Talora gli eventi sembrano più complicati di quanto appaiano, altre volte invece lo sono davvero, ma l’abitudine alla semplificazione predomina in entrambi i casi: comunque quest’ultimo è un modus operandi che di tanto in tanto si rivela corretto grazie alla legge dei grandi numeri!
Non so quale direzione debba prendere il mondo e non riesco a vedere al di là dell’oscura coltre che cela l’avvenire, però se avessi doti di chiaroveggenza cercherei di metterle a frutto in un’emittente locale. Non mi allettano molto gli altrui impazzimenti perché non sono in grado di comprenderne l’autenticità e preferisco dare la dissimulazione per scontata piuttosto che concedere il beneficio del dubbio.
Bado poco alle dita puntate contro qualcuno, tuttavia non mi soffermo neanche su quelle che sfoggiano unghie smaltate. Non appartengo a niente né a nessuno, non ho referenti a cui rendere conto e non devo vendere nulla a terzi. Ci tengo a mantenere il mio spazio vitale e soprattutto amo trovare il cesso libero.
Invero qualche volta mi chiedo ancora come si dipani un’intima complicità, d’altro canto anch’io sono un essere umano, ma poi penso a tutto quello che può implicare il solo tentativo di scoprirlo e così la curiosità sparisce nel momento stesso in cui tiro un sospiro di sollievo.
È paradossale come i desideri non siano sempre desiderabili e talvolta manco desiderati, ma è difficile spiegare qualcosa del genere a chi non senta il disagio d’essere schiavo di sé stesso e infatti io non provo mai a farlo. In tutta onestà non mi pongo il problema di essere capito anche perché in prima battuta non cerco di mia sponte situazioni dialogiche e trovo più comunicabilità nei soliloqui al cospetto delle pareti o davanti alle attente cortecce degli alberi.
Quasi ontologia
Qualche volta mi risulta difficile stabilire con assoluta certezza cosa sia giusto e cosa invece risulti sbagliato, ma talora le circostanze richiedono una perentorietà che io non sono in grado di fornire loro e in questi casi le decisioni necessarie restano latitanti od ozianti astrazioni.
Se avessi tutte le risposte parteciperei a qualche quiz impegnativo oppure darei un autentico sollievo a chi nelle ore più buie s’interroghi sui propri improvvisi e inspiegabili lutti, ma immagino che l’attuale crisi delle materie prime ritardi anche la consegna di soluzioni esistenzialistiche dall’Oriente. Nel mercato globale si esporta la democrazia e s’importano ragioni arbitrarie, d’altro canto un egoismo ecosostenibile si fonda anche su quell’autosufficienza che implichi il cantarsela e suonarsela da soli. Vi sono coscienze che non ammettono rifiuti e anche questo tratto suppongo che vada nella direzione di un certo ambientalismo.
Cosa devo fare e con quale intensità non è questione che mi sia dato di misurare con una cineseria da comprare in ferramenta, ma tra le discariche del passato vi sono utili concetti da impiegare in un’economia circolare, quella della chiamata alla vita senza preavviso. È davvero gravosa la reperibilità a qualsiasi ora del nulla.
Le questioni quotidiane si dispiegano nell’effimera catena di eventi che confina la libertà in comode restrizioni i cui evidenti limiti sfuggono alla fortunata cecità di chi vi sia sottoposto, perciò terzo occhio non vede e spirito non si muove. Per me l’alternativa a ogni alternativa è la negazione di qualsiasi alternativa e trovo che questa sia una consolante evenienza. Un saluto a chi non c’è perché non è.
Ho guardato in differita il lancio della missione Minerva e ho provato una sana invidia verso Samantha Cristoforetti, forse la persona che stimo di più tra quelle con un passaporto italiano. Se fossi milionario mi getterei con anima, corpo e bonifici bancari verso il turismo spaziale.
Mi chiedo quanti segreti siano adagiati ancora sulla radiazione cosmica di fondo e cosa si annidi nei miliardi di sistemi dei miliardi di galassie che compongono l’universo “visibile”. Mi domando cosa proverei se mi fosse dato di atterrare su un omologo della Terra, se mio fosse il primo passo su un pianeta extrasolare. Forse taluni non si soffermano mai a riflettere in termini di grandezze cosmiche perché sono abituati a ingrandire le piccolezze a misura d’essere umano.
Le imprese della Cristoforetti mi fanno sempre pensare a quanta differenza intercorra tra lei e molti altri esseri umani, quali per esempio gli ubriachi della movida violenta, difatti secondo me c’è più distanza tra la prima e i secondi di quella che vige tra l’homo sapiens e lo scarabeo stercorario: io stesso mi rendo conto che se il mio voto vale uno il suo deve pesare almeno diecimila volta di più. In quale altra specie animale sussistono differenze così marcate tra consimili? Il potenziale umano è incredibile, però è parimenti disarmante la frequenza con cui viene vanificato e mortificato dai più, scrivente compreso. Quanto vorrei vedere la Terra da fuori, avere almeno la possibilità di compiere un volo suborbitale e volgere il mio sguardo verso un buio tempestato da luci vecchie di centinaia, migliaia, milioni, miliardi di anni. Se fossi in grado di viaggiare con il corpo astrale penso che mi procurerei un abbonamento mensile per provare in terza persona la relatività del tempo. Mi sento limitato, ma non calpesto quello che possiedo e mi accetto per come sono: chissà, un domani qui chiamato fine potrebbe aprirmi quella strada di cui ora soltanto vagheggio. Buona viaggio, Samantha.
Parole chiave: ESA, missione Minverva, NASA, Samantha Cristoforetti, spazio
Di recente ho guardato con vivo interesse Sbatti il mostro in prima pagina, un film diretto da Marco Bellocchio che risale al 1972 e di cui forse avevo visto distrattamente qualche pezzo in televisione anni or sono. L’atmosfera è quella meneghina degli anni settanta con tutte le agitazioni che scuotevano la città lombarda e il resto d’Italia in quel periodo di grande fermento.
Immagino che l’opera nelle intenzioni dell’autore avesse un proposito di denuncia sociale o almeno la visione della stessa mi ha indotto ad attribuirglielo giacché i fatti narrati riguardano i rapporti di mutuo soccorso tra l’informazione e il potere, ma l’elemento che più mi ha avvinto è stato l’icastico cinismo con cui Bellocchio ha descritto tali legami.
Il protagonista è il direttore di un quotidiano nazionale, un uomo del tutto spregiudicato e senza scrupoli addosso a cui sbattono come contro un muro di gomma delle figure piuttosto diverse tra loro, figure che invero a mio parere nella narrazione acquisiscono un’identità proprio in termini oppositivi al primo: esempi in tal senso sono il giornalista per il quale esiste ancora una deontologia, la signora matura che intrattiene una relazione di dipendenza emotiva con un giovane attivista politico e la moglie dello stesso direttore alla quale il marito in una breve scena rivolge accuse di mediocrità.
Quest’interpretazione di Gian Maria Volonté mi ha confermato ancora una volta come egli resti uno dei miei attori italiani preferiti di sempre e mi ha fatto un certo senso confrontare questa sua prova con una altrettanto convincente ma dai tratti diametralmente opposti: mi riferisco al suo ruolo ne La classe opera va in paradiso, dove egli ha vestito i panni di un operaio ed è riuscito a dare conto di una crescente presa di coscienza sociale nella lotta di classe; un gigante.
Parole chiave: attori, Cinema, drammatici, drammatico, film, Gian Maria Volonté, Marco Bellocchio, pellicola, recitazione, registi, Sbatti il mostro in prima pagina
Né uova né sorprese
Non mi affliggono le molteplici incertezze che pervadono i parti imminenti del presente e non chiedo ai giorni lontani di adottare delle speranze a distanza. Mi sento bene, sono sereno e condivido tutto questo con me stesso in ragione di un’abitudinarietà che considero una forza pristina. Il resto mi riguarda in misura marginale e cerco di non curarmene oltre quanto mi sia richiesto da certe incombenze.
Sto continuando ad alimentare le mie passioni come se fossero delle figlie predilette e riesco a crescerle da solo perché le mie sono attività individuali. Non cerco approdi né traccio rotte verso mete altrui. Vorrei completare alcune cose a un ritmo più spedito nonostante siano tutte a mio uso e consumo. Conto di reificare alcune idee e sul piano sportivo confido nella mia forma crescente, difatti gli allenamenti mi stanno dando delle belle soddisfazioni che intendo tradurre in qualche tempo certificato. Sono molto concentrato su di me perché sto molto bene in mia compagnia e di certo non me ne faccio una colpa. In queste prime ore di Pasqua non ho ancora sonno e quindi mi diletto a scrivere due righe per navigare a vista nella notte corrente.
Un tempo in occasione di questa festività solevo mangiare dell’agnello fritto e lo trovavo molto buono, ma oggi l’idea di quel cibo violento mi disgusta. Non rompo il cazzo al prossimo e non dico a nessuno cosa deve fare, ma io mi pento per tutta la carne che ho masticato. Non mangio più animali morti (né vivi) da diversi anni, ma sono riuscito a smettere solo a seguito di vari tentativi, precisamente dopo che vidi un macellaio intento a prepararmi della carne di coniglio; avevo già assistito a scene ben peggiori e malgrado ciò quel giorno, al cospetto di quei colpi ripetuti e insistenti, provai una compassione che fino ad allora non avevo mai provato neppure in una camera mortuaria.
Quand’ero piccolo mia nonna e mia madre mi somministravano un’alimentazione onnivora in buona fede, ma se tornassi indietro mi leverei dal piatto ogni singolo boccone di carne e pesce.
Io seguo le mie convinzioni, la Pasqua non mi appartiene e non sindaco le scelte altrui, perciò ognuno divori ciò che vuole, compresi i propri figli a mo’ del Saturno di Goya.
Parole chiave: agnello, alimentazione non violenta, carne, notte, Pasqua, vegetarianesimo
Qualche giorno fa ho appreso che la Grecia ha saldato ogni debito con il Fondo Monetario Internazionale, per gli amici FMI, perciò la notizia mi ha riempito il cuore di eurobond.
Della crisi greca ricordo in particolare la storia di un ex farmacista di settantasette anni, Dimitris Christoulas, che all’inizio del periodo fosco si recò in piazza Syntagma ad Atene e si sparò in testa. Così egli lasciò scritto: "Non vedo altra soluzione che questa fine dignitosa della mia vita, così da non trovarmi a cercare cibo nei bidoni della spazzatura".
Poi arrivò Syriza con a capo il prode Tsipras, ma alla fine il capitale ebbe la meglio con buona pace di Marx ed Engels. Eh, che ci vuoi fare, è la legge del mercato bellezza!
Gli appassionati dell’horror possono trovare un’applicazione letterale delle cosiddette manovre "lacrime e sangue" nella Grecia di quegli anni. Poi vi fu la rapida ascesa di Alba Dorata perché giustamente per i problemi complessi si cercano soluzioni semplici, quindi come sempre accade il tracollo economico fu accompagnato da fortissime tensioni sociali di cui il gruppo d’estrema destra si fece interprete.
Ricapitolando: i politici greci mentirono sui conti pubblici del paese, i politici europei imposero misure draconiane ai cittadini greci, altri politici greci promisero al popolo di opporsi alle misure europee, ma alla fine queste vennero applicate senza umanità con tanto di referendum inascoltato, ovviamente. Il sillogismo viene da sé, così come la naturale conclusione che votare non serve a una sega.
Parole chiave: Alba Dorata, crisi, debito pubblico, economia, eurobond, Europea, FMI, Fondo Monetario Internazionale, Grecia, Syriza, Tsipras
Non conoscevo la storia delle proteste sudcoreane che nel 1980 portarono al massacro di Gwangju, un brutale episodio su cui è basata l’interessante pellicola di Jang Hoon.
Il protagonista è un tassista di Seoul, vedovo, squattrinato e con una figlia da crescere, quindi pronto a non farsi scappare la possibilità di un facile guadagno che gli si profila nel momento in cui viene a sapere quanto è disposto a pagare un giornalista tedesco per recarsi a Gwangju, teatro di forti manifestazioni studentesche di cui lui sembra pressoché ignaro, immerso com’è nelle sue preoccupazioni quotidiane.
In base a quanto ho letto pare che Jang Hoon si sia preso qualche licenza all’inizio del racconto rispetto a come i due personaggi principali si siano effettivamente conosciuti, ossia il tassista Kim Man-seob e Jurgen Hinzpeter, inviato dell’emittente tedesca ARD.
Secondo me il grande pregio del film è racchiuso nello sviluppo interiore del protagonista e nel ritmo credibile con cui viene seguito, difatti Kim una volta entrato a contatto con gli eventi inizia a sentirsi combattuto tra quanto desidera e ciò che invece egli ritiene giusto fare, così finisce per mettere in discussione se stesso e alla fine, aggiungo io, per conoscersi.
Secondo me alcune scene rischiano di offrire il fianco a una certa retorica, ma forse il parziale ricorso a quest’ultima è un po’ inevitabile quando vengano trattate certe vicende e ammesso anche che sia davvero così queste comunque non inficiano il valore dell’opera.
Un altro punto di forza del racconto risiede nell’abile sfruttamento del gap linguistico, difatti Kim parla poco inglese e Jurgen non conosce neanche una parola di coreano, ma questo ostacolo viene ribaltato in un vantaggio narrativo: tale espediente permette di allargare la comunicazione oltre i confini del solo linguaggio verbale con un risultato a mio parere tanto efficace quanto verosimile. Anche la cadenza dei momenti concitati in alternanza con le scene più distese e riflessive gode secondo me di un equilibrio perfetto. Insomma, A taxi driver mi è piaciuto moltissimo e mi ha portato a conoscenza di un fatto storico di cui non sapevo nulla benché io in Corea del Sud ci sia pure stato circa quindici anni fa.
Parole chiave: A taxi driver, ARD, Cinema, Corea del Sud, film, Gwangju, Jang Hoon, Jurgen Hinzpeter, Kim Man-seob, proteste, sudcoreani, Taeksi unjeonsa
Le solite mattanze
Da qualche parte nel mondo cadono ordigni e le pallottole viaggiano ad altezza d’uomo, altrove invece quegli stessi eventi gettano ombre che preannunciano scenari similmente distruttivi: in entrambi i casi v’è un crollo verticale e un effetto domino di cui le altrui esternazioni dànno conto in maniera più o meno diretta con o senza il concorso di una volontà cosciente.
La minaccia pende come una spada di Damocle e l’angoscia che attanaglia taluni s’ingenera dalla natura indecifrabile del pericolo, ossia dall’impossibilità di tracciarne una forma la cui attendibilità abbia i crismi dell’immediatezza: tutto è vago e opaco nei nembi prospicienti il golfo delle certezze, come se i primi fossero sul punto di fagocitare ogni caposaldo.
Cosa si oppone a come si oppongono gli uni contro gli altri che a loro volta vedono terzi opporsi al loro opporsi? Non ne ho idea, ma dubito che in questo caso si possa fare affidamento su entità trine ed è evidente di per sé come in tali circostanze il terzo non goda, anche perché tertium non datur o almeno così sembra. Quello che è giusto differisce da quanto è opportuno o forse fa comodo pensarla così per alleggerire la coscienza e mantenere le luci accese senza rinunciare all’una né alle altre, quando invece taluni sono chiamati ad abdicare alla vita per le proprie idee e per i propri simili. Tutto o niente accanto a tutto e niente, ma così passa la gloria del mondo. Vi sono questioni più grandi di me sulle quali io posso confezionare solamente pensieri parzialmente riciclati, come in una sorta di economia circolare delle opinioni. Non si butta via niente tranne la vita. Adombrarsi serve a poco, ma può darsi che aiuti a compensare il pallore sebbene etica ed estetica siano intrecciate in un tutt’uno: un palazzo divelto e ancor di più un cadavere sfigurato dicono molto in questo senso con i rispettivi silenzi.
L’auspicio della cosiddetta pace incontra il mio favore, ma ritengo quest’ultima come in perenne subordine all’interesse personale di chi la sostenga. Su un certo piano non v’è distinzione tra chi spera nella fine di un conflitto per salvaguardare le proprie abitudini, i propri averi, le proprie certezze e chi, invece, condivide la stessa aspettativa per avvicinare il mondo alla sua visione dello stesso: in altre parole a me sembra che certe esternazioni procedano quasi sempre da meccanismi di identificazione e appagamento sebbene questi siano celati a livello conscio dalla pavidità in un caso e dall’ideologia nell’altro.
La parvente empatia verso i popoli in lotta è proporzionale all’insistenza con la quale le notizie vengono diramate e alla portata con cui le disgrazie altrui gettano un’ombra minacciosa sul proprio ordine delle cose, infatti poco sconcerto, apprensione e interesse destano i conflitti che si svolgono a certe latitudini, quasi come se i primi definissero le seconde e fossero endemici a certi inferni terrestri. Non scrivo codeste cose per indicare con stucchevole retorica l’ipocrisia imperante, bensì come mio costume mi limito a sottolineare l’ovvio affinché resti tale nella mia mente e non assuma le illusorie sembianze di cui sopra.
La solidarietà ha una matrice adattiva ed è l’arma in più di chi non ne voglia altre, ma nell’essere umano albergano millenni di sopraffazione e la mutua distruzione è una tendenza di cui forse la specie non si libererà mai. Può darsi che in capo ad alcune settimane o nell’arco di qualche mese la guerra si espanda dalle ex repubbliche sovietiche fino al cuore dell’Europa: chi lo sa? A me non piace l’odore della morte e non amo le città coventrizzate, ma prima di tutto ho in orrore queste cose perché me ne sento minacciato e solo in un secondo (per quanto immediato) tempo per un senso di viva partecipazione alle sciagure dei miei simili: talora l’onestà è brutale. Non so come mi comporterei se mi ritrovassi a imbracciare un fucile per proteggermi, tuttavia ho paura di quello che potrei diventare per combattere e di quello con cui poi dovrei convivere se riuscissi a non farmi ammazzare.
In questi tempi di facile sconforto ravviso un’idea predominante, la quale invero fa sempre da sfondo alle vicissitudini umane e ne costituisce l’orizzonte ultimo, perlomeno sotto la ristretta prospettiva biologica, ossia quello della morte.
In Ucraina esistenze innocenti vengono spezzate anzitempo dal braccio armato della politica estera e dalla tendenza alla sopraffazione che alberga negli uomini da sempre, benché in debite proporzioni e con rapportate capacità di nuocere: laggiù le persone non riescono a vivere; altrove, come in Italia, individui parimenti innocenti ma già consunti da malattie terminali o da condizioni simili, si vedono invece privati del diritto a una fine dignitosa.
Da una parte la vita non riesce ad affermarsi, perché la sua negazione più atroce per modi ed entità, ossia la belligeranza, si scatena e agisce anche contro coloro da cui è servita con riverenza; in astratta e speculare opposizione a questa inveterata circostanza, giacché la storia umana dimostra come i popoli abbiano eletto ad abitudine il reciproco annientamento, vi è l’impossibilità di morire per propria scelta, autodeterminandosi, per eludere sofferenze inutili.
I due piani si possono sovrapporre solo idealmente, tuttavia risuona in me questo paradosso: chi vuole abbracciare la vita non può farlo in quanto vi viene strappato con forza, chi invece la vita la vuole salutare in un ultimo rito di somma libertà e catartico distacco, è costretto a protrarre il proprio dolore in ragione di questioni puramente formali, politiche, ideologiche, per le quali non vi è morfina che tenga. In buona sostanza ma in cattiva sorte, al di là di quali siano le dinamiche specifiche di queste due situazioni, ossia la guerra e l’opposizione all’eutanasia, la morte ne è il tema comune, il fil rouge che Atropo, la più anziana delle Parche, recide troppo presto o troppo tardi. Si muore, soleva affermare Heidegger per riferirsi al concetto di si impersonale, ma la fine altrui in realtà invita sempre a riflettere sulla propria.
Parole chiave: eutanasia, guerra, morire, morte, si impersonale, vita, vivere