Si avvicina il mio genetliaco e ne scrivo come se me ne fottesse qualcosa, ma in realtà questo incipit è una scusa per spiccare un volo pindarico. Negli ultimi sette giorni sono riuscito a correre cento chilometri, circostanza che non si verificava da marzo, e il mio assetto psicofisico ne ha tratto beneficio: mi sento in forma e la fluidità delle mie letture ad alta voce mi conferma come io abbia ritrovato un alto livello d’attenzione.
Le mie facoltà non sono in totale subordine all’attività fisica, ma è innegabile quanto le prime si avvantaggino con la seconda: la macchina biologica, o almeno la mia, funziona così. Uso me stesso per studiarmi, in una disciplina che più autoreferenziale e introspettiva non si può, quasi una ricerca dell’autoscopia in senso lato. Credo invero che l’analisi dei miei processi dica molto anche sulla realtà a cui nolente o volente io appartengo, però non mi spingo a ritenere le mie conclusioni pari a una scrupolosa ricerca compiuta con tutti i crismi del caso e d’altro canto nemmeno me ne frega un cazzo. Indagare le mie funzioni, le mie associazioni d’idee, risalire alle cause prime (o presunte tali) di certi pensieri, insomma vagliare buona parte della mia congerie mentale e biografica è una buona pratica a cui devo tanto (è un po’ come il debito pubblico nipponico che è detenuto in larga parte dai giapponesi).
Cosa voglio esprimere con quanto ho scritto finora? Nulla di particolare, è un po’ come se usassi le lettere a mo’ di coriandoli e me le gettassi addosso per celebrare l’usanza inveterata di guardare al mio interno. So come condizionarmi, almeno in parte, perciò ho il grosso vantaggio di non essere in completa balìa degli eventi, al di là che essi siano positivi o nefasti. Ogni tanto penso a me stesso e mi strappo un sorriso da solo. Bene, molto bene.
In costante tendenza verso l’autoscopia
Pubblicato domenica 14 Maggio 2023 alle 22:55 da FrancescoLa mia età atletica è inferiore rispetto a quella anagrafica, anch’essa invero non troppo tarda, perciò sono conscio di come tutti i miei primati personali nella corsa siano passibili di miglioramento e, nella misura del possibile, intendo perseguirne il progresso.
A ottobre la rocambolesca vittoria alla maratona di Pescara e, la settimana dopo, il quarto posto alla maratona di Forlì, mi avevano fatto sperare in una stagione stellare, ma poi non sono riuscito a sfruttare gli ottimi allenamenti di cui sono stato, autore e interprete. Credo che questi mesi di lontananza dalle gare abbiano giovato alla mia fame agonistica o almeno alla voglia di tornare a un certo livello di preparazione.
Da mesi nella mia zona battono venti insistenti che sono stati concausa del mio allentamento negli allenamenti (col senno di poi una provvidenziale assonanza), ma sto recuperando anche la voglia di vincere questa tremenda rottura di coglioni. La corsa mi ha dato più di quanto io abbia dato a lei e finché ne avrò modo continuerò a praticarla, fosse anche a ritmi blandi, ma credo che davanti a me si stagli ancora un ampio orizzonte su cui togliermi ulteriori soddisfazioni, come già mi sono prospettato all’inizio di queste trascurabili righe.
L’entusiasmo può variare d’intensità, tuttavia di fondo v’è qualcosa d’immutabile nell’essenza ludica e infantile (nell’accezione più alta del termine) che sta alla base del mio rapporto con questo sport: di ciò sono molto grato in quanto mi rendo conto della mia fortuna. Al di là che un domani certe cose mi riescano o meno, sono le intenzioni, e non già i processi a loro carico, a stimolarmi e ad avvincermi, ergo a prescindere dagli esiti che verranno.
Non riparto da zero giacché riesco ancora a tenere ritmi attorno ai 4’/km o poco al di sotto, perciò devo solo sottopormi a una buona base di fondo settimanale e poi aggiungere alla strada, per me mai costellata di tabelle o programmi prestabili, qualche sessione più specifica per la velocità di punta.
Il perenne mutamento è inesorabile: ovvio
Pubblicato mercoledì 19 Aprile 2023 alle 20:07 da FrancescoUn ministro ha prospettato il pericolo della sostituzione etnica in Italia e questa sua uscita mi ha divertito tanto quanto le accuse di suprematismo che gli sono state rivolte da gente altrettanto rivoltante. Credo che in larga parte dell’Europa si sia oramai innescato un processo ricorrente nell’effimera storia del genere umano, ossia quello della progressiva scomparsa o riduzione di una cultura a favore di un’altra, o la diluizione della stessa in una nuova sintesi. Mi viene da pensare che in passato simili dinamiche avessero tempi dilatati per la maggiore lentezza delle migrazioni, per la minore aspettativa di vita e per le popolazioni in numero inferiore rispetto a quelle odierne. Non mi identifico con un avvenire che mi sarà postumo, perciò non mi turbano gli inevitabili mutamenti ai quali i consessi umani non possono sottrarsi. Al contempo non stravedo per le società multietniche e difatti preferisco quelle più omogenee laddove, sia chiaro, una simile omogeneità vada intesa sempre come un elemento spurio per le influenze pregresse e ormai sedimentatesi da cui è nata, ma di certo più identitaria rispetto a realtà aperte: è anche in ragione di questo mio punto di vista se apprezzo il Giappone sotto plurimi aspetti.
L’Italia non si è sempre chiamata così e l’italiano è stato preceduto da altre lingue su cui si è formato, perciò, a mio trascurabile parere, tanto la prima che il secondo, scemeranno lungo l’orizzonte della storia, perlomeno nei modi e nelle forme esperiti da chi ne è, ne è stato e ne sarà coevo. Certe preoccupazioni secondo me dànno conto della paura della morte e di come l’idea di quest’ultima possa influenzare quello stesso presente che invece, in una rigorosa lettura dei fatti, da quella dovrebbe trarre la sua essenza. L’ipotesi che l’ordine delle cose non rimanga lo stesso può spiazzare taluni, ma tutto è destinato a mutare e quest’ovvietà risulta meno banale quando debba diventare oggetto di un’autentica interiorizzazione, al di là della sua facile e immediata comprensione intellettuale.
Non m’imbarazzo con me stesso quando penso alle cosiddette vibrazioni negative, ma ammetto che proverei una certa perplessità se a cotale espressione ricorresse qualcun altro. Invero mi riferisco a tutte quelle influenze nocive e fuorvianti che, al di là di come un individuo decida di battezzarle, hanno un innegabile potere manipolatorio, perciò i loro effetti sono più reali di quanto le loro nomenclature risultino risibili.
Per difendermi da questi agenti esterni mantengo attiva l’introspezione giacché da essa deriva la mia capacità di percepire il mondo e le sue istanze, in un grado di adesione alla realtà fattuale che sia più o meno apprezzabile. In queste stesse righe posso notare come i costrutti e le scelte delle parole siano indice di un ricercato distacco dall’argomento, come se la cosa non mi concernesse affatto; è un tratto divertente, la cui sottolineatura mette in luce la mia autoironia mentre il riconoscimento di quest’ultima accarezza il mio ego in una sorta di perversa ed efficace gratificazione introspettiva; quanto sono bravo perché riesco a ridere di me: bravo bravissimo eh? Peccato che ciò non mi dispensi da ulteriori indagini e dal mantenimento di un’opportuna attenzione sui miei processi interiori, però può fornirmi la convincente illusione di prescindere da tutto ciò.
L’imperfetto specchiarsi del Sé negli schemi mentali rassomiglia alle scatole cinesi e talvolta, a mio parere, non conta molto il bandolo della matassa quanto la sua indefessa ricerca, al di là degli esiti finali i quali, per altro, finali non sono mai. La produzione dei pensieri avviene su una catena di montaggio che muta all’uopo e talvolta i difetti di fabbricazione sono tali solo dal punto di vista di quanto fabbricato, ma a un livello maggiore d’astrazione quel giudizio di valore decade e ne subentra un altro il cui accesso, probabilmente, è precluso del tutto o in parte alle facoltà ordinare giacché implica un certo superamento delle stesse.
Un tempo mi piacevano le illusioni muliebri, quegli orizzonti d’affetto che alla fine non sono mai stati altro, però gli anni mi hanno reso invise le impraticabili vie su cui s’inerpica la reciproca conoscenza. Il pessimo tempismo degli eventi è una costante o un segnale di cui sospetto che l’universo sia il mittente: chi lo sa. Ha un sapore beffardo la regolarità con cui le cose giuste avvengono nei momenti (altrui) sbagliati: a me è dato di rispondere soltanto con l’accettazione, un pilastro dell’esistenza che ho imparato… ad accettare!
Di recente ho capito che certi entusiasmi sono ancora nelle mie corde e in tutta onestà non me l’aspettavo, ma restano comunque a distanze siderali e impossibili. Ogni tanto mi presto a quel gioco di banalità nel quale provo a fantasticare come sarebbe finita se le cose fossero andate in maniera diversa. Forse l’età e l’inesperienza mi hanno indotto a una comoda e incondizionata resa. Non mi sono mai sentito importante per qualcuno e di contro credo che io, fatta eccezione per me stesso, non abbia mai dato a nessuno la sensazione di risultarmi indispensabile.
Dimoro in un meraviglioso deserto interiore, con alte dune da cui ammirare cieli sempiterni, perciò non posso pretendere molto di più ancorché di più esista. Restano i silenzi, le distanze, l’indifferenza, le dimenticanze mai fattesi nostalgie, le sabbie del tempo che tutto coprono e obliano, resta il Sé con la esse maiuscola e le sue risorse.
In questa parte dell’anno come in altre
Pubblicato domenica 26 Marzo 2023 alle 21:48 da FrancescoSto trascurando queste mie pagine con la stessa negligenza che posso riservare a cose più importanti, ma tanto le une quanto le altre sono soggette alle fluttuazioni del mio interesse e della mia costanza. Sono impegnato su più fronti, nessuno bellico e tutti autoreferenziali. Mi divido sempre tra le molteplici passioni che mi pervadono da tempo immemore e con le quali arricchisco questo mio transeunte soggiorno sul pianeta.
È da poco passato l’equinozio di primavera e l’ora legale ha scippato un’ora di sonno ai suoi sottoposti, me compreso, ma nell’aria già vibra qualcosa che ho sempre attribuito a questa parte dell’anno. Ho visto attenuarsi in me la fame agonistica sebbene la voglia di allenarmi sia rimasta immutata; al contempo nuovi appetiti si sono fatti strada nelle mie astrazioni e spero di riuscirne ad assecondare i buoni presupposti. Per grazia ricevuta non ho rapporti da coltivare né desidero possedere qualcosa che mi possieda, bensì m’è dato di scoprire tutti quei mondi solipsistici al mio interno di cui ancora ignoro l’esistenza.
Le mie non sono soltanto paroline vaghe sebbene assolvano in pieno anche questo ruolo, ma dànno effettivo conto di quei scenari interiori che nel corso degli anni si sono avvicendati in me con una certa regolarità. Sarei davvero un incauto e un ingenuo se pretendessi di farmi capire da qualcuno o se volessi intavolare un dialogo che ambisse a una profondità superiore a quella delle bolle di saliva: tutto nasce e ritorna in me, in una ciclicità ancor oggi proficua e di cui forse non saprò più niente quando io tornerò al nulla.
A volte mi chiedo se i grandi sconvolgimenti del mondo non ricevano più importanza di quanta ne abbiano e se l’errore di valutazione ricada sempre su quanti l’assecondino, ma io cerco di tenermi informato sul crepuscolo del presente nella misura in cui ciò mi serva per attribuire la medesima inconsistenza all’avvenire: questo ginepraio si sposa bene con il mio modo d’intendere la cosiddetta realtà, qualunque cosa essa sia in ultima o prima analisi: per il resto invece si sono già attrezzati stoici e scettici secoli or sono.
Colgo solamente una differenza di numeri tra lo Stato e il movimento anarchico, difatti entrambi sono portatori d’oppressione, soprusi e ingiustizie, ma almeno il primo conta su un’ampia maggioranza di complici, a differenza del secondo che annovera appena quattro gatti tra le proprie fila. Non esistono princìpi nobili né sante ideologie, ma solo convenienze che talora sono materiali e altre volte ideali. Scegliere le proprie lotte è come ordinare cibo spazzatura in un fast food. Nessuno combatte per gli altri, ma ognuno lo fa solo per se stesso e anche quando i di lui sforzi siano profusi per i suoi affetti egli usa essi come strumento e oggetto da santificare, così da trarne motivazione per sé e il proprio operato: di norma tutta questa farsa nelle sue varie declinazioni, e poco importa quanto in contrasto siano tra loro giacché possiedono questo tratto comune, viene ammantata con una retorica di sacrificio, di coraggio, di grande dedizione, pronta ad applausi di circostanza da chi sposi gli stessi inganni.
L’autenticità e la verità sono questioni personali che pesano troppo affinché le masse riescano a sobbarcarsele senza restarne schiacciate, ma il solo individuo può farsene carico in relazione a se stesso qualora davvero le ricerchi. Forse anche l’impegno autoreferenziale e solipsistico non può mai dirsi del tutto scevro da mendaci implicazioni, tuttavia credo che si trovi a un livello migliore nella scala dell’imperfezione e sia quindi fonte di emanazioni meno spurie. I dibattiti sono aritmie democratiche che fanno da contraltare alla tipica propaganda dei regimi, ma talora la ricalcano nella sostanza ancorché fingano di distaccarsene nella forma. Nulla è certo tranne la morte e la tendenza alla reciproca sopraffazione.
Talora la stanchezza offre alla malinconia l’occasione di tendermi agguati proditori, ma queste imboscate si concludono sempre in un bagno di sangue che non è il mio. La mente vuole scherzare con il fuoco e allora è giusto che si bruci con la viva fiamma della lucidità. Rasento l’invulnerabilità quando mi riesca di concentrarmi e mantenermi presente a me stesso: in questa pratica v’è qualcosa di miracoloso e riprova come nell’individuo, latente e sopito, si annidi tutto ciò di quanto egli abbisogna.
La riduzione del sonno, l’improvviso sconvolgimento dei ritmi circadiani e la frammentazione del riposo mi ricordano quanto l’umore sia in balìa delle circostanze, degli accadimenti, di piccole modifiche alla routine, ma l’anzidetta lucidità può fare da argine alle influenze più mendaci, a quei convincimenti che cercano di farsi strada tra dubbi di circostanza per piantare radici venefiche.
Cosa accade a quanti non si avvedano di questo meccanismo? Come vengono tritati emotivamente coloro che non sappiano cogliere gli ingranaggi e gli automatismi di simili dinamiche? In che misura attenta a sé chi non sta attento a sé? Mi sforzo di ascoltare tutti i campanelli d’allarme e, quando niente rompa il silenzio, mi metto io a suonarne uno come allerta al cospetto di caratteri sospetti: dlin, dlon. Non ho bisogno di vaccinarmi per evitare che l’altrui negatività mi contagi, difatti mi basta ricorrere al razzismo nei confronti di chi, consciamente o meno, se ne renda veicolo. Rispetto la distanza di sicurezza per rispettare me stesso e di per sé non mi alletta la prospettiva di gettare un ponte come forma d’evasione fine a se stessa: certe cose tolgono più energie di quante ne restituiscano e poco importo se dall’altro capo del cosmo o del tavolino via sia la più alta depositaria della beltade.
Un paio di giorni fa sono andato al cinema per assistere alla proiezione di 2001: Odissea nello spazio, opera che ho visto più volte, ma di cui non avevo mai avuto fruito prima sul grande schermo. In merito al film v’è poco o tutto da scrivere giacché costituisce un vertice della settima arte, quindi non voglio sviscerare il lavoro di Stanley Kubrick sul quale, come testé affermato, credo che vi sia poco o tutto da dire, bensì voglio ricordare a me stesso l’importanza di vincere la pigrizia e muovere il culo ogniqualvolta si presenti l’occasione di simili proiezioni: per me il livello d’immersione al cinema non ha pari.
Ci sono molti film datati che mi piacerebbe rivedere nel silenzio religioso e nella parziale oscurità di una sala cinematografica giacché furono pensati e girati per quest’ultima dimensione, con le proprie peculiarità tecniche e non (anche la semplice atmosfera), elementi per i più (e di sicuro per me) impossibili da riprodurre in un contesto domestico. Se mi sarà possibile andrò a vedere Frankenstein Junior, ormai prossimo al cinquantennale, e Akira, forse il mio film d’animazione preferito che sarà riproposto nelle sale per celebrare i trentacinque anni dalla sua prima.
Durante le ultime sessioni di allenamento ho ricevuto delle piacevoli conferme sul mio stato di forma e mi accingo a darmene conto snocciolando pedanti statistiche. Mi sento appagato nella duplice veste di atleta e allenatore di me stesso, perciò punto a convertire i miei sforzi in risultati ufficiali durante la prossima primavera o nei suoi immediati confini temporali.
Ho fatto bene a starmene un po’ lontano dalle gare per concentrarmi su una preparazione più corposa e articolata. A dicembre ho corso 540 chilometri, a gennaio 402 e già dall’ultima settimana del precedente mese ho cominciato a raccogliere dei buoni frutti, ma i più munifici sono stati i primi otto giorni di febbraio durante i quali ho macinato 117 chilometri mantenendo un ritmo medio di 3’51”. Inoltre alla fine di gennaio ho sostenuto due allenamenti lunghi di seguito con un buon ritmo, giacché il 29 gennaio ho messo in cascina 32km a 3’57” e il giorno successivo, il 30 gennaio, ho incamerato 24km a 3’54”, poi non ho corso il trentuno affinché le gambe potessero recuperare un minimo di brillantezza così da cominciare bene il corrente mese.
1 febbraio: 6km a 3’34” e 12km a 4’15”
2 febbraio: riposo
3 febbraio: 22km a 3’47”
4 febbraio: riposo
5 febbraio: 18km a 3’46”
6 febbraio: 25km a 3’49” con vento forte e freddo.
7 febbraio: riposo
8 febbraio: 16km a 3’57” con vento, qualche salita e 12 chilometri su strada bianca.
Sto giostrando tre paia di scarpe a seconda dei ritmi, laddove per le andature più lente opto per New Balance Fuelcell Propel V3 mentre uso Brooks Hyperion Tempo e Saucony Endorphin Pro 2 per velocità più sostenute.