Sotto l’albero di Natale si possono porgere verità infiocchettate che valgano per tutto l’anno e anche oltre, ossia regali ecologici ed economici il cui unico costo risulta a carico della coscienza. Si accendono e si spengono le lucine sulle strade violente dove la legge nulla può giacché spesso i suoi servitori nulla vogliono. Forse qualcuno scrive biglietti di auguri con gli stessi ritagli di giornale che di solito impiega per le lettere minatorie.
I sogni son desideri, ma anche le cospirazioni rientrano nella stessa categoria. Qualora basti il pensiero immagino che un dono possa considerarsi anche quello di una promessa da montare e smontare all’uopo in barba (bianca) alla coerenza. I buoni propositi risultano molto utili perché di ciò sono lastricate le vie dell’inferno che hanno un costante bisogno di manutenzione, ma almeno quelle sono più sicure di certi ponti e viadotti sui quali taluni hanno perso la vita per colpa di terzi e di lucrosi secondi fini.
Avverto l’atmosfera delle festività benché molto attenuata per ovvie e pervicaci ragioni che invero non mi turbano. Anche quest’anno non mi sono arruolato nel consumismo sfrenato né ho dovuto tenere a bada l’acquisto compulsivo, però ho riservato qualche piccola attenzione per me stesso e non mi sono spinto oltre. Più passano gli anni e più mi risulta difficile gratificarmi con modesti beni materiali ancorché siano veicoli di cultura e apprendimento: allo stesso modo trovo sempre più facile concedermi riflessioni liete e distaccate. Credo che in fondo non me ne fotta un cazzo di niente, ma questa è soltanto una mia vaga impressione.
Per Capodanno non ho progetti, tuttavia non ne serbo neanche per l’avvenire e quindi non proietto nulla in avanti così come non mi trascino dietro un passato ingombrante. Viaggio leggero, io, però conto di liberarmi in misura ulteriore e per uno sgombero definitivo mi affido alla mia futura estinzione. Tempo al tempo: intanto mi diletto in questa gabbia terracquea e, per areare il locale, mando a fare in culo chi lo merita.
All’orizzonte non si profilano porti d’attracco, bensì vi colgo mirabili occasioni di naufragio. Secondo me l’ottimismo si presta bene al dileggio e per questa ragione non lo reputo del tutto inutile. Talora ho anch’io i miei slanci di fiducia verso eventi in divenire e bagatelle simili, però non riesco mai a capire se debba esserne fiero o se almeno possa compiacermene. Non vedo ragioni valide per condannare i sorrisi forzati, difatti essi per definizione già scontano la propria pena e se così non fosse sarebbero sotto la tutela di un altro aggettivo. Quando il futuro non si annunci roseo a me non viene di fingermi daltonico, quando invece quest’ultimo abbia davvero tinte propizie di certo non vado a incupirle con pennellate di grigi. Si tratta di cose banali, come tutte d’altro canto.
Spero che il nuovo telescopio spaziale fornisca presto ragguagli su come è cominciata questa replica cosmica nel palinsesto degli universi. Per me le vere restrizioni sono quelle che non consentono alla mia specie di recarsi fuori del sistema solare con lo stesse risorse richieste da una gita fuori porta. A volte l’aiuto giusto assume la forma irreversibile di un suicidio assistito o quella altresì definitiva di un aborto coi fiocchi. C’è una lunga lista d’attesa per entrare al camposanto, però di tanto in tanto una morte precoce corrisponde a uno scatto d’anzianità o a quello verso il primo baratro in linea d’aria. Mi chiedo come mai non esista un concorso per vincere un funerale di Stato da usare all’uopo. Quando vado in un cimitero non capisco mai chi sia il più ricco degli assenti e all’entrata non trovo mai la classifica, ma può darsi che qualcuno la rubi per appropriarsi di quel primato in futuro.
Così è se mi pare
Talora le parole giuste cadono dal cielo o precipitano dalle bocche nei momenti sbagliati, perciò ogni loro beneficio viene nullificato dal pessimo tempismo. Non so quali formule pronunciare davanti agli eventuali entusiasmi di una nuova conoscenza e suppongo che questa mia incapacità derivi da una crescente noncuranza verso ogni possibile reciprocità, ma preferisco attribuirla a un amor proprio fattosi ipertrofico per ragioni di sussistenza interiore.
In trentasette anni non ho mai esperito relazioni sentimentali né carnali, però ho avuto delle sporadiche infatuazioni platoniche con pochissime temerarie che si sono concluse sempre con un distacco vicendevole e definitivo. A me piace pensare che qualche rara volta le persone si allontanino così tanto solo per ritrovarsi all’altro capo del mondo, ma io non mi ci vedo in un rendez-vous di questo tipo. Forse l’età fa scemare certi bisogni, specialmente se essi siano rimasti inespressi e inappagati proprio quando potevano affermarsi all’acme della loro intensità. Non riesco davvero a rendermi conto se in me alberghi ancora qualche necessità affettiva e, qualora davvero ve ne si annidino, quale sia la loro entità. Non sono neanche in grado d’immaginarmi al di fuori di quel numero che precede tutti i numeri primi benché esso stesso non lo sia e mi doni alla grande: è l’abito buono per… tutta l’esistenza.
Dagli albori a oggi la mia individualità ha compiuto passi da gigante, ma forse questi non sono così ampi da consentirmi di farne qualcuno indietro. Mi sento quasi in debito con la specie per il mio (in)giustificato assenteismo.
Non ho un’indole autodistruttiva e la mia funzione di adattamento negli ultimi tre lustri ha dato il meglio di sé, ma il rovescio della medaglia si trova nella lontananza e nel disinteresse da ogni altro universo che proprio qui dibatto tra me e me stesso: mi avvince più la questione in quanto tale che il suo oggetto di domanda. Può darsi che ulteriori introspezioni di cui l’avvenire è puntuale latore finiscano per darmi ulteriori spunti, ma al momento non ne scorgo e quindi non ho altro da aggiungere né qualcosa da rimuovere.
Così è se mi pare.
Parole chiave: affettività, anaffettività, conscio, inconscio, introspezione, legami, moti interiori, relazioni, sfera affettiva
In una mattina tutt’altro che immacolata ho chiuso un piccolo tour de force di cinque gare che ho iniziato venticinque giorni fa, ossia due maratone, un trail, una dieci e, quest’oggi, una mezza in cui ho finalmente siglato il mio nuovo record personale. I 21097 metri sono una distanza per la quale non ho mai avuto grande attenzione né cura, alla stregua di quanto certe istituzioni hanno fatto con le vittime da uranio impoverito, quindi si trattava di una prestazione “facile” da migliorare.
Il tempo finale è stato di 1 ora, 16 minuti e 34 secondi (real time) in quel di San Miniato, quindi a un’andatura media di 3’38″/km (13° posto).Invero speravo di girare sull’ora e quindici, ma quattro giorni or sono ho corso anche una dieci chilometri a Canino piuttosto dura a causa del dislivello e l’ho chiusa in 35 minuti e 43 secondi perdendo una bellissima volata finale (8° posto): la foto, ch’io trovo michelangiolesca, fa riferimento proprio alla gara in Tuscia.
Sono contento di me come allenatore di me stesso e anche se cerco di strafare non me ne fotte nulla perché alla fine mi diverto sempre.
Parole chiave: 21097, atletica leggera, correre, corsa, mezza maratona, pb, personal best, personal record, podismo, pr, run, runner, running
La mia lettura novembrina è stata quella di Miti e simboli dell’India, un saggio concernente aspetti della religiosità vedica a me già noti, ma di cui il testo di Heinrich Zimmer mi ha offerto ulteriori e interessanti approfondimenti. Basilare ma doverosa la spiegazione iniziale di come ogni ciclo del mondo per l’induismo sia ripartito in quattro età definite yuga e il cui avanzamento va di pari passo con un impoverimento del dharma, ossia dell’ordine morale.
Altra definizione capitale e precipua riguarda i concetti di maya e shakti, laddove la prima indica il mondo fenomenico, quanto è manifesto e illusorio, mentre la seconda è l’aspetto dinamico della prima che ne genera e ne alimenta le epifanie. Zimmer dà conto in più occasioni degli apparenti dualismi che attraversano l’induismo, perciò egli spiega come la shakti rappresenti il potere attivo di una divinità e ne sia la consorte o regina, in complementarietà e opposizione all’elemento passivo maschile (l’eternità): in un passaggio l’unione dei due viene descritta come autorivelazione dell’Assoluto.
Molte sono le pagine dedicate ai simbolismi e alla cosmogonia che mi hanno avvinto, ma è stata in particolare la storia del tracotante Jalandhara a colpirmi poiché il suo tentativo di prendersi in sposa Parvati fa compiere all’autore un parallelismo con il mito edipico, paragonando la consorte di Shiva a Giocasta al fine di sottolineare come il possesso della moglie di un sovrano risponda a un preciso rituale di potere e sia quindi scevro di tutte le implicazioni freudiane.
Sessuale, archetipico e fortemente simbolico è il linga, oggetto fallico d’elezione per il culto di Shiva in quanto energia maschile creatrice, ma il dio è anche distruttore e questa sua duplice natura viene esplicitata dalle principali danze che egli padroneggia: la Tandava e la Lasya.
La gerarchia delle divinità, la differenza tra Brahma e Brahman, i vari aspetti di Shakti (di cui a me piace molto la Kali nera) e, soprattutto, lo stato di prigionia al quale ogni individuo è costretto dalla propria Maya-Shakti (e quindi dalla cosiddetta nescienza) che egli stesso genera, sono altri elementi ivi presenti e stimolanti la cui lettura mi ha ricordato di nuovo quanto verso tutto ciò sia debitrice parte della filosofia occidentale. Duecento pagine spese bene.
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Non so come taluni intendano esercitare i propri diritti giacché la muscolatura del loro senso critico mostra i chiari segni di una grave atrofia, ma il mio interesse per la questione non supera la soglia della domanda retorica. Non ho mai misurato l’ombra della verità, però suppongo che superi in grandezza le convinzioni di quanti pensino a ogni piè sospinto di saperla più lunga degli altri. Io stesso detengo una quota di giudizi erronei, veri e propri clandestini sul territorio neurale, ma non è facile controllare i documenti di ogni singola opinione né semplice risulta il suo eventuale rimpatrio tra i confini dello sbaglio natale.
Secondo me la perfetta nemesi dell’originalità risiede nella sua ostinata ricerca, perciò in alcuni casi l’istinto di gregge si dimostra più autentico e verosimile di un’autonoma idiozia, ma il vaglio di simili idee pertiene alle rispettive introspezioni che talora non sono all’altezza dello scranno su cui vengono poste.
Un certo grado della cosiddetta realtà, in particolare il suo epifenomeno sociale, viene forgiato dalle fuorvianti interazioni dei compartecipi, quindi in tutto questo non scorgo una deformazione propriamente detta, bensì uno sviluppo spontaneo che può essere paragonabile a quello di una malattia autoimmune. La singola cellula non può pretendere di condizionare l’intero organismo a meno che non ne guadagni l’egemonia in accordo con altre sue pari in misura sufficiente.
A mio avviso (come se davvero potessi reclamarne l’intera proprietà) quanto sfugga al senso critico non si fa mai latitante, ma è latente e liberamente esigibile all’occhio che sappia coglierlo. Le discrepanze del quadro generale rimandano sovente all’incapacità di ordinare in maniera approssimativa dei pezzi che per loro stessa natura non si possono incastrare a vicenda, ma è nella comprensione della comprensibile mancanza di omogeneità che si annida un senso apparente a cui non può esserne attribuito uno ultimo, o almeno così io ipotizzo e nel farlo già prendo le debite distanze da quanto ne consegue.
L’intera faccenda, qualunque essa sia, si dimostra capziosa e implica grandi rotture di coglioni, ma può darsi che un domani un’umanità più evoluta, o “semplicemente” diversa, si ritrovi a formulare cotali dinamiche in termini per i quali al momento anche l’immaginazione più vivida si vede preclusa ogni tipo di accenno o ipotesi. Ai posteri i cazzi loro.
Maratona di Firenze 2021
Il grande maratoneta Toshihiko Seko una volta disse: “The marathon is my only girlfriend”. E, mutatis mutandis, anch’io dubito che sia in grado di soffrire altrettanto per un essere senziente. Non tutte le ciambelle escono col buco né tutti i colpi di stato finiscono con la presa del potere (ne sa qualcosa uno dei figli della Thatcher).
Ieri mattina per saltare in aria non ho scelto un’amena località del Medio Oriente, bensì la culla del Rinascimento. Alla maratona di Firenze sono partito con l’idea d’inseguire il mio primato personale o almeno di correre appena sotto le due ore e quaranta minuti come due settimane fa a Ravenna. Passaggio ai diecimila metri in 36:48, alla mezza maratona in 1:18:21 e ai trenta chilometri in 1:52:25, ma da trentunesimo in poi ho iniziato ad avvertire i prodromi dell’ipoglicemia e il calo è stato esponenziale. Dulcis in fundo, a centocinquanta metri dall’arrivo ho sentito un principio di crampo al quadricipite femorale sinistro, perciò ho tagliato il traguardo camminando, ma ho chiuso in un onesto 2:53:02, la trentanovesima volta su trentanove sotto le tre ore.
L’ossimoro giusto è quello di “buon fallimento”, infatti quel tempo con il tracollo finale indica comunque che sto bene. Ho esagerato un po’ nelle ultime tre settimane e il corpo me lo ha fatto notare, però amo la corsa proprio per questa sua perentorietà. Può darsi che a livello muscolare abbia risentito del trail della scorsa settimana, invece la défaillance ipoglicemica la imputo all’inappetenza dei giorni precedenti. Al prossimo giro… giropizza.
Outrage, la triologia
In questi giorni ho visto per la prima volta Outrage, Beyond Outrage e Outrage Coda, una trilogia in cui il grande Takeshi “Beat” Kitano ha rivestito il duplice ruolo di regista e attore, come già era accaduto per altre sue pellicole che in passato ho apprezzato molto: Violent Cop, Sonatine, Hana-bi, L’estate di Kikujiro e Brother.
Il trittico in esame costituisce un ritorno di Kitano al cosiddetto genere gangster movie e ancora una volta racconta l’efferato mondo della yakuza, la mafia giapponese.
La storia è piuttosto articolata in quanto vi sono nomi e cariche che si succedono in accordo con la ridda di omicidi, macchinazioni e vendette prima e dopo ogni nuovo assetto di potere. Nel continuo cambiamento delle dinamiche credo che l’unica costante rimanga la figura di Otomo, interpretato dallo stesso Kitano, difatti questo personaggio sembra ancorarsi presto a un suo codice personale, già dal primo film, e finisce per farlo prevalere su ogni altro tipo d’interesse. Per me non sono tanto le crude vicende a formare la sostanza dell’opera, ma paradossalmente trovo che quest’ultima prenda corpo nella sua forma e quindi nella particolare estetica con cui lo stile del regista nipponico si rende subito riconoscibile. In altre parole l’impronta di Kitano dietro la macchina da presa risulta evidente per chi come me ne abbia già apprezzato i lavori precedenti e il suo marchio rifulge tanto nelle scene più efferate, quali le sparatorie e i momenti di puro sadismo, quanto nella delicatezza di certe inquadrature larghe che come di consueto vanno a cogliere anche il mare, un elemento imprescindibile per lui come egli stesso ha dichiarato più volte nelle interviste. E poi c’è la mimica del Kitano attore, dai sorrisi improvvisi alle smorfie durante gli spari; un volto, il suo, al contempo freddo ed espressivo, così come la gestualità che conferisce al protagonista un ulteriore carisma e di conseguenza un contributo importante al tenore della trilogia.
In questo tipo di cinema non ricerco significati profondi, bensì un intrattenimento che non sia fine a se stesso e quindi una forma capace di superare se stessa proprio come a mio giudizio avviene in modo piuttosto omogeneo in ognuna di queste tre pellicole.
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Per correre preferisco l’asfalto con buona pace di Greta Thunberg, ma quest’oggi ho deciso di cimentarmi su un terreno e un dislivello che frequento assai di radio. Una bella giornata di sole, tante facce conosciute, un clima disteso e un’ottima organizzazione.
Insomma, mi sono relazionato ancora una volta con quelle che il signor Kant soleva chiamare forme pure a priori della sensibilità, ossia lo spazio e il tempo.
Stamane ho partecipato al trail dell’Argentario e sono riuscito a vincerlo, ma ho rischiato di mancare la partenza giacché un’immensa cacata mi ha trattenuto a lungo sul più salvifico dei troni in ceramica. Tutto trafelato e col cirro negletto (as usual) alla fine ho preso il mio pettorale e mi sono unito ai circa trecento partenti.
La mia è stata una gara tattica e all’inizio ho lasciato ad altri l’onere di dettare il passo. A un certo punto sono arretrato in terza posizione e su uno degli stretti sentieri in discesa ho rischiato una brutta caduta, ma ho avuto la prontezza di spingere ambo le mani contro un albero del limitare e così ho recuperato l’equilibrio senza arrestare la corsa: in quel momento mi sono sentito un po’ come Ed Warner in Holly & Benji, quand’egli spingeva con le gambe contro un palo della porta e si dava lo slancio per raggiungere il pallone dalla parte opposta. Grande squadra la Muppet.
Se non vado errato il sorpasso decisivo l’ho eseguito attorno al sedicesimo chilometro e poi ho effettuato un ulteriore allungo che mi ha consentito di arrivare in prossimità del traguardo con un buon vantaggio. Sono stati ventidue chilometri molto duri ma altrettanto belli. Non mi abituo mai agli scorci dell’Argentario.
Non conoscevo benissimo il tracciato. Ne ricordavo alcune strade perché in passato ci ho corso e su altre in plurime occasioni mi ci ha portato come passeggero un amico a bordo de “La Trattora”, la sua vecchia e gloriosa moto sulla quale mi sono sempre sentito al sicuro anche sulle strade più dissestate. Questo successo lo dedico a tal Draghetto, perché oltre a essere una gran persona e un grande atleta si è speso tanto per la pulizia del percorso e la buona riuscita dell’evento. La stupenda foto è di Marco Solari (www.marcosolari.it).
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Ieri mattina sono stato accolto dalle brume romagnole per correre la maratona di Ravenna. Prima della gara ho incontrato qualche podista di mia conoscenza e ho stretto amicizia con un ragazzo al debutto sulla distanza regina a cui ho fatto un sincero augurio e con il quale ho scambiato un reciproco incitamento quando ci siamo rivisti sul percorso mentre transitavamo in direzioni opposte: spero che il suo esordio sia andato bene!
Dopo il rito dei bagni chimici, il quale come sempre sottende l’attesa della liberazione vescicale, ho raggiunto la griglia di partenza con l’idea di aggredire il mio record personale, perciò ho osato fin dall’inizio con un’andatura media che ha oscillato tra i 3’39” e i 3’40” al chilometro.
I primi undicimila metri sono stati un po’ ostici a causa dei plurimi cambi di direzione e della pavimentazione cittadina, ma una volta fuori Ravenna il vento si è dimostrato abbastanza clemente, difatti per me proprio quest’ultimo costituiva la variabile più importante. Ho corso quasi tutta la gara in solitaria e poco prima del ventunesimo chilometro ho superato la seconda donna, una top runner rumena che ha poi chiuso in 2 ore e 43 minuti, molto distaccata dalla vincitrice keniana che invece ha tagliato il traguardo in 2 ore e 29 minuti.
Il mio passaggio ai dieci chilometri è stato di 37 minuti netti, quello alla mezza di 1 ora, 18 minuti e 9 secondi e ho raggiunto il trentesimo chilometro in 1 ora e 51 minuti.
Dal trentacinquesimo chilometro in poi non sono più riuscito a mantenere il passo sotto i 3’50” e ho così visto sfumare il mio record personale, ma sono riuscito comunque a correre per la terza volta sotto il muro psicologico delle 2 ore e 40 minuti, esattamente 2 ore, 39 minuti e 47 secondi: decimo assoluto, terzo di categoria e quinto italiano su oltre un migliaio di partecipanti.
Malgrado il calo nel finale sono rimasto molto soddisfatto della mia prestazione, mi è piaciuto il modo in cui ho corso e la costanza con cui ho mantenuto una buona meccanica per quasi tutta la gara. È stata la mia trentottesima maratona su trentotto sotto le tre ore, la ventiseiesima sotto le 2 ore e 50 minuti, la sedicesima sotto le 2 ore e 45 minuti e, come già scritto, la terza sotto le 2 ore e 40 minuti.
Sono contento anche come allenatore di me stesso perché finalmente ho trovato la quadratura del cerchio e un giusto equilibrio tra volume e intensità. Devo lavorare un po’ sulla velocità di punta e intendo farlo con ripetute lunghe.
Qui la traccia Strava: https://www.strava.com/activities/6256574097
Qui la classifica: https://tds.sport/it/race/12024
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