Non riesco a dormire. L’insonnia m’incatena alla veglia, ma almeno posso accompagnare la mia prigionia con la tromba di Miles Davis. Ho maturato così tanta esperienza nel campo del vuoto che posso permettermi di navigare a vista nelle notti in cui non riesco a prendere sonno, ovvero quelle che di solito annunciano giornate di almeno trentasei ore. Lunghe tirate per poi arrivare chissà dove; qualcuno direbbe con spirito pionieristico: “Là dove nessuno è mai giunto prima”. Io sono più terra terra anche se vorrei la Luna o quantomeno una stellina, sia pure disadorna. Non credo che il mondo stia andando a puttane altrimenti, seppur a pagamento, si avvierebbe verso un po’ d’amore, invece tutto dà la sensazione che sia prossimo ad un allegro olocausto. Gli organi d’informazione pompano inquietudine al cervello. La storia è fatta di corsi e di ricorsi. Il tempo passa, amabile mattacchione. Da vecchio sarò serenissimo, almeno quanto Marco Polo o giù di lì, ma col mio stile di vita ne impiegherò davvero una intera per avvizzire. Mi piacerebbe diventare un ultracentenario, ma a tempo debito non me la prenderei troppo se dovessi cadere sotto una malattia incurabile o in un incidente mortale.
Ogni tanto vengo accusato di pensare troppo alla fine, però io cerco di guardare al di là di essa col più ateo dei cannocchiali, quello talmente apostata che ha rinunciato pure alle lenti per non sorbirsi storie di luce, rifrazioni e quant’altro. Ogni tanto mi dico: “Francesco, tu avresti potuto fare qualcosa di buono, ne sono certo”. C’è qualcosa d’incompiuto in me, non so cosa sia però ne avverto la presenza talora ingombrante: comunque nulla che possa rovinarmi il sonno, per quello hanno gli appalti le mancanze affettive. Suvvia, la vita va avanti, per fortuna. L’universo è più clemente di quanto faccia credere: infinito sornione.
Ormai non mi sento più uno straniero in patria, ma quasi un astronauta. A proposito: chissà chi andrà a farsi la scampagnata su Marte quando verrà il momento di fare armi e bagagli in nome della scienza. Non vedo l’ora di cominciare a tuffarmi nelle belle acque della mia zona anche se negli ultimi mesi sono stato in apnea a scandagliare abissi variabili.
Sono tempi luttuosi, critici, parossistici, propedeutici per l’autolesionismo: è la stagione delle piogge corrosive. Nel mondo e nella mia esistenza si succedono eventi tutt’altro che piacevoli, ma io resisto alle forze contrarie e ci provo gusto. Ricorro all’archetipo del guerriero e alla sublimazione per fronteggiare il senso del vuoto e la pochezza che pretende di riempirlo. Le prove di forza non bastano, quelle d’intelletto senza le prime sono esercizi di stile e la sintesi d’entrambe è difficile, ma al contempo troppo attraente per non perseguirla. Avverto scariche d’orgoglio che mi fanno sentire vivo. C’è un romanticismo imponente e una dolcezza infinita nell’amore autentico verso sé stessi. Le cadute sono inevitabili e un giorno ce ne sarà una irreversibile, ma può bastare un appuntamento certo per negare tutto ciò che non rientri in una prevedibilità altrettanto granitica? Per me la risposta è no. Cerco di non ripetere gli errori di chi mi ha preceduto e non lascio la mente alla mercé delle circostanze. Qualche volta devo compiere due passi indietro per farne tre avanti, ma lo accetto perché so che l’alternativa è ancora più spossante. Non temo troppo il futuro e manco il presente benché quest’ultimo fagociti ogni cosa e sputi sentenze di morte.
La mia indole è coriacea, ma non so bene in che misura sia merito mio e quanto invece sia da ascrivere a fattori congeniti. Qualche volta ho la sensazione di ritrovarmi la forma mentis di un avo dimenticato che abbia speso l’esistenza a falciare paure, ansie, fisime e quant’altro spesso causi un fratricidio endogeno: l’Es che dilania l’Io. Non riesco a tollerare la meccanicità delle azioni, non voglio farmi coinvolgere dalla mediocrità più di quanto già vi sia esposto, bensì ho il bisogno di agire consciamente, di strappare più terreno possibile ai processi nascosti che sono schierati su alture profondissime. Non è finito proprio nulla: mi sono appena affacciato al preludio.
Per un po’ di tempo ho valutato l’ipotesi d’iscrivermi all’università, ma alla fine ho deciso di non farmi un torto del genere. Gli atenei traboccano di autodidatti, ma pretendono un esborso di denaro e di tempo che è difficile ammortizzare in seguito. Col solo diploma e senza spintarelle, un mio coetaneo è arrivato a gestire il sistema informatico di un ospedale: ricordo ancora quando veniva a casa mia a smanettare con un vetusto Pentium. Un altro ragazzo di mia conoscenza invece possiede soltanto la licenza media, però ha coltivato la passione per l’informatica e per l’elettronica nella stanzetta di un palazzone e oggi fa valere il suo bagaglio di conoscenze in un lavoro che gli ha permesso di trasferirsi. Come ho sentito dire recentemente: “Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna”. Qualcheduno ritiene che la frequentazione dell’università debba formare la persona prima che lo studente, ma sono giunto all’amara conclusione che spesso serva esclusivamente ad alimentare il mercimonio di una cultura fine a se stessa: stipendi e nepotismo. Quand’ero bambino il leit motiv non cambiava mai: “Dovete studiare per trovare un buon lavoro”. Educatori birbanti. Mi sarei voluto laureare in psicologia per poi potermi iscrivere ad una scuola psicoanalitica, ma nel mio caso il gioco non vale la candela. Qualcun altro in merito all’università pone l’accento sulle possibilità di stringere nuove conoscenze, come se la parte didattica fosse soltanto la scusa per parcheggiarsi in un postribolo: diamine, con tutti gli sforzi per mantenercisi allora sarebbe meglio aprirne uno proprio! Non si porrebbe questione alcuna se io avessi uno spessore esagerato, tale da garantirmi l’accesso a degli atenei statunitensi.
Non mi butto giù, e ci mancherebbe altro, bensì prendo atto dei limiti altrui e in modo particolare dei miei: annoto i primi mentre sui secondi pianto la tenda provvisoria di un campo base per un’altra scalata. Non cerco d’interpretare in senso assoluto la questione formativa, non mi faccio querulo, ma compio scelte che abbiano come fine ultimo il mio bene: il resto sia quel che sia.
Mi sento avvolto del tutto da un vuoto pacificatore. Alcune coincidenze le trovo davvero buffe e se fossi suggestionabile sospenderei il mio ateismo, mi spoglierei sulla riva di un torrente e canterei degli inni alla mia buona stella per una notte intera. In realtà (non potrei usare incipit migliore) preferisco serbare la mia nudità pubblica per un atto di disubbidienza civile o per la prima scopata, ma sarebbe quantomeno simpatico se entrambe si verificassero nella stessa occasione: per me è più facile trovare validi motivi per la prima che per la seconda. Ultimamente si sono allungati gli intervalli della mia masturbazione (solo questi, sia chiaro), difatti da un po’ di tempo tra una sega e l’altra intercorrono circa tre giorni. Per anni ho provveduto a eiaculare una volta al dì in modo da eliminare lo stress per svolgere le mie attività con più leggerezza, perciò suppongo che in questo periodo io stia lambendo l’atarassia a mia insaputa. Non che in me vi siano mai state tempeste ormonali di grande intensità, però di rado ho avuto la cattiva creanza di non recar visita a dei siti pornografici per agevolarmi nella masturbazione. Mi fa ridere la pudicizia e la reticenza con le quali taluni trattano l’argomento. Conosco persone che hanno fatto tutto ciò che il contorsionismo erotico consente e che violerebbero pure le leggi fisiche se ne fossero in grado, ma quelle stesse persone provano disagio o vergogna a parlare della loro sessualità sotto un profilo che non sia quello esibizionistico. Soltanto il mio corpo è vergine: ho una mente disinibita. La masturbazione mi ha insegnato ad amare in senso platonico benché ancora non abbia avuto occasione di mettere a frutto gli insegnamenti ricevuti su quel piano né su quello carnale. I risvolti meno gradevoli della mia bizzarra condizione vengono meno quando comprendo il grado di libertà che ho conseguito nel non esercitarne alcuna, ma, in forza delle cognizioni acquisite, ciò non significa che le cose non possano cambiare in futuro. Tempo al tempo: oggi ad esempio è soleggiato e mi appartiene in ogni sua accezione.
E la mestizia m’accusò di lesa maestà
Pubblicato martedì 13 Marzo 2012 alle 10:25 da FrancescoCalpesto pezzi di vetro o frammenti vermigli di cuori infranti? Guardo coloro che sono caduti prima di me e faccio un passo di lato per non rientrare nell’effetto domino. Esistono storie che non sono mai state raccontate, dei supplizi consumati nella quotidianità più crudele e delle lacerazioni profonde che hanno reso vane intere esistenze. Ho consultato la pinacoteca degli orrori presso gli occhi di certe persone e nelle memorie di quelle le cui palpebre si sono serrate anzitempo. In alcuni casi ho dovuto limitare l’empatia per non soccombere, ma ho imparato più di quanto questa stessa retorica possa evocare per ingloriarsi.
Mi sento come se avessi indagato degli abissi catramosi e ne fossi uscito con le ali immacolate. Non mi crogiolo in un’identità che vuole slegarsi da tutto il resto poiché il mio obiettivo è esattamente il contrario, difatti consiste nel rendermi parte della realtà accessibile senza però snaturarmi. Ormai più che incipiente, la primavera giunge al momento giusto, ma un giorno anch’essa scomparirà. Non chiedo niente al tempo e soltanto la mia prosa è l’ambasciatrice di istanze che devono guardarsi dalle fiamme dei fuochi fatui. Il mio non è un cuore di ghiaccio, tutt’al più ignifugo perché la passione deve ardere assidua e non carbonizzare le anime. Il tempo che ho davanti è un corridoio invitante, idoneo per un ulteriore slancio, per prendere l’abbrivo necessario a compiere un salto sopra il prossimo burrone senza così finirci dentro, né con i piedi di piombo né con la testa fra le nuvole.
L’altro ieri ho creato la sesta playlist con cui accompagnare le mie sessioni di corsa e domenica mattina l’ho provata su strada per diciotto chilometri con risultati pregevoli. Ho ricevuto anche la certificazione di due ciclisti un po’ attempati ma ancora arcigni, forse ex podisti: entrambi infatti hanno riscontrato in me delle doti da fondista, in particolare nel modo di alzare le gambe, però mi conosco e so che parte del merito dell’andatura è sempre da ascrivere al tappeto musicale. Peccato che mi manchi la fame agonistica e che io oggi punti a salvaguardare la muscolatura, sennò mi sarei divertito a pesare cinquanta chili in modo da avere qualche piccola chance per vincere delle mezze maratone: sono felice comunque di riuscire ancora a toccare punte di sedici chilometri orari su quelle distanze.
Ogni tanto mi sembra di prendere il testimone dell’entusiasmo che fu di chi già si è incanutito e la cosa mi diverte. Gli ex atleti (benché per me siano ancora tali) sovente mi paiono lontani dal mondo gerontocratico dei loro coetanei (non affermo che taluni non possano essere sia l’uno che l’altro), come se l’attività fisica avesse instillato in loro l’umiltà necessaria per svolgerla con costanza nonché quella altresì indispensabile per impedire l’insorgenza delle frustrazioni legate all’invecchiamento. Francesco ogni tanto inciampa nei pensieri, ma corre sempre: beato lui.
1. Virgin Steele – The Burning of Rome
2. Domine – The Messenger
3. Crosswind – Eye of the Storm
4. Istanzia – Power of the Mind
5. Pathfinder – Beyond The Space, Beyond The Time
6. Dreamtale – Chosen One
7. Rosae Crucis – Anno Domini
8. Eluveitie – A Rose For Epona
9. Therion – Voyage of Gurdjieff
10. Vexillum – Il Giocatore di Biliardo (Branduardi cover)
11. Silverlane – Wings of Eternity
Stamane il vento spira forte, però non si trascina dietro il gelo: forse non sono la persona più indicata per valutare la temperatura esterna. Anche quest’anno non mi sono ammalato; non ho avuto una linea di febbre né un raffreddore: solo degli sporadici starnuti. Odio portare addosso più di quanto serva ed è per questa ragione che mi svesto al cospetto dell’inverno come ai piedi dell’introspezione. Ho in custodia delle sensazioni gradevoli, ma nulla di trascendentale.
Sorseggio del ginseng e penso a Ipazia ora che le mie parole non possono più raggiungerla né ferirla. Sono stato profondamente scortese nei suoi confronti, spesso scostante e non ho mai saputo avvicinarla come invece avrei dovuto, ma pago per i miei sbagli e alzo la tazza in loro onore: ad maiora. In lei avevo intuito le potenzialità di un Io ancora acerbo, un complice ideale. Mi viene da ridere perché se avessi avuto più tatto forse le cose sarebbero andate in maniera diversa, ma evidentemente non conosco mezze misure: a qualcun altro il compito di ghermirla. Coltivo idee per anni e ogni volta ne restano nient’altro che erbacce: non ho il pollice verde e di sicuro è un altro il dito con il quale devo toccare il cielo. Non riesco a fare il passo decisivo oltre il mondo platonico, eppure non sono un idealista. Ogni individuo ha qualche nome a cui legare i propri ricordi, però io lascio tutto a briglia sciolta perché non amo le idee fisse e grazie a degli sventurati ho compreso quanto queste siano pericolose.
Io non scorgo nulla di nuovo nei problemi del mondo contemporaneo. L’esistenza è spiraliforme. Non c’è una singola notizia che mi sorprenda: ogni evento è la ripetizione di qualcosa che è già successo. La società è una cassa di risonanza del passato, perciò sarei insincero se mi stupissi per delle dinamiche arcinote. Seguo la cronaca, ma cerco di non commentarla, almeno su queste pagine. Lotto strenuamente per non farmi influenzare dal clima che allestiscono i media benché io non ne stigmatizzi troppo l’operato. Trovo che quest’epoca sia ancora primitiva e guardo con diffidenza chiunque predichi la nonviolenza, ma riservo lo stesso atteggiamento ai guerrafondai. Nel corso degli anni ho analizzato il mio modo di recepire certi avvenimenti e così ho imparato a non formulare delle opinioni sull’onda emotiva. Mi sono un po’ spaventato quando ho capito che non esiterei un momento a giustiziare alcuni criminali a sangue freddo, con uno sparo alla testa. Più volte mi sono immaginato con una pistola in mano e un colpevole genuflesso. Suppongo che scene del genere scaturiscano dal mio Super-Io e che compensino parzialmente la mancanza di una figura paterna. Al di là dell’analisi introspettiva, io non sono mai stato in grado di ravvisare qualcosa di sbagliato nel concetto di occhio per occhio e ancor oggi quest’ultimo mi sembra del tutto naturale. Forse un’altra violenza che l’uomo compie nei confronti di sé consiste nel negarla a chi se ne renda autore per primo. La pietà è un concetto pericoloso e applicato male, cristiano nel senso peggiore del termine e lassista, ma non la penserei allo stesso modo se mi trovassi a vivere in un’epoca davvero illuminata. La mia ragione si adegua ai tempi e non tenta di forzarne le chiusure poiché in circostanze del genere non c’è scasso che tenga.
Da quando sono nato i miei contatti con il genere femminile sono sempre stati rari e superficiali. Dall’infanzia fino al termine dell’adolescenza la timidezza mi ha tenuto distante da ogni rapporto col gentil sesso, ma allo stesso tempo mi ha protetto da quelle delusioni che avrebbero potuto distorcere per lungo tempo il mio pensiero se fossero avvenute in seno all’inesperienza d’allora. Oggi circolo ancora nella pubertà e lo stato vergineo mi conferisce un’aura bizzarra perché non lo reputo motivo di vergogna come invece, surrettizia, induce a credere la società maschilista e cristiana di cui sono figlio. Non idealizzo la donna poiché se lo facessi commetterei lo stesso errore di chi ci proietta sopra le proprie insicurezze: io le mie le mando in onda altrove.
La mia posizione è di un immobilismo disarmante, ma è fondata su una ricerca dell’amore che mi è stata suggerita dagli errori dei miei simili. C’è troppa meccanicità nei rapporti interpersonali e io voglio rifuggirne. Ho la necessità di un legame autentico che non nasca dal bisogno, ma che lo crei in seguito all’incontro di due menti lucide. Per me l’amore non è un accordo tacito tra due persone che temono la solitudine: trovo in una relazione di questo genere un atto di sfiducia verso sé stessi, il primo passo verso frustrazioni fecondissime.
Certe cose le ripeto da anni, infatti predico nel deserto e probabilmente continuerò ancora per molto i miei soliloqui tra le dune. C’è qualcosa di peggiore dell’isolamento e dell’emarginazione, ovvero la dimenticanza di sé: per me la vita sarebbe più facile se potessi convincermi dell’esatto contrario, ma proprio non ci riesco. Seppur con gravi pesi nello stomaco, posso accettare di non amare nessuno, ma a patto ch’io non mi perda. Mi snaturo nel ruolo del solitario poiché sono tutt’altro sebbene la mia storia personale e il presente facciano credere il contrario. Ho una vita interiore molto ricca nonostante in me non vi sia alcuna forma di spiritualità ed è questa che fortunatamente mi consente di mantenere alte le soglie di sopportazione e di attenzione. Alcune volte mi sembra che le mie parole infastidiscano qualcuno, come se facessero da eco alle voci sopite della sua intimità. Io mi occupo di me stesso, non di terzi, tuttavia a domanda rispondo. Ho un grande privilegio rispetto ad altre persone benché taluni da fuori lo reputino un problema: in realtà è un’occasione. Non voglio essere meccanico, sono insofferente a tutti gli automatismi: quanti già ne compio senza esserne consapevole!
Alcune volte ho la sensazione che la vita mi passi accanto. Nel caos organizzato di quest’epoca non ho dei punti fermi, ma probabilmente non ne avrei avuti neanche se mia madre mi avesse cacato nell’età dell’oro, intarsiato di talenti su un piedistallo inamovibile.
Gradisco il modo in cui convivono in me il sollievo della mortalità e il piacere di vivere, ma dovrei rafforzare un po’ il primo. Sono un manicheo part time, però mi reputo tutt’altro che un dualista e trovo divertente una tale mescolanza d’antitesi: mi auguro che si tratti d’una ricetta salutare. La mia lingua madre mi rende orfano, ma negli specchi incontro sempre qualcuno verso cui mi azzardo a nutrire un affetto fraterno. Sono straniero in terra natia, trapiantato in un caso che non mi appartiene ma a cui io appartengo: una storia unilaterale. Non devo cambiare il destino né credere in una metafisica che lo ponga al vertice, al centro o di sbieco: io in casa d’altri non muovo nulla. Pago a caro prezzo la mia lucidità, però è un lusso a cui non so proprio rinunciare e di scontato mi prendo le domande oltre al tonno: perché io mi posso lambiccare con pensieri inconcludenti e qualcun altro invece deve crollare a terra dopo una raffica di proiettili? Che sia una mera questione di karma? Un escamotage finalistico vale l’altro.
Non c’entro un cazzo con la persone di mia conoscenza: gente buona, gente cattiva, ma stiamo su pianerottoli diversi. Mi manca una portinaia che abbia in testa una carica di visioni, centouno più miliardi ancora. Brucio una chance dietro l’altra, manco fossi un piromane: se almeno fossi un emule di Keith Richards potrei sniffarmi le ceneri, ma le droghe sono mezzucci da timorati di un qualche dio. Odio il puzzo di tabacco, lo detesto: posso sopportare quello d’incenso, a patto di non subodorare la dulia.