Talora la stanchezza offre alla malinconia l’occasione di tendermi agguati proditori, ma queste imboscate si concludono sempre in un bagno di sangue che non è il mio. La mente vuole scherzare con il fuoco e allora è giusto che si bruci con la viva fiamma della lucidità. Rasento l’invulnerabilità quando mi riesca di concentrarmi e mantenermi presente a me stesso: in questa pratica v’è qualcosa di miracoloso e riprova come nell’individuo, latente e sopito, si annidi tutto ciò di quanto egli abbisogna.
La riduzione del sonno, l’improvviso sconvolgimento dei ritmi circadiani e la frammentazione del riposo mi ricordano quanto l’umore sia in balìa delle circostanze, degli accadimenti, di piccole modifiche alla routine, ma l’anzidetta lucidità può fare da argine alle influenze più mendaci, a quei convincimenti che cercano di farsi strada tra dubbi di circostanza per piantare radici venefiche.
Cosa accade a quanti non si avvedano di questo meccanismo? Come vengono tritati emotivamente coloro che non sappiano cogliere gli ingranaggi e gli automatismi di simili dinamiche? In che misura attenta a sé chi non sta attento a sé? Mi sforzo di ascoltare tutti i campanelli d’allarme e, quando niente rompa il silenzio, mi metto io a suonarne uno come allerta al cospetto di caratteri sospetti: dlin, dlon. Non ho bisogno di vaccinarmi per evitare che l’altrui negatività mi contagi, difatti mi basta ricorrere al razzismo nei confronti di chi, consciamente o meno, se ne renda veicolo. Rispetto la distanza di sicurezza per rispettare me stesso e di per sé non mi alletta la prospettiva di gettare un ponte come forma d’evasione fine a se stessa: certe cose tolgono più energie di quante ne restituiscano e poco importo se dall’altro capo del cosmo o del tavolino via sia la più alta depositaria della beltade.
Un paio di giorni fa sono andato al cinema per assistere alla proiezione di 2001: Odissea nello spazio, opera che ho visto più volte, ma di cui non avevo mai avuto fruito prima sul grande schermo. In merito al film v’è poco o tutto da scrivere giacché costituisce un vertice della settima arte, quindi non voglio sviscerare il lavoro di Stanley Kubrick sul quale, come testé affermato, credo che vi sia poco o tutto da dire, bensì voglio ricordare a me stesso l’importanza di vincere la pigrizia e muovere il culo ogniqualvolta si presenti l’occasione di simili proiezioni: per me il livello d’immersione al cinema non ha pari.
Ci sono molti film datati che mi piacerebbe rivedere nel silenzio religioso e nella parziale oscurità di una sala cinematografica giacché furono pensati e girati per quest’ultima dimensione, con le proprie peculiarità tecniche e non (anche la semplice atmosfera), elementi per i più (e di sicuro per me) impossibili da riprodurre in un contesto domestico. Se mi sarà possibile andrò a vedere Frankenstein Junior, ormai prossimo al cinquantennale, e Akira, forse il mio film d’animazione preferito che sarà riproposto nelle sale per celebrare i trentacinque anni dalla sua prima.
Durante le ultime sessioni di allenamento ho ricevuto delle piacevoli conferme sul mio stato di forma e mi accingo a darmene conto snocciolando pedanti statistiche. Mi sento appagato nella duplice veste di atleta e allenatore di me stesso, perciò punto a convertire i miei sforzi in risultati ufficiali durante la prossima primavera o nei suoi immediati confini temporali.
Ho fatto bene a starmene un po’ lontano dalle gare per concentrarmi su una preparazione più corposa e articolata. A dicembre ho corso 540 chilometri, a gennaio 402 e già dall’ultima settimana del precedente mese ho cominciato a raccogliere dei buoni frutti, ma i più munifici sono stati i primi otto giorni di febbraio durante i quali ho macinato 117 chilometri mantenendo un ritmo medio di 3’51”. Inoltre alla fine di gennaio ho sostenuto due allenamenti lunghi di seguito con un buon ritmo, giacché il 29 gennaio ho messo in cascina 32km a 3’57” e il giorno successivo, il 30 gennaio, ho incamerato 24km a 3’54”, poi non ho corso il trentuno affinché le gambe potessero recuperare un minimo di brillantezza così da cominciare bene il corrente mese.
1 febbraio: 6km a 3’34” e 12km a 4’15”
2 febbraio: riposo
3 febbraio: 22km a 3’47”
4 febbraio: riposo
5 febbraio: 18km a 3’46”
6 febbraio: 25km a 3’49” con vento forte e freddo.
7 febbraio: riposo
8 febbraio: 16km a 3’57” con vento, qualche salita e 12 chilometri su strada bianca.
Sto giostrando tre paia di scarpe a seconda dei ritmi, laddove per le andature più lente opto per New Balance Fuelcell Propel V3 mentre uso Brooks Hyperion Tempo e Saucony Endorphin Pro 2 per velocità più sostenute.
Questione di proporzioni e condizionamenti
Pubblicato giovedì 26 Gennaio 2023 alle 23:03 da FrancescoPer me un’opera meritoria nei propri confronti (e dunque conforme all’amor proprio) consiste nel ruminare concetti edificanti. Non mi cale molto di come si propaghino le onde elettromagnetiche, ma cerco di attenuare l’impatto di quelle vibrazioni negative che provengono dagli altrui pensamenti e il mio strumento d’elezione per questo scopo è un’ironia di cui le presenti righe non dànno conto: poco male. Urta il mio senso estetico e trovo dunque molto stucchevole l’ebete ottimismo di un sorriso perenne, come se una paresi facciale fosse conditio sine qua non per la concessione del favore da parte degli dèi. Non cerco troppe ragioni al cospetto dei fatti né provo a piegarne le dinamiche affinché rientrino nella mia visione del mondo, bensì inquadro i singoli eventi come movimenti ordinari di quello spirito assoluto su cui Hegel tanto si spese nelle proprie elucubrazioni.
La storia si articola in momenti più o meno conformi ai rispettivi e soggettivi modi d’intendere la realtà dell’epoca di turno a cui spetti il ruolo di presente, perciò il bene e il male sfuggono a classificazioni assolute e durature giacché si alternano nello spazio e nel tempo come le offerte nei supermercati.
Tutto sul piano umano risulta molto aleatorio e non di rado la massima manovra possibile sul corso degli eventi consiste nella maniera di viverne le conseguenze. A volte l’inazione è una scelta obbligata, ma l’insofferenza verso quest’ultima produce decisioni impulsive e sbagliate (ma non sbagliate in quanto impulsive) ed esiti nefasti: ognuno è artefice di sé. Qualcuno si reca al fiume per ammirarne il corso, per godersi da laggiù un’alba o un tramonto, oppure per aspettare che le acque portino i cadaveri dei nemici, qualcun altro invece raggiunge l’oceano e prova a prosciugarlo con un cucchiaino.
In questi tempi di forti rincari soltanto le scelte sbagliate mantengono stabili i prezzi da pagare in seguito, perciò non mi sorprende che taluni vi ricorrano senza posa per rinfoltire le proprie illusioni. Non ho idea di come si calcoli la differenza tra cattivi consigli e buone intenzioni, perciò tendo a non fidarmi di nessuno e le speranze preferisco riporle in fondo al congelatore o nel cassonetto dei rifiuti organici. Nella misura del possibile, la quale è sempre variabile e non si fa mai costante, cerco di stare al di fuori del tempo mentre veleggio in solitaria su quanto me ne resta da vivere. Le molteplici accezioni della singolarità si possono riassumere in implicazioni così comode da renderne improbabile o comunque ardua la rinuncia.
La ricerca di distrazioni ed emozioni forti restituisce un’immagine desolante giacché ai miei occhi non si configura come svago o edonismo autentico, bensì tende a prendere le sembianze di un’evasione in senso letterale, vera, pervicace e fallimentare fuga dai recessi più reconditi e invalicabili del sé individuale. Queste e analoghe suggestioni emergono in me quando, mio malgrado, assisto a degli entusiasmi dai quali non riesco a farmi contagiare e sì che non sono nemmeno vaccinato! Ognuno si arrabatta con quanto possiede o con le convinzioni che riesce a prendere in prestito da altri, ma taluni si ritagliano angoli autarchici e riescono a soddisfarsi con le proprie produzioni. Non cerco punti di contatto né punti di rottura e non ho fili né fidi scoperti, però i miei capelli sono lunghi e non so quanto elettrostatici. Non aspetto né mi auguro che qualcosa mi caschi dal cielo, tuttavia mi piacerebbe assistere alla caduta di quest’ultimo.
Non ci sono più i golpisti di una volta e la nobile arte del coup d’état è ormai ridotta a semplice vandalismo, ma in questo senso non vedo come ci si possa aspettare qualcosa di più da chi ha inventato la bossa nova, dai.
Mi diverte il sussiego di chi coglie la palla al balzo per parlare delle "democrazie fragili", dell’importanza di restare "nell’arco costituzionale", della "ferma condanna a simili fatti", come se egli (o lei, loro, asterischi, schwa e liocorni) invece di giocare all’oratorio si trovasse titolare nell’undici dell’avvenire. Certo, sempre in subordine a una buona idratazione, ma anch’io ho fatto mia la buona abitudine di non postulare un bene assoluto né un male assoluto, perciò lascio volentieri al metro della storia la misura di un regime, di una rivoluzione o di un qualsiasi rovesciamento dell’ordine costituito.
Una dittatura che sia stata sconfessata dalla storia ha in ciò la sua colpa capitale, più grave di quelle che si possono attribuirle a seconda delle convenienze e delle convinzioni le quali, tra l’altro, spesso sono un’unica cosa a cui applicare l’ideologia (il nonno ti portava nella sezione del PCI, a un altro il vecchio gli parlava dei repubblichini), la morale (becero fenotipo residuale, eventi traumatici, proiezioni su oggetti importanti) o gli adesivi delle gomme da masticare (quand’ancora se ne trovavano, mala tempora currunt).
Preferenze musicali e cinematografiche del disgraziato 2022
Pubblicato domenica 1 Gennaio 2023 alle 18:54 da FrancescoSpoiler: il 2023 sarà un anno di violenze, distruzioni e ingiustizie con i buoni propositi che faranno la fine dei bambini yemeniti, perciò v’è da sperare che il caro energia colpisca anche il Sole e ne cagioni il salvifico spegnimento. In attesa della morte termica annoto di seguito la mia top three di album e film per il 2022.
Riot City – Electric Elite (2022): ho perso il conto degli ascolti, disco fenomenale ed esaltante dall’inizio alla fine, privo di una sola traccia debole. Non epigoni, ma degni eredi di Judas Priest e Iron Maiden (le influenze più evidenti). Top track: Tyrant.
Banco del Mutuo Soccorso – Orlando, le forme dell’amore (2022): concept album monumentale, malgrado le vicissitudini il Banco continua a tirare fuori cose eccezionali dopo cinquant’anni. Da ascoltare nel suo complesso.
The Halo Effect – Days Of The Lost (2022): gli In Flames degli albori si confermano maestri del Gothenburg sound, a riprova di come il melodic death metal sia ancora vivo e non abbia esaurito tutte le soluzioni possibili.
Film:
Crimes of the future di David Cronenberg: vince a mani basse e ha sancito il mio ritorno in sala.
Gli orsi non esistono di Jafar Panahi: audace opera iraniana che oscilla tra la denuncia sociale e il metacinema (un film nel film). Ho avuto la fortuna di vederlo nell’ultimo avamposto culturale della mia provincia, il Cinema Stella.
Beavis and Butt-Head alla conquista dell’universo di John Rice e Albert Calleros: beh, questa è stata la vera opera morale del 2022, un sunto delle massime aspirazioni e possibilità umane.
Agli sgoccioli del calendario gregoriano non mi figuro nulla d’inedito giacché la fine di un anno e l’inizio del successivo hanno carattere puramente formale. Non ho progetti né per il trentuno né per l’avvenire tutto, ma posso contare una spontanea disciplina che allieta i miei giorni e mi fa appartenere al tempo di cui dispongo.
In quest’epoca di facili contagi permane l’influenza dell’altrui scoramento, perciò mantengo oggi come ieri le debite distanze da quanti siano portatori, interpreti o appassionati di sventura e, di nuovo, io non faccio mistero del mio solipsismo. Non ho la facoltà di aiutare nessuno e non possiedo nulla da condividere, ma rivolgo i miei più sinceri auguri a quanti navighino in acque burrascose: che gli dèi vi assistano. Non ho fiducia in nessuna idea, in nessuna persona, in niente, tuttavia tale mio scetticismo è fondato su una convinzione filosofica e non scaturisce da una qualche esperienza incresciosa che mi abbia portato a dire “amici amici e poi mi rubi la bici”. Non mi arrovello per il futuro né colgo l’attimo, ma non cerco neppure di accomodarmi nel passato e in altre parole, ugualmente criptiche, sembra quasi che io non esista: in tutta onestà codesta prospettiva non mi turba. Lascio ad altri l’onere di definirsi o addirittura d’essere. Anch’io sono un oggetto ontologico, però non m’identifico in questo ruolo più del dovuto e mi accontento del sei politico: non vedo quale sia il problema di farsi rimandare in un gioco di rimandi. Si parla tanto per parlare, si scrive tanto per scrivere e si vive tanto per vivere o almeno questo è il punto massimo a cui obtorto collo sono disposto a spingermi.
Mi affido alla lucidità di Max Stirner per raffreddare i timidi esordi di un inverno troppo mite, ma le sue parole risuonano in me e mi riportano alla mente convinzioni un po’ banali a cui già anni or sono pervenni autonomamente. Sono cosucce che amo ricordare a quanti pretendano d’irretirmi con i loro "associazionismi" di varia risma.
Per me l’umanità è soltanto una coazione a ripetere, molteplice espressione di un egoismo primario (e primevo) che talora assume aspetti edificanti, persino salvifici all’apparenza (appunto), mentre in altri casi si mostra con sembianze abiette, ma sempre in qualità di mentite spoglie a cui, per amor del vero, v’è da preferire le omologhe cadaveriche.
La prole è un frutto egoistico, l’altruismo è paradossalmente egoistico, la giustizia è un’idea arbitraria che cambia a seconda delle latitudini e difatti ogni potere ritiene la sua "sacra": insomma, un bel merdaio, no? La legge è sì uguale per tutti, ma per tutti quanti siano uguali tra loro (gendarmi, signori e signore dell’aeropago di turno, pubblicani di varia estrazione, ometti e donnette con un minimo di potere e via discriminando).
La specie e i suoi ergastoli chiamati "pargoli": che ilarità, che ridere, che defungere.
Ottima penna quella di Chatwin: sagace, disincantata e con una grande proprietà di sintesi. Secondo me questi resoconti patagonici oscillano tra un taglio da saggio storico e una prosa alla Kerouac, in una commistione di stili che a mio parere giova al ritmo delle lettura.
Quella raccontata da Chatwin è l’Argentina più remota, agreste e ostile in un arco di tempo che abbraccia il secolo decimonono e il primo Novecento, in cui risuonano gli echi delle migrazioni europee, il latifondismo inglese, le differenze tra stranieri e autoctoni, l’impraticabile via della lotta di classe e gli avvicendamenti politici. Chatwin ha il doppio merito di dispensare caustica ironia nelle sue cronache senza che al contempo la prosa gli si riduca semplicemente a quello: in un efficace gioco di equilibri persino i molteplici cenni naturalistici risultano avvincenti e non promanano mero nozionismo.
Io consegno a In Patagonia un’ulteriore chiave di lettura ed è quella che verte sul modo in cui vengono delineati i profili psicologici di alcuni soggetti: in quelle descrizioni non vi sono soltanto i peculiari racconti di esistenze inconsuete, bensì sguardi acuti sulle ambizioni, i fallimenti e l’incomunicabilità d’umana fattura. Alla fine del viaggio nel viaggio (nessun refuso) trovo conferma del mio apprezzamento per questo tipo di letteratura odeporica benché non ne sia un accanito fruitore.
Ho scoperto che Werner Herzog, un regista a me caro, ha realizzato un film (Nomad) ispirato all’interessante figura di Bruce Chatwin, ma devo ancora vederlo e non mancherò di farlo (a meno che io non manchi tosto).