Pubblicato mercoledì 15 Marzo 2017 alle 21:05 da Francesco
Dall'inizio dell'anno ho corso appena 397 chilometri, ma dal sei marzo al tredici ne ho fatti ben 112,5 a un ritmo medio di poco inferiore ai 4'10" al chilometro: per me questi numeri denotano una buona qualità a fronte di una quantità ridotta, almeno per i miei obiettivi.
Quest'oggi mi sono iscritto alla mia nona maratona e vorrei avere qualche chilometro in più nelle gambe per nutrire la certezza di concludere anch'essa sotto le tre ore, però questa volta mi attende un salto nel buio e può darsi che in fondo tale circostanza non mi sia del tutto sgradita. Mi piace la corsa perché mi restituisce ciò che io le do nella solitudine dei miei allenamenti e me ne avvalgo per affermarmi al cospetto di un tempo triplice: quello che m’è dato da vivere, quello col quale mi confronto e quello che forse non ha mai avuto inizio.
Ormai non credo manco più a chi mi dice la verità, ma solo all'asfalto, al sudore e alla fatica. Nell'arco di quest'ultimo lustro ho battagliato lealmente sulle strade di mezza Italia e in alcune occasioni la comunanza dello sforzo mi ha permesso di conoscere dei grandi uomini, mossi dalle ragioni più disparate. Invero talora ho avuto modo di contemplare alcuni culi di donne ai quali mancava solo il dono della parola, ma il più delle volte ho còlto negli occhi e nelle frasi di altri atleti una grande voglia di riscatto, come un fuoco sacro da custodire nel silenzio di quelle notti che durano anche di giorno.
La corsa è quasi una scienza esatta, il margine per l'improvvisazione è pressoché nullo, ma non di rado il cuore e la testa possono decidere le sorti di una gara.
Lunedì ho fatto l'ultimo allenamento importante, 32 chilometri in quel di Grosseto, e conto di metterne altri in cascina benché il tempo stringa e quest'idea possa non essere la migliore.
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Pubblicato martedì 7 Marzo 2017 alle 16:42 da Francesco
Come altri prima di me, anch’io considero il corpo un tempio, perciò cerco di tenere allenate le mie capacità motorie e psichiche senza l’illusione che possano evitare il decadimento naturale a cui ogni cosa è soggetta: c’è modo e modo di arrivare alla fine, malgrado la sua vicinanza.
Per quanto concerne la memoria procedurale, oltre a suonare un po’ la chitarra elettrica mi avvalgo più che altro del palleggio calcistico, come già esemplificai anni fa nel seguente video: https://www.youtube.com/watch?v=-4aXG4yUAz0
Un altro modesto contributo alla mia neurogenesi lo do con l’esercizio della memoria semantica. Da incostante autodidatta ho ripreso più volte lo studio degli ideogrammi giapponesi, ma in realtà questi sforzi irregolari hanno giovato più alle mie capacità mnemoniche che a una vera padronanza della lingua (pressoché nulla). Al momento conosco circa cinquecento kanji e trovo incredibile come a distanza di tempo mi risulti sempre più facile il recupero completo delle mie conoscenze pregresse. La mente offre piccole meraviglie a chiunque la nutra e non la ottunda.
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Parole chiave: kanji, memoria procedurale, memoria semantica, neurogenesi
Pubblicato venerdì 3 Marzo 2017 alle 10:47 da Francesco
Non credo che l’evoluzione umana sia un processo lineare benché il resoconto delle puntate precedenti dia quest’impressione. Nell’epoca attuale mi sembra che l’Occidente stia pagando le utopie che cominciò a coltivare dopo la perestrojka. La folle idea che tutti gli esseri umani siano uguali si scontra oggi con le loro differenze e d’altro canto non può essere altrimenti.
Il disagio della civiltà è stato descritto bene da Freud ed è per questo motivo che il costo di certi ideali si traduce in nevrosi di massa: il ritorno del revanscismo in tutto l’Occidente è il chiaro segno del contrasto che sussiste tra un minoritario desiderio di integrare altri popoli e il netto rifiuto per questo melting pot da parte di maggioranze inascoltate. È come se i governi buonisti fossero la coscienza e i popoli, fedeli all’istinto di conservazione, rappresentassero l’inconscio con tutti gli inderogabili segnali che quest’ultimo impone per propria natura.
In tutto ciò io vedo il risveglio di quello che Jung chiamava inconscio collettivo, ovvero un celere ritorno a quell’aspetto tribale delle società antiche che si ripresenta allorché la minaccia è sotto gli occhi di chiunque. V’è una regola aurea che vale tanto nel microcosmo d’ognuno quanto nel macrocosmo: tutti i contenuti che vengono rimossi dalla coscienza sono destinati a riaffiorarvi in seguito con ancor più forza. L’accoglienza indiscriminata, l’assalto al welfare, la costante idea d’ingiustizia che, mutatis mutandis, ricorda quella di un bambino al quale venga imposto un fratello dai genitori, ebbene questo e molto altro concorre a prospettare reazioni sempre più efferate e frequenti da quanti si vedono estorta la cosiddetta solidarietà.
Conosco persone che un tempo non avrebbero fatto manco per scherzo una battuta razzista, oggi invece sembrano dei ferventi nazionalsocialisti, tanto che talora persino nei loro sorrisi si possono intravedere croci uncinate. La storia dell’uomo non inizia nel secondo dopoguerra ed è inutile chiedere a qualcheduno di rinunciare ai suoi archetipi, difatti non potrebbe distaccarsene neanche se lo volesse. Vi sono fieri comunisti d’un tempo che oggi riconoscono tranquillamente l’esistenza non solo di un problema, ma di un vero vulnus legato ai flussi migratori; d’altro canto le categorie novecentesche non hanno più attinenza con la realtà, sono superate, ed è questa la vera uguaglianza degli esseri umani: la loro inclinazione alla sopraffazione di cui anche l’istinto di conservazione è una forma attenuata.
Può darsi che un giorno grazie ai progressi della tecnica le utopie saranno a portata di mano, ma ciò di certo non avverrà mai grazie a quanti, come nel gioco delle tre carte, pretendono di dare dei diritti alle minoranze allogene sottraendoli a chi li ha resi possibili.
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Parole chiave: flussi migratori, immigrazione, inconscio collettivo, melting pot, Occidente, revanscismo
Pubblicato lunedì 27 Febbraio 2017 alle 21:19 da Francesco
È assurto agli onori delle cronache il caso di un trentanovenne che colto da cecità e tetraplegia (a seguito di un incidente) reclamava da tempo il diritto all’eutanasia. In realtà la faccenda era già nota a chiunque come me segua le iniziative per sostenere il diritto a una morte dignitosa.
Alla fine costui è stato costretto a raggiungere le terre elvetiche per trovare là una via di fuga dalle sua prigione di carne. L’attuale parlamento (al pari di altri, d’altronde) ha rinviato più volte la questione dell’eutanasia, come in un bieco tentativo di rimandare al più tardi possibile il problema, cosicché il Vaticano non se ne abbia a male. Orde di pingui maiali legiferano su molte inezie e perdono tempo nei dibattiti interni ai loro partiti merdosi, però non riescono a dare la priorità ad alcune faccende che sono lasciate in sospeso di proposito per una calcolata ignavia. Oggigiorno soltanto chi ha certe risorse economiche può concedersi il lusso di porre fine al suo inutile calvario, ma tutti gli altri sono costretti a protrarre il proprio strazio fino a quand’esso non ne consumi l’ultima goccia di energia: così pretendono alcuni luridi bastardi in nome del loro altrettanto lurido credo e in ragione di una papesca cortigianeria.
L’ho già scritto e detto più volte, tuttavia, poiché repetita iuvant, colgo l’occasione per ribadirlo ancora: qualora mi accadesse qualcosa d’irreparabile io non vorrei nessun tipo di accanimento terapeutico e se avessi ancora un briciolo di coscienza chiederei un celere ricorso all’eutanasia. Invero, per quanto nella piena clandestinità di un vuoto normativo, ma in forza di un’umanità che a taluni è del tutto sconosciuta, già da tempo l’eutanasia trova una sua applicazione nelle zone grigie della pratica medica.
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Parole chiave: diritto a morire, dolce morte, eutanasia, fine vita, malattia terminale, morte assistita, suicidio assistito
Pubblicato domenica 19 Febbraio 2017 alle 18:33 da Francesco
Nei saggi di Manlio Sgalambro ho trovato più volte delle caustiche certezze, piccole opere che sono state create per via di levare e ai piedi delle quali ho notato sempre lo stesso materiale di risulta: la consolazione. Pagina sessantatré del “Trattato dell’età” si conclude così: “La specie non è niente, alcuni uomini sono tutto”. Ciò è innegabile. Io stesso sono parte di coloro che fanno soltanto volume e non lo affermo in un accesso di stucchevole modestia, ma è quanto decreta la realtà: il mio pregio tutt’al più è quello di averne contezza.
C’è un altro bel passaggio dieci pagine dopo; l’apertura di una chance in relazione al divenire che ha tutta l’onestà di una visione avulsa da qualsiasi forzatura: “Colui che ha accolto in sé il Tempo (la maiuscola è voluta), pur nello spavento, si sottrae al giochino del ricordo, al balbettio della durata morente che mescola il cammino percorso con la strada smarrita. Concetti, non ricordi sono il suo pane. Questi ultimi provengono dal calore malsano del letto e del dormiveglia. I concetti, invece, dall’esperienza adulta, dai traffici della vita, dall’invecchiamento di cose e fatti, da un’ultima occhiata al cielo”.
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Parole chiave: Adelphi, invecchiare, Manlio Sgalambro, trattato dell'età
Pubblicato sabato 18 Febbraio 2017 alle 17:50 da Francesco
Ci sono dei giorni in cui mi sento alla deriva, del tutto perso in quest’oceano privo di senso che è la vita mortale. Non ho aspirazioni ultraterrene e non mi aspetto una promozione celeste sul campo, ma tutt’al più nei campi elisi. A volte penso a come il tempo riesca a passare in sordina per molti anni, senza destare stupore alcuno prima che, improvvisamente, scateni dei dubbi ferocissimi su come sia stato impiegato fino a quel momento.
Invero sono molte di più le giornate in cui sono in sintonia con la realtà che mi circonda e di cui faccio parte, perciò non presto troppa attenzione alle ciarle di una saltuaria stanchezza e ne rido sguaiatamente ogni volta che torno in forze. La mente è un congegno miracoloso, però è anche capace di tiri mancini ed è per questa ragione che una volontà tenace deve contenerne l’esuberanza, o almeno questo è quanto presuppongo per me stesso.
Al di là delle prassi quotidiana, comprensiva di tutte le sue bizzarrie ed efferatezze, v’è di certo una porzione della realtà che è del tutto inedita per i sensi, ma di cui è difficile scandagliare già la sola superficie: non è solo la Luna che possiede una faccia nascosta. Sempre più di sovente avverto in me la forte necessità di avvicinarmi a una dimensione che sia altra da quella che mi è dato d’esperire ogni dì, ma al contempo mi guardo bene dalle trappole dall’autosuggestione e dal facile fascino di certi esotismi. Nutro la convinzione che sia possibile produrre in sé stessi dei temporanei cambiamenti organici per fare un uso insolito delle proprie funzioni cerebrali, però senza l’ausilio di sostanze psicotrope e quindi con un protocollo privo di effetti collaterali.
Mi auguro che prima o poi da una mia esperienza inedita io possa raccogliere qualcosa di cui scrivere con cognizione di causa, ma non è escluso che tutto finisca in un nulla di fatto, come forse l’esistenza stessa.
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Parole chiave: indagine interiore, meditazione, oboe, sogni lucidi
Pubblicato venerdì 10 Febbraio 2017 alle 20:09 da Francesco
Negli ultimi giorni ho notato un certo e comprensibile clamore attorno alla lettera di un ragazzo suicida. Ho letto il testo integrale dello scritto e vi ho ravvisato un malessere che a mio modesto avviso non era ascrivibile soltanto alle questioni lavorative, ma certa stampa ne ha sintetizzato il contenuto come un semplice j’accuse alla politica. Nelle ultime parole del ragazzo friulano ho scorto una profonda lucidità e una punta di stoicismo: ciò che egli ha affermato in merito all’esistenza e alla soggettività dei limiti di sopportazione non può che trovarmi concorde, perciò gli auguro che la terra gli sia lieve.
Io stesso in passato ho preso in considerazione la possibilità di uccidermi, ma alla fine le mie riflessioni sono sfociate in una semplice meditatio mortis che ha asservito quel processo d’individuazione di cui ancora mi occupo. Non so chi fosse quel ragazzo né quante ne avesse passate, mi era del tutto sconosciuto così come certe volte lo sono anche le persone più vicine a un individuo, però mi chiedo come sarebbe andata se egli avesse resistito ancora un po’: si sarebbe ucciso ugualmente tra un anno o due? Gli eventi sono passibili di rivoluzioni copernicane in ogni momento e a qualsiasi livello, ma nessuno può pretendere da un altro che egli vi creda davvero: chi è ancora vivo come me può tutt’al più giocare col senno di poi al cospetto dell’altrui scelta di morte. Non si può salvare nessuno da se stesso: homo faber fortunae suae.
Un suicidio è una sconfitta per tutti, anche per chi s’illude di potersene fregare: in qualche modo quel gesto di libertà echeggia tra i vivi. È mia convinzione che ognuno abbia dentro di sé una forza sopita e vorrei che le persone in difficoltà potessero risvegliarla all’uopo con il concorso del fato, ma il mio auspicio è una mera utopia. Per conto mio auguro ogni bene a chi sta lottando contro i propri demoni.
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Parole chiave: sit tibi terra levis, suicidio, suicidio giovanile
Pubblicato lunedì 30 Gennaio 2017 alle 05:25 da Francesco
Al di là del mio microcosmo e dei suoi moti introspettivi c’è un mondo di cui, volente o nolente, faccio parte.
La mia Weltanschauung planetaria è tutta racchiusa in questo auspicio stonato e fuori tempo, ma comunque sincero.
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Parole chiave: La bandiera adorna di stelle, Stati Uniti, The Star-Spangled Banner, USA
Pubblicato martedì 24 Gennaio 2017 alle 14:44 da Francesco
La premessa è una frase di un film di Ingmar Bergman, “Il silenzio”: “È assurdo prendere in giro la natura perché dopo si vendica”. Parto da qui per rinfrescare due note sulla mia verginità. Certe cose le scrivo perché mi piace farlo e non ne nego lo spirito autoreferenziale, ma ne tengo traccia anche per avere delle risposte già articolate da servire all’uopo.
Quella dell’immagine è una copia in scala di “Perseo con la testa di Medusa” che custodisco gelosamente nella mia stanza rossa. È una riproduzione che vale poche decine d’euro, però io ne apprezzo il valore simbolico, nel senso junghiano del termine, ed è per questo motivo che ogni tanto la contemplo con delle occhiate fugaci.
L’opera originale è del Cellini e nel corso degli anni mi ci sono identificato fortemente per il significato di cui l’ho ammantata, ma d’altronde il mito di Perseo si presta a forzature di questo genere.
Per me la decapitazione della Gorgone è la vittoria sulle pulsioni, quindi i serpenti della chioma di Medusa mi appaiono come delle tentazioni che tolgono più di quanto sappiano dare.
Non ricorro alla spada per vincere la creatura, ma alla mia verginità: anch’essa ha una valenza fallica e l’acquisisce nel momento stesso in cui, per paradosso, supera in virilità e libertà ogni ordine dal basso a cui altri non si sanno sottrarre.
La libido è come il fumo durante un incendio e trova sempre un modo per manifestarsi, perciò la masturbazione è un metodo per controllarla e io vi ricorro regolarmente: se vi fosse qualcosa di analogo per gli aspetti platonici di un legame allora potrei rivendicare davvero un’autarchia emotiva, ma il tutto resta più della somma delle sue parti.
Conferisco il mio carattere virgineo alla figura di Perseo anche in ragione delle sembianze efebiche con cui il Cellini (a mio parere) lo ha rappresentato, inoltre trovo che la sua sia un’espressione quasi irenica nonostante egli tenga in mano la testa di Medusa e ne calpesti il cadavere.
La vittoria non è soltanto quella sulle pietrificazioni pulsionali, ovvero l’elusione di quei rapporti che potrebbero soltanto rubarmi pezzi d’Io in cambio di qualche modesto coito, ma pure quella di un’integrazione della vita pulsionale in un ambito che la nobiliti e non me la renda nociva.
Anche se non ho mai avuto legami di alcun genere, talora ho provato a stabilirne d’eterni con le rare fusioni di beltade e temperamento verso cui ho nutrito una sincera attrazione.
Un’ulteriore vittoria per me è stata quella di non ripiegare mai né sulla pochezza della carne di passaggio né su amicizie femminili: nel mio caso non può esserci amplesso senza una piena attrazione né amicizia qualora invece l’attrazione ci sia.
Sono manicheo per necessità, ma invero la mia condizione virginea non ha connotati religiosi poiché il mio ateismo è manifesto sin dalla più tenera età. Se fossi musulmano forse non vorrei settantadue vergini nell’aldilà, ma preferirei una menade navigata: insomma, qualora dovessi convertirmi a qualcosa non sarà all’Islam, ma al culto di Dioniso.
Riprendo la citazione con cui ho esordito: “È assurdo prendere in giro la natura perché dopo si vendica”. Questo vale tanto in chi neghi del tutto la propria sessualità quanto in chi l’assecondi senza calibrarla sulla propria indole, ma rispondendo alle istanze più basse poiché incapace di mediarle a suo favore, foss’anche con un accento parossistico su una legittima licenziosità.
Per qualcuno ciò è inconcepibile, ma io capisco una simile impossibilità poiché taluni per comprendere tutto questo dovrebbero anzitutto assistere al crollo verticale dei loro mondi.
A ognuno il suo.
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Parole chiave: Cellini, Gorgone, Medusa, Perseo, verginità maschile
Pubblicato domenica 22 Gennaio 2017 alle 02:01 da Francesco
In questo periodo, all’imbrunire, ogni tanto alzo lo sguardo verso occidente e là, sul proscenio celeste, vedo Venere che non ho mai avuto modo di osservare ad altezza d’uomo.
Ci sono delle sere in cui mi sento un vagabondo del Dharma, come in un romanzo di Kerouac, e mi aggiro in dedali di fugaci riflessioni presso i quali trovo un po’ di tutto. Non mi piace lasciare le cose incompiute a meno che l’incompiutezza non faccia parte del loro completamento, perciò non tengo in sospeso la spada di Damocle né i discorsi che svolgo tra me e me.
Mi chiedo se io riesca davvero a inviare dei segnali con il solo ausilio della mente, in maniera del tutto inconsapevole, ma non confido che ci sia vita al di fuori della mia soggettività.
Vivo in un’epoca che richiede il celere innalzamento di muri invalicabili, ciò vogliono gli archetipi ciclici che parlano per mezzo dell’inconscio collettivo, quindi io non posso certo pretendere di stabilire dei ponti radio o anche soltanto una passerella sul fiume di Eràclito: chi può viaggia su certe lunghezze d’onda, chi non può si gode le proprie interferenze.
Sul mio orizzonte vuoto riesco ancora a scoprire dei momenti di forte commozione che in realtà non hanno nulla d’emotivo, ma queste occasionali scariche di vita si originano allorquando io sia più (con)centrato su me stesso: esse non dipendono da me e le reputo prodromiche dello stato anzidetto. Ecco perché fatico quando mi apro a qualcuno: in casi del genere scombino un difficile assetto il cui ripristino, a seguito di un eventuale fallimento (pressoché matematico), richiede un certo investimento di tempo e di energie; forse l’assetto in questione si evolve proprio in virtù del suo continuo perire e ricostituirsi. Se un giorno dovessi trovare la quadratura del cerchio tra me e un triangolo festeggerò con una Sprite in lattina, ma per adesso non mi pongo neanche il problema in quanto è esso che non mi si para davanti.
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