestra sul cortile, leggere, lettura, libro, Truffaut
Di recente ho visto quest’opera di Ferreri che mancava nel mio bagaglio di aspirante cinefilo e ne ho ricavato un’opinione ambivalente. L’aperta provocazione del regista mi ha ricordato, in parte e in una forma più attenuata, quella pasoliniana di Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Laddove il film di Pasolini si occupa del potere nelle sue implicazioni più anarchiche, Ferreri, per sua stessa ammissione in un’intervista, realizza un’opera fisiologica, scevra di sentimenti, dove l’edonismo lascia spazio (appunto) alla fisicità in quanto realtà ultima; non è solo nel cibo che ravviso un vago parallelismo tra le due pellicole, ma in una più generale (e a mio parere comune) estetica con la quale l’uomo viene mostrato in quanto uomo, in quanto corporeità, in quanto finitudine. In ambo i casi credo che il registro stilistico sia simile, quello grottesco, ma differisca in intensità.
Ne La grande abbuffata è palese la disperazione borghese, la trasformazione del piacere in abitudine e quindi l’incapacità di ripetere a comando l’edonismo originario: la resa del corpo al corpo e una collettiva volontà di autodistruzione. Per scomodare Freud, così da destare in me risate verso un’altra parte di me rivolta alla cinefilia, mi sembra che nel lavoro di Ferreri si affermi la pulsione di morte con una gita stanziale e culinaria al di là del principio di piacere.
Girato perlopiù in interni e con un grande cast (i personaggi usano i loro veri nomi di battesimo), per me è un film che assolve il compito per il quale è stato concepito nelle intenzioni del regista, ovvero trascurare lo spettacolo per innescare un crudo meccanismo d’identificazione, perciò lo reputo efficace in questo senso e nullo (per i miei gusti) sotto il profilo dell’intrattenimento.
Parole chiave: Cinema, essai, film, La grande abbuffata, Marco Ferreri
Devo fare mia la buona abitudine di rispondere alle sole chiamate oniriche: cosa può mai valere un incontro che non abbia prima avuto luogo in uno stato di coscienza diverso da quello vigile? Ogni tanto faccio squillare a vuoto dei contatti inesistenti nel buio di un sonno incipiente e per comporne il numero fantastico con il pensiero: non so come funzioni la segreteria e quindi affido i messaggi alle bottiglie di vetro affinché galleggino sopra gli altrui abissi.
Il linguaggio comune e i suoi mezzi hanno limiti evidenti. Preferisco intavolare un dialogo su una struttura metafisica piuttosto che quantizzarlo in pacchetti da un server all’altro come un flusso di dati, perciò lo scatto alla risposta dev’esserci con gli occhi chiusi e sulla scia delle onde alfa. Finora ho trovato sempre spento, insomma, l’utente non era raggiungibile, ma nulla mi vieta di sparare con la mia immaginazione dei segnali verso e oltre la volta celeste: è una pratica che si esaurisce in sé e questa sua aseità le conferisce il proprio senso. A volte uno scopo sussiste benché non ce ne sia uno e non si possa darne conto né descrizione. E se a un certo punto qualcuno rispondesse dall’altro capo del sogno? Ebbene, quella sarebbe l’occasione giusta per fare una pernacchia e agganciare la cornetta o la cornucopia. Forse qualcuno prova a chiamare me nello stesso modo testé descritto e trova la linea occupata, ma io spero che quest’ultima sia una di basso su cui improvvisare contrappunti. Forse in questa suggestione il mezzo conta più del fine e non è un veicolo o almeno non risulta esserlo più di quanto lo sia un taxi vuoto che si diriga verso l’Iperuranio per caricare l’idea di sé.
Con il caldo che fa
A quest’ora potrei starmene su qualche autostrada deserta a guidare col solo scopo di godermi l’aria notturna, però mi trovo bene anche a casa mia perché ho un certo riscontro, invero l’unico. Mi viene spesso da ridere perché la mia è un’indole gioviale e narcisistica: sono un puer fatto e finito. Non esistono solo i problemi reali, ma anche le loro contraffazioni che superano in numero gli originali: mi chiedo se simili riproduzioni siano trattate dai venditori ambulanti sulle spiagge e negli immediati dintorni. Cocco, borse griffate, ansie, occhiali da Sole e sole occhiaie.
Mi considero alla stregua di un pianeta e di rado, per ragioni insondabili, attiro corpi celesti con cui non entro mai in contatto: si sfiorano le orbite astronomiche e non quelle anatomiche, com’è giusto che sia. Un fatto resta certo: meglio uno squilibrio gravitazionale e l’alterazione delle maree al rischio di scambiarsi una testata nel goffo tentativo di assecondare un’effusione.
Amo molto una spiegazione che confuta certe idee bislacche e non concede spazio a ulteriori dibattiti: se la Terra fosse piatta i gatti avrebbero già fatto cadere ogni cosa oltre i suoi margini. Vedo in ogni creazione e distruzione una danza più o meno aggraziata, così come suggerisce la tradizione induista, perciò anche i rapporti tra le persone sono soggetti a questi movimenti che hanno già in nuce le loro implicazioni ultime.
Parole chiave: estate, falsi problemi
Del cirro negletto
L’inflazione è un problema, però anche lo scirocco ha le sue ripercussioni sui miei lunghi capelli. Presi a sviluppare il cirro negletto durante la panzana della pandemia giacché non accettai la più famosa delle inoculazioni. Grazie al governo Draghi mi posi una domanda capitale, a riprova di come certi automatismi si rivelino tali solo quando sussista l’impossibilità di assecondarne la meccanicità: “Perché cazzo vado dal barbiere?”. La mia risposta fu: “La forza dell’abitudine”. In ragione di tutto ciò non raccolsi l’invito a farmi una pera di Stato, bensì la palla al balzo e dissi a me stesso: “Non me ne fotte niente dei capelli, lascio che si allunghino fino a quando non intervenga un’eventuale calvizie o un trattamento chemioterapico”. E fu così che vissi capellone, o meglio, lo ridivenni. Forse mi reincarnerò in un phon o nella phoné.
Detesto la peluria, urta il mio senso estetico e in particolare la barba mi dà proprio fastidio, ma sono insofferente anche verso i barbari. Non potrei mai amare una donna barbuta, questo mi sento di affermarlo senza tema di smentita, ma non potrei bere manco del Bourbon poiché ho in orrore tutti gli alcolici. Altre assonanze? Sostanze, mai, tranne quelle che si sanno secernere in autonomia con le dovute tecniche e l’occorrente dedizione. Com’è tarda la notte dalla quale mi affaccio. A ognuno i suoi tempi, le vane attese, le inaspettate manifestazioni dell’universo e ogni cosa. Sì, è tarda la notte che mi ospita, però mi piace assai questo suo arieggiato silenzio e me ne sento parte o forse provo soltanto a imbucarmi in un buco nero: mi piacerebbe sbirciare oltre l’orizzonte degli eventi. Sì, ma in concreto, cosa ho scritto finora? C’è un fil rouge, un gomitolo, un filo di Arianna o bisogna portarsi l’occorrente da casa? Il significato al sacco. L’esigenza è quella di parlarmi addosso, di farmi da vecchio conoscente, ruolo che mi riesce bene: tutto il resto è altro da me com’è inevitabile che sia.
Parole chiave: capelli lunghi, cirro negletto, notte fonda, ponytail
Il mondo va avanti
Nell’immagine in calce v’è una mia lettura degli ultimi tempi e l’ostensione del santo.
Non intendo cambiare sport giacché amo troppo la corsa, ma salto lo stesso di palo in frasca per scrivere d’altro rispetto a quanto suggerisca l’incipit. Ne Il sorpasso di Dino Risi v’è una scena in cui Gassman dice a Trintignant: «Lo sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c’ha giorno per giorno. Fino a quando schiatta… si capisce». Non posso che sottoscrivere.
Quali grandi nostalgie dovrei nutrire e allevare a detrimento dell’avvenire, ma soprattutto del presente? Amo il passato nella misura in cui sappia echeggiare al di fuori del tempo, quando non si faccia tenaglia né prigione, bensì rifulga come paradigma da superare, eguagliare da cui trarre ispirazione. A me tutto ciò pare banale, però lo scrivo ugualmente.
Mi torna in mente la storia di un monaco buddhista che una volta si recò da un dottore. Il medico disse al monaco che aveva un cancro e il monaco chiese: “Cos’è il cancro?”. Allora il dottore rispose: “Significa che morirai”. Il monaco si mise a ridere e se ne andò in ragione delle sue riflessioni sulla cosiddetta “impermanenza”. Secondo me questo aneddoto spiega come la propria visione della realtà, quella maturata dentro e fuori di sé, plasmi la realtà stessa laddove l’individuo ha possibilità di manovra, ossia nel modo di reagire agli eventi. Come si lega tutto questo con eventuali nostalgie? Pari pari come la risata del monaco alla diagnosi infausta.
Mi trovo ancora sotto i cieli ordinati a eternità e non cerco di venire a capo delle ragioni per le quali altri il capo lo perdono. Mantengo la debita distanza dai debiti di riconoscenza ed evito di maturare crediti della stessa risma. Nelle terre galliche le città s’illuminano con gli intensi fuochi di proteste pretestuose; a nord del Mar Nero invece delle stessa pece sono le notti urbane dovute ai blackout e ai lutti. La cosiddetta civiltà non può affrancarsi dalla sua pulsione di morte, tutt’al più le è dato di ammansirla in periodi di tregua che talora sono chiamati impropriamente periodi di pace. Di sicuro le parole hanno un peso, ma credo che gli esplosivi facciano più male.
Una parte del mondo combatte per un certo uso dei pronomi, altrove invece il problema non sussiste giacché restano da chiamare soltanto i fantasmi in mezzo alle macerie. I problemi del primo mondo sembrano al primo posto e spesso per secondo non c’è nulla: chissà, può darsi che il carrello un po’ vuoto sia colpa dell’inflazione o della spinta incarnata da Thanatos (in senso greco, non a mo’ di creatura della Marvel).
Nei paesi avanzati, dove gli avanzi abbondano e invece dell’inedia la vexata quaestio è quella di normalizzare l’obesità, ormai è tutto burocratizzato, a misura delle forzature di chi vuole imporre nuovi paradigmi in ragione dei suoi complessi d’inferiorità: persino l’amore e l’odio devono esibire le rispettive marche da bollo. Pare (invero in meccanica è accertato) che a ogni azione corrisponda una reazione uguale o contraria, perciò mi chiedo se il gioco manuale dello specchio riflesso non sia il migliore modus operandi per dirimere qualunque controversia.
Assisto all’incedere degli eventi e desisto da una mia attiva partecipazione agli stessi, almeno per quanto mi è possibile: credo che tutto vada come deve andare e di certo non ricade su di me l’onere di dimostrare il contrario. Io mi trovo sempre al solito posto, ai margini delle righe e tra le pause di uno spartito che non eseguo: buona la prima e tutte le altre.
Parole chiave: burocrazia, declino occidentale, distopia, politicamente corretto, tempo che passa