La mia psiche fatica. Sono ancora pervaso dalle lacerazioni affettive e tento di arginarle con un immobilismo temporaneo del pensiero. Potrei ripararmi in questioni più grandi di quelle che mi riguardano direttamente, però un espediente del genere mi consentirebbe soltanto di ritardare l’ennesimo confronto con le mancanze in me cronicizzatesi.
Sono dilaniato da un’arma a doppio taglio. Ho la piena consapevolezza di miei pregi quanto dei miei limiti, ma non riesco a trovare uno sbocco per i primi e i secondi non sono abbastanza forti da smemorarmi. In altre parole è come se fossi continuamente sottoposto ad un’operazione a cuore aperto senza anestesia in quanto la mia lucidità non si fa mai da parte. Di natura e forse per vissuto ho una sensibilità accentuata, ma questa mi ucciderebbe se non avessi un certo controllo su me stesso. Non mi manca la volontà di fare il passo decisivo, tuttavia non trovo un terreno su cui compierlo e per questa ragione mi tengo in equilibrio su una gamba sola. Le lotte interiori di cui sono protagonista non hanno nulla d’originale, ma posso imprimere univocità sul modo d’affrontarle. Devo vincermi, nel senso attivo e passivo che può avere tale espressione. Non ho i postumi di una crisi adolescenziale né anticipo quella di mezz’età: solo lungimiranza.
In parte ritengo che il crollo del mio umore sia da imputare a processi biochimici: ultimamente corro meno e di conseguenza secerno una quantità inferiore di endorfine rispetto allo standard degli ultimi sei anni. La mancanza del sostegno naturale di cui sopra permette alla mia aridità emotiva d’inasprirsi e ne rende più difficoltoso il contenimento.
In questo periodo prediligo un allenamento di tipo anaerobico, perciò utilizzo pesi ed eseguo esercizi a corpo libero che mi giovano moltissimo senza sfiancarmi quanto la mezza maratona o i dodici chilometri di mantenimento durante i quali spingo quasi al massimo delle mie possibilità. In altre parole è come se lo stress fisico allontanasse quello psichico e viceversa. Per parecchio tempo le due entità hanno convissuto in me, ma credo che i cambiamenti della sublimazione ne debbano ancora ridefinire i rapporti. Ho bisogno d’amore come ogni altra persona, tuttavia non disponendone m’avvalgo di buoni surrogati per mantenere la coesione dell’Io. La mia situazione attuale può essere paragonata ad una crisi petrolifera, però confido di risolverla presto e bene. In casi del genere alcune persone possono arginare i sintomi con palliativi a cui io non intendo ricorrere: confidenze con un amico, aumento di zuccheri nel sangue, tabagismo, alcolismo o qualsiasi altra assunzione di droga, crisi mistiche, revanscismo, abbuffate, ricorso al meretricio e vandalismo, solo per citare alcune tra le tante banalità che qualcuno invece spaccia per grandi trasgressioni. Io ho soltanto l’introspezione e me tesso per attenuare il vuoto emotivo, ma non me ne lamento in quanto è ben più dello stretto necessario e difatti mi reputo molto fortunato.
Non mi diverto a sentirmi un pesce fuor d’acqua in un mare di catrame. La storia è costellata di capitoli oscuri che mettono in discussione la definizione di umanità, ma certe pagine vengono privilegiate nella memoria in base a criteri meramente geografici: di vicinanza. Paradossalmente i negazionisti d’ogni sorta e latitudine hanno più cose in comune di certuni che si professano alfieri della libertà, ma le somiglianze dei primi di solito sono improntate ad un’idiozia senza fine. Ardua la scelta tra un buonismo artificioso e una stupidità autentica. Le opinioni su determinati temi non di rado dipendono più dal vissuto personale che dai fatti in sé. Certi tipi di frustrazione generano odio immotivato e gratuito, altre invece un approccio empatico benché insincero: quanta poca padronanza ha la mente su se stessa e quanta fatica per emanciparla un po’. Il Giorno della Memoria a me ricorda un evento che trascende la storia poiché solamente una macchina (difettosa, oltretutto) potrebbe inquadrarlo in una cornice così limitata, tuttavia lo reputo alla pari di un altro olocausto che invece ha avuto e continua ad avere scarsa eco: lo stupro di Nanchino.
Penso puntualmente al principio di prossimità della psicologia della Gestalt (in un senso più ampio) ogni volta che mi rendo conto di come le parti del mondo tendano a dimenticarsi e a sminuirsi vicendevolmente sul piano del male assoluto.
Scorri mio tempo, fatti grande. Fisicamente verso in ottime condizioni, ma ho l’umore malconcio. Non mi spaventano i bassifondi della psiche perché ne conosco ogni dedalo. In parte mi sento sconfitto, ma ne sono parzialmente contento poiché il riscatto sarà più poderoso, tutt’altro che estorsivo. Puntualmente mi adagio sugli allori e con altrettanta regolarità questi si trasformano in oleandri velenosi. Tra le strade delle città di provincia e tra quelle della capitale noto sempre molti schiavi delle droghe, delle religioni o degli ideali: il gran merdaio in cui versa l’umanità da quando ha deciso di unirsi in una mirabolante schizofrenia.
Io mantengo la mia lucidità poiché è la migliore consigliera di cui mi possa avvalere ed è proprio con lei che pianifico il ritorno sulle vette dell’umore. Non rispetto chi si stordisce per non soffrire e non voglio averci nulla a che fare: sono fatto di un’altra pasta e non è certo quella che va per la maggiore nelle discoteche. Le notti in cui non riesco ad addormentarmi le prendo come i dazi da pagare per mantenere la mia umanità, ma non credano i demoni ch’io rinunci a riprendere le ore di riposo di cui sono convinti d’essersi appropriati per sempre: tempo al tempo.
Non ho nomi da maledire né da osannare, non me ne rimbomba nessuno nella scatola cranica e non posso farci nulla, ma vorrei averne uno per tatuarmelo sotto il miocardio a caratteri cubitali.
Suo malgrado la mia zona ha guadagnato le prime pagine del mondo. Quando la Concordia ha urtato contro l’ormai celebre scoglio io mi trovavo a Porto Santo Stefano e ho appreso la notizia dalla radio attorno alla mezzanotte, tuttavia al momento non ho pensato che si trattasse di un incidente grave. Mi sembra che l’attenzione mediatica piaccia ad una parte della cittadinanza e difatti ho udito persone vantarsi per l’accoglienza fornita ai naufraghi: tanto di cappello per la solidarietà, nessuna stima invece per il suo sbandieramento ai quattro venti.
Gli uomini di mare ancora tuonano contro il codardo che ha lasciato la propria nave e il carico di persone in balìa delle circostanze: immagino che nelle giuste invettive di costoro si trovi anche il piacere di dire la propria, il gusto di essere titolati per esprimere un’opinione ai microfoni delle emittenti sciacallesche che pullulano al Giglio, ma di cui se ne può trovare traccia anche in quel di Porto Santo Stefano e persino ad Orbetello. La figura del comandante Schettino ovviamente risiede tra le forche e il garantismo portato all’eccesso, più precisamente quando quest’ultimo cambia pronuncia e diventa “cavillosità”, “bizantinismo”: la consueta precedenza a dei princìpi invece che alle persone in carne e ossa. In Italia come altrove mi pare che troppo spesso taluni si concentrino sulla figura del carnefice e dimentichino velocemente le vittime o ne riducano in modo considerevole l’importanza. Per quanto mi riguarda io credo che se questo mondo fosse un po’ più giusto allora nei reparti di oncologia si troverebbero solamente determinate persone.
Ho attraversato qualche turbolenza, ma sono ancora tutto intero. Non mi aspetto giorni facili né infernali. Se non avessi fiducia in me stesso sarei completamente perso. Riesco a contenere le mancanze affettive con l’amor proprio, ma qualche volta vado in debito di ossigeno com’è anche giusto che sia. La mia natura non mi consente di mettere una pietra sopra certe cose dato che non ho la stoffa dell’eremita né quella per cucire un saio: devo tenere spalancate le porte del cuore e al contempo mi vedo costretto ad accettare che qualche virus possa approfittarne.
Se cercassi di cambiare la mie inclinazioni mi farei un’inutile violenza per proteggermi, insomma alzerei una di quelle difese che in realtà sono vili reazioni al modo in cui l’esistenza non segue il corso sperato. Non è affatto semplice mantenere un equilibrio del genere perché qualche volta è come trovarsi in un fuoco incrociato. Il nocciolo della questione sta dentro di me, però io non basto e in quest’apparente contraddizione sembra che il tutto sia davvero di più della somma delle parti. Per ritrovarmi corro o cammino in scenari bucolici, luoghi che spariranno, come me d’altronde. Adesso sono qua, presente a tutti gli effetti, e non ho fretta di sloggiare. Davanti si snoda una strada d’ombre, crepuscolare, però laggiù c’è qualcos’altro: ben oltre la fine.
Al di fuori del rigore cronometrico e del pressappochismo degli orologi comuni il tempo non è altro che una percezione. Qualche volta, quando corro, riesco a distogliere così tanto la mente dagli automatismi dell’attività fisica che la durata apparente di un allenamento finisce per ridursi di tre quarti. Di ciò m’ero già reso conto quando correvo spesso per ventuno chilometri e ne ho ricevuto ulteriore conferma nelle corse di mantenimento da dodici chilometri.
Inutile sottolineare quanto giovi tutto questo all’alleggerimento della fatica, è meno scontato invece comprendere il perché ciò accada. Districare i pensieri è un’arte della quale vorrei tanto diventare maestro, però sono ancora un novizio, un aspirante entusiasta dalle belle speranze. Indagando su di me ho scoperto che una percezione del tempo come quella sopraesposta io la riesco a raggiungere in due modi. Spesso mi pare che il tempo si contragga quando ripasso gli ideogrammi mentre mantengo una velocità di almeno quattro minuti e mezzo al chilometro; in pratica disegno mentalmente i kanji e quasi mi disinteresso del corpo poiché ormai i movimenti mi sono entrati dentro come gli automatismi ad un musicista: la strada può essere paragonata alla tastiera di un pianoforte dove so sempre in quale punto mettere i piedi (fossero le mani mi dedicherei all’attività circense), alla giusta distanza, come gli intervalli nella musica, ma tutto ciò è più di una semplice sinestesia.
In altre occasioni invece penso alle delusioni e alle loro figlie, le frustrazioni, tuttavia durante la corsa ci ragiono al punto da portarle al parossismo e alla fine dello sforzo aerobico è come se le avessi disinnescate. Non sono sempre in grado di provocare questa catarsi volontariamente poiché per adesso ho esperito i suoi effetti migliori in manifestazioni spontanee, ma sono certo che esiste un modo per generarle. Alcuni tipi di yoga potrebbero essere una via maestra in tal senso, e ovviamente non mi riferisco agli esercizietti che taluni compiono sommariamente per sentirsi meno occidentali e più profondi. Credo che la corsa sia una meditazione e anche per i processi biochimici che innesca offre un humus in cui è possibile trovare altri sbocchi che non siano la cura della forma fisica, l’annessa vanità (della quale invero anch’io mi macchio dinanzi a specchi sempre più silenziosi) o dell’agonismo podistico.
Per i più esigenti è comunque possibile (beh, in realtà non lo è, almeno per adesso) toccare la velocità della luce: in quel caso il tempo diverrà talmente relativo da fare skip sul repeat della storia, questo disco rotto!
Le scatole cinesi al tempo della crisi
Pubblicato martedì 3 Gennaio 2012 alle 10:58 da FrancescoIl mondo non è peggiorato, bensì è solamente giunta notizia delle sue reali condizioni a quanti credevano di risiedere in una botte di ferro che, di giorno in giorno, assomiglia sempre di più ad una polveriera. La tristezza si acuisce in congiunture del genere perché trova un campo fertile su cui espandere la propria sterilità. Quando il presente non è dei più rosei e il futuro pare che non abbia margini di miglioramento, allora tutti i fantasmi di una persona si preparano con il coltello tra i denti, pronti per un assalto all’arma bianca.
In situazioni del genere ogni problema viene amplificato all’inverosimile e degli scogli prendono le forme della cordigliera andina. Il bombardamento mediatico non dà tregua e cerca in qualsiasi modo d’incutere paura, ma si può avere il polso degli avvenimenti senza lasciarsi foraggiare da pane e catastrofismo. Sarebbe più facile affrontare la crisi economica se questa a sua volta non ne aprisse d’interiori. Ci pensi bene chiunque decida di togliersi la vita dato che per crepare c’è sempre tempo, invece per vivere la tirchieria della natura concede pochino: potrebbe fare di più. Non condanno il suicidio e talvolta lo trovo un gesto di estrema libertà, ma soltanto in quei casi in cui non venga dettato da eventi tragici, qualora non sia estorto dalla vita e invece ne diventi il coronamento.
Probabilmente non è il momento migliore per farsi mancare l’affetto, tuttavia può trattarsi di una nuova occasione per mettersi alla prova. Qualche settimana fa elogiavo la bellezza invernale e mi fregiavo della solitudine, ebbene, oggi non sono più così baldanzoso perché anch’io ho preso a combattere qualche spettro e devo essere sincero: mi addormenterei meglio se potessi farlo accanto a qualcun altro. Il sottoscritto porta avanti la sua campagna senza vittorie né sconfitte.
Procedevo adagio, sul cocchio, inebriato dai caldi venti degli inferi adiacenti. Ai bordi della strada non c’era nulla di cui rallegrarsi e le uniche risate erano isteriche, forzate, protratte oltre il limite della cosiddetta normalità. Non sapevo per quanto avrei dovuto battere quella via, perciò stavo attento a non abbassare la guardia. Sebbene non l’avessi mai contemplato con stupore né mai avesse esercitato su di me un forte fascino, mi mancava il volo radente dei piumaggi candidi.
Di tanto in tanto scorgevo dei corvi, quasi tutt’uno con il dominio del buio: servi alati che invece di librarsi altrove pilotavano le cadute altrui. Laggiù, aguzzando la vista, era possibile osservare in lontananza dei campi incolti da cui emergevano mani imploranti; puntualmente, quelle scene destavano in me un profondo senso d’inquietudine poiché non c’era nulla che le dita sporgenti potessero afferrare. Dalla parte opposta, lungo un crinale, procedevano in fila i corpi suicidati. Legati tra loro, quei finali anticipati sembravano dei plagi e ognuno accusava il vicino di avergli rubato l’idea quando invece tutti s’erano sottratti solamente la vita: battibecchi di fine mandato. Sul cocchio, continuavo adagio e attendevo che l’oscurità si diradasse, che nulla più la nutrisse.
Mi affaccio sul nuovo anno dopo una buona dormita. Non mi piacciono i fuochi artificiali così come non mi attraggono le infatuazioni. Non so come si snoderanno i prossimi dodici mesi, però starà a me non inciampare tra i giorni venturi. Mi sento protetto da me stesso e seguirò il tempo fino a quando ne avrò a mia volta. Non ho gioie calendarizzate, ma spero che una mi travolga senza preavviso. Inizio quest’anno nello stesso modo in cui ne ho lasciati molti altri, però peccherei di presunzione se credessi che un tale ciclo non possa cambiare completamente. L’universo non è statico e non lo è neanche l’esistenza dell’essere umano nonostante taluni sostengano l’esatto contrario. Chissà come andrà a finire: per adesso esco a correre e un giorno lontano ci penserò.