Di recente ho visto quest’opera di Ferreri che mancava nel mio bagaglio di aspirante cinefilo e ne ho ricavato un’opinione ambivalente. L’aperta provocazione del regista mi ha ricordato, in parte e in una forma più attenuata, quella pasoliniana di Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Laddove il film di Pasolini si occupa del potere nelle sue implicazioni più anarchiche, Ferreri, per sua stessa ammissione in un’intervista, realizza un’opera fisiologica, scevra di sentimenti, dove l’edonismo lascia spazio (appunto) alla fisicità in quanto realtà ultima; non è solo nel cibo che ravviso un vago parallelismo tra le due pellicole, ma in una più generale (e a mio parere comune) estetica con la quale l’uomo viene mostrato in quanto uomo, in quanto corporeità, in quanto finitudine. In ambo i casi credo che il registro stilistico sia simile, quello grottesco, ma differisca in intensità.
Ne La grande abbuffata è palese la disperazione borghese, la trasformazione del piacere in abitudine e quindi l’incapacità di ripetere a comando l’edonismo originario: la resa del corpo al corpo e una collettiva volontà di autodistruzione. Per scomodare Freud, così da destare in me risate verso un’altra parte di me rivolta alla cinefilia, mi sembra che nel lavoro di Ferreri si affermi la pulsione di morte con una gita stanziale e culinaria al di là del principio di piacere.
Girato perlopiù in interni e con un grande cast (i personaggi usano i loro veri nomi di battesimo), per me è un film che assolve il compito per il quale è stato concepito nelle intenzioni del regista, ovvero trascurare lo spettacolo per innescare un crudo meccanismo d’identificazione, perciò lo reputo efficace in questo senso e nullo (per i miei gusti) sotto il profilo dell’intrattenimento.
Devo fare mia la buona abitudine di rispondere alle sole chiamate oniriche: cosa può mai valere un incontro che non abbia prima avuto luogo in uno stato di coscienza diverso da quello vigile? Ogni tanto faccio squillare a vuoto dei contatti inesistenti nel buio di un sonno incipiente e per comporne il numero fantastico con il pensiero: non so come funzioni la segreteria e quindi affido i messaggi alle bottiglie di vetro affinché galleggino sopra gli altrui abissi.
Il linguaggio comune e i suoi mezzi hanno limiti evidenti. Preferisco intavolare un dialogo su una struttura metafisica piuttosto che quantizzarlo in pacchetti da un server all’altro come un flusso di dati, perciò lo scatto alla risposta dev’esserci con gli occhi chiusi e sulla scia delle onde alfa. Finora ho trovato sempre spento, insomma, l’utente non era raggiungibile, ma nulla mi vieta di sparare con la mia immaginazione dei segnali verso e oltre la volta celeste: è una pratica che si esaurisce in sé e questa sua aseità le conferisce il proprio senso. A volte uno scopo sussiste benché non ce ne sia uno e non si possa darne conto né descrizione. E se a un certo punto qualcuno rispondesse dall’altro capo del sogno? Ebbene, quella sarebbe l’occasione giusta per fare una pernacchia e agganciare la cornetta o la cornucopia. Forse qualcuno prova a chiamare me nello stesso modo testé descritto e trova la linea occupata, ma io spero che quest’ultima sia una di basso su cui improvvisare contrappunti. Forse in questa suggestione il mezzo conta più del fine e non è un veicolo o almeno non risulta esserlo più di quanto lo sia un taxi vuoto che si diriga verso l’Iperuranio per caricare l’idea di sé.
A quest’ora potrei starmene su qualche autostrada deserta a guidare col solo scopo di godermi l’aria notturna, però mi trovo bene anche a casa mia perché ho un certo riscontro, invero l’unico. Mi viene spesso da ridere perché la mia è un’indole gioviale e narcisistica: sono un puer fatto e finito. Non esistono solo i problemi reali, ma anche le loro contraffazioni che superano in numero gli originali: mi chiedo se simili riproduzioni siano trattate dai venditori ambulanti sulle spiagge e negli immediati dintorni. Cocco, borse griffate, ansie, occhiali da Sole e sole occhiaie.
Mi considero alla stregua di un pianeta e di rado, per ragioni insondabili, attiro corpi celesti con cui non entro mai in contatto: si sfiorano le orbite astronomiche e non quelle anatomiche, com’è giusto che sia. Un fatto resta certo: meglio uno squilibrio gravitazionale e l’alterazione delle maree al rischio di scambiarsi una testata nel goffo tentativo di assecondare un’effusione.
Amo molto una spiegazione che confuta certe idee bislacche e non concede spazio a ulteriori dibattiti: se la Terra fosse piatta i gatti avrebbero già fatto cadere ogni cosa oltre i suoi margini. Vedo in ogni creazione e distruzione una danza più o meno aggraziata, così come suggerisce la tradizione induista, perciò anche i rapporti tra le persone sono soggetti a questi movimenti che hanno già in nuce le loro implicazioni ultime.
L’inflazione è un problema, però anche lo scirocco ha le sue ripercussioni sui miei lunghi capelli. Presi a sviluppare il cirro negletto durante la panzana della pandemia giacché non accettai la più famosa delle inoculazioni. Grazie al governo Draghi mi posi una domanda capitale, a riprova di come certi automatismi si rivelino tali solo quando sussista l’impossibilità di assecondarne la meccanicità: “Perché cazzo vado dal barbiere?”. La mia risposta fu: “La forza dell’abitudine”. In ragione di tutto ciò non raccolsi l’invito a farmi una pera di Stato, bensì la palla al balzo e dissi a me stesso: “Non me ne fotte niente dei capelli, lascio che si allunghino fino a quando non intervenga un’eventuale calvizie o un trattamento chemioterapico”. E fu così che vissi capellone, o meglio, lo ridivenni. Forse mi reincarnerò in un phon o nella phoné.
Detesto la peluria, urta il mio senso estetico e in particolare la barba mi dà proprio fastidio, ma sono insofferente anche verso i barbari. Non potrei mai amare una donna barbuta, questo mi sento di affermarlo senza tema di smentita, ma non potrei bere manco del Bourbon poiché ho in orrore tutti gli alcolici. Altre assonanze? Sostanze, mai, tranne quelle che si sanno secernere in autonomia con le dovute tecniche e l’occorrente dedizione. Com’è tarda la notte dalla quale mi affaccio. A ognuno i suoi tempi, le vane attese, le inaspettate manifestazioni dell’universo e ogni cosa. Sì, è tarda la notte che mi ospita, però mi piace assai questo suo arieggiato silenzio e me ne sento parte o forse provo soltanto a imbucarmi in un buco nero: mi piacerebbe sbirciare oltre l’orizzonte degli eventi. Sì, ma in concreto, cosa ho scritto finora? C’è un fil rouge, un gomitolo, un filo di Arianna o bisogna portarsi l’occorrente da casa? Il significato al sacco. L’esigenza è quella di parlarmi addosso, di farmi da vecchio conoscente, ruolo che mi riesce bene: tutto il resto è altro da me com’è inevitabile che sia.
Nell’immagine in calce v’è una mia lettura degli ultimi tempi e l’ostensione del santo.
Non intendo cambiare sport giacché amo troppo la corsa, ma salto lo stesso di palo in frasca per scrivere d’altro rispetto a quanto suggerisca l’incipit. Ne Il sorpasso di Dino Risi v’è una scena in cui Gassman dice a Trintignant: «Lo sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c’ha giorno per giorno. Fino a quando schiatta… si capisce». Non posso che sottoscrivere.
Quali grandi nostalgie dovrei nutrire e allevare a detrimento dell’avvenire, ma soprattutto del presente? Amo il passato nella misura in cui sappia echeggiare al di fuori del tempo, quando non si faccia tenaglia né prigione, bensì rifulga come paradigma da superare, eguagliare da cui trarre ispirazione. A me tutto ciò pare banale, però lo scrivo ugualmente.
Mi torna in mente la storia di un monaco buddhista che una volta si recò da un dottore. Il medico disse al monaco che aveva un cancro e il monaco chiese: “Cos’è il cancro?”. Allora il dottore rispose: “Significa che morirai”. Il monaco si mise a ridere e se ne andò in ragione delle sue riflessioni sulla cosiddetta “impermanenza”. Secondo me questo aneddoto spiega come la propria visione della realtà, quella maturata dentro e fuori di sé, plasmi la realtà stessa laddove l’individuo ha possibilità di manovra, ossia nel modo di reagire agli eventi. Come si lega tutto questo con eventuali nostalgie? Pari pari come la risata del monaco alla diagnosi infausta.
Mi trovo ancora sotto i cieli ordinati a eternità e non cerco di venire a capo delle ragioni per le quali altri il capo lo perdono. Mantengo la debita distanza dai debiti di riconoscenza ed evito di maturare crediti della stessa risma. Nelle terre galliche le città s’illuminano con gli intensi fuochi di proteste pretestuose; a nord del Mar Nero invece delle stessa pece sono le notti urbane dovute ai blackout e ai lutti. La cosiddetta civiltà non può affrancarsi dalla sua pulsione di morte, tutt’al più le è dato di ammansirla in periodi di tregua che talora sono chiamati impropriamente periodi di pace. Di sicuro le parole hanno un peso, ma credo che gli esplosivi facciano più male.
Una parte del mondo combatte per un certo uso dei pronomi, altrove invece il problema non sussiste giacché restano da chiamare soltanto i fantasmi in mezzo alle macerie. I problemi del primo mondo sembrano al primo posto e spesso per secondo non c’è nulla: chissà, può darsi che il carrello un po’ vuoto sia colpa dell’inflazione o della spinta incarnata da Thanatos (in senso greco, non a mo’ di creatura della Marvel).
Nei paesi avanzati, dove gli avanzi abbondano e invece dell’inedia la vexata quaestio è quella di normalizzare l’obesità, ormai è tutto burocratizzato, a misura delle forzature di chi vuole imporre nuovi paradigmi in ragione dei suoi complessi d’inferiorità: persino l’amore e l’odio devono esibire le rispettive marche da bollo. Pare (invero in meccanica è accertato) che a ogni azione corrisponda una reazione uguale o contraria, perciò mi chiedo se il gioco manuale dello specchio riflesso non sia il migliore modus operandi per dirimere qualunque controversia.
Assisto all’incedere degli eventi e desisto da una mia attiva partecipazione agli stessi, almeno per quanto mi è possibile: credo che tutto vada come deve andare e di certo non ricade su di me l’onere di dimostrare il contrario. Io mi trovo sempre al solito posto, ai margini delle righe e tra le pause di uno spartito che non eseguo: buona la prima e tutte le altre.
Come se il tempo esistesse e passasse per un saluto
Pubblicato martedì 20 Giugno 2023 alle 23:32 da FrancescoSecondo me l’esistenza più alta alla quale un essere umano può ambire è quella dell’anacoreta contemplativo, ossia una vita ritmata dai moti del Sole che sia votata alla meditazione e alla sussistenza, destinata a concludersi con l’inedia: qualcosa del genere è fuori della mia portata, perciò cerco di fare quanto rientri nelle mie corde senza correr l’alea d’impigliarmici.
A proposito di corsa, negli ultimi nove giorni ho macinato centosessantuno chilometri giacché la mia idea è quella di mettere volume nelle gambe per tonare alla migliore condizione di sempre e superarla: il giudizio di Krónos è inappellabile perché nell’atletica leggera i numeri non mentono e difatti non ho mai visto una cifra con il naso lungo (tutt’al più qualche quattro scritto male).
Mi diverto tanto a giocare con i tempi mentre altri ne scorrono in clessidre invisibili delle quali non mi curo e le cui durate mi trovano al di fuori dei loro effetti, ma può darsi che con l’avvento dei primi caldi io mi risolva a fare qualche bagno in un fiume eracliteo. Oltre del puer che è in me, sempre sia benedetto, sono contento anche per me in quanto allenatore di me stesso, una sorta di senex in comodato d’uso, però non posso chiedere a me medesimo di non essere autoreferenziale o forse posso farlo per confermare vieppiù questa mia natura; si tratta di un cul de sac, il quale per assonanza mi fa domandare se esista un culo che mi piaccia un sacco: v’è da rifletterci e non escludo di farlo quando il cielo stellato sopra di me mi ricordi come dentro di me non alberghi tanto uno chef a cinque stelle quanto un astemio e vegetariano avventore degno di un’osteria, ma soprattutto delle bestemmie ivi echeggianti.
Per continuare queste righe estemporanee devo prima assicurarmi che abbia finito di scrivere stronzate: a me care, per carità, ma pur sempre stronzate. Il mio sesto libro si trova ancora a metà della stesura e mi sento un po’ in colpa nei confronti delle pareti che lo stanno aspettando immobili: devo darmi una mossa o prepararne una che giustifichi il mio ritardo al cospetto di quello già maturato da Godot. Ho qualcosa da fare, piccole mete da raggiungere, ma sono epifenomeni e io mi sento uno privo di nome come Clint Eastwood in certi film western o come Tiziano Terzani quando fu a ridosso della sua ultima incarnazione conosciuta (il domicilio biologico). La mancanza di prospettive e di orizzonti mi permette di avere altri tipi delle prime e dei secondi. Non so cosa significhi crescere, fatta eccezione per l’accorciamento dei telomeri.
Il sé viene alla mente di Antonio Damasio
Pubblicato venerdì 16 Giugno 2023 alle 00:18 da FrancescoQualche settimana fa ho terminato la gradevole lettura de Il sé viene alla mente, un saggio neuroscientifico in cui Antonio Damasio si avventura in una speculazione volta a rintracciare le fondamenta fisiologiche della coscienza. È un lavoro articolato, certosino, in cui ho trovato una buona esposizione con uno stile potabile, perciò fruibile anche da chi non sia un addetto ai lavori. I miei pochi e sparuti appunti non rendono giustizia al testo.
Nello scritto il sé è presentato come un processo diadico diviso in sé-oggetto e sé-soggetto, laddove il secondo deriva dal primo benché il sé-oggetto abbia una portata più limitata: tra i due vi è continuità e progressione, nessuna opposizione. I concetti di proto-sé (sentimenti primordiali), sé nucleare (relazione tra organismo e oggetto) e sé autobiografico (“pulsazioni” del sé nucleare) sono gli stadi che rappresentano l’ascesa del sé alla mente e quindi la nascita della coscienza.
In merito alla soggettività Damasio nega a quest’ultima un ruolo alla base degli stati mentali, bensì lo attribuisce alla consapevolezza della medesima: per quanto sottile, a me pare una differenza evidente. Le cosiddette percezioni sono indicate come effetti derivanti dalla capacità del cervello di creare mappe (le quali sono tripartite in enterocettive, propriocettive ed esterocettive): tali mappe pare che si originino in strutture subcorticali che risiedono nel tronco encefalico. A corredo di tutto riporto quanto mi ha fatto ridere di gusto per ragioni sulle quali evito di soffermarmi, ovvero l’affermazione inconfutabile secondo cui l’intenzione di sopravvivere che si trova nella cellula eucariotica è identica a quella implicita nella coscienza umana.
Un respiro profondo (a narici alternate)
Pubblicato lunedì 12 Giugno 2023 alle 17:43 da FrancescoOgni tanto il mio spirito d’osservazione mi ricorda quanto sia importante il controllo del respiro e come il giusto ricorso a quest’ultimo sappia scardinare le tante e possibili situazioni della vita quotidiana, però non lo definisco un segreto di Pulcinella giacché la maschera partenopea non si presta bene a una corretta pratica del pranayama.
Non amo molto quanti si prendano troppo sul serio, forse perché dubito che ami se stesso chi indulga in un’esasperata considerazione di sé e considero l’amor proprio una conditio sine qua per un principio di simpatia: alla fine dei conti nulla di ciò è affar mio e quindi posso gettare parole al vento senza pretenderne la restituzione completa o parziale. Non sono mai stato in dolce attesa, neanche quando da ragazzino avevo qualche chilo di troppo, perciò non ho aspettative e posso godere dei giorni che si avvicendano come se non avessero differenze. Mantengo la direzione verso una rotta ignota e navigo a vista soltanto quando ho gli occhi aperti, ma certe volte le intuizioni più profonde le colgo negli abissi onirici e purtroppo non riesco sempre a riportarle sopra la soglia della coscienza. Sarei ancora troppo legato a una dimensione carnale e fisica se usassi il Jolly Roger come bandiera per il mio vascello, perciò devo pensare a qualche altro simbolo col quale presentarmi al cospetto del nulla.
Non so quante avventure solitarie mi restino ancora da vivere, ma in me perdura qualcosa di primigenio, come se con l’età non avessi perduto l’antica innocenza di chi torna a vivere su questo pianeta. Non mi tuffo di testa nella metafisica d’accatto, nell’esoterismo spicciolo (dove la moneta serve come gettone per comunicare con un al di là interurbano), nelle frasette motivazionali o nei sincretismi pasticciati che hanno come scopo precipuo l’evasione da una realtà prosaica: la mia è una ricerca personale, inconcludente e simpatica, senza pretese né protesi egoiche. Intanto vado, poi vediamo.
Passa il tempo nel computo degli anni e gli effetti della gravità si mostrano con maggior rilievo su quanti non le si oppongano con lo spirito, il corpo e talora persino con creme anti aging nella misura delle proprie possibilità. Non riesco a ritenere le rivoluzioni quali scopi ultimi nonostante, devo riconoscerlo, siano forme d’intrattenimento che si rapportano alla storia come i luna park alla loro vocazione itinerante: si tratta di entità e di dinamiche di passaggio, di qua e di là, alla stregua di tutto il resto, compresi i saldi di fine stagione e l’ultimo turno dei tardigradi.
Cosa devo prendere sul serio? Le cellule? Ma una a una o in qualità di aggregati in perenne mutazione giacché le une non sono mai le altre e l’apoptosi assomiglia più a una conquista sindacale che a un processo evolutivo? Chi siamo, dove andiamo, per quanti prenotiamo nei cieli superni? Io preferirei una singola con vista sull’eternità, ma per il momento mi andrebbe bene anche una torre eburnea. Viene ricercato il possesso nelle mendaci forme della dolcezza, la nozione come arma in luogo della conoscenza, il modo d’essere al posto dell’essere senza modo e così via, fino a certa estinzione e dimenticanza. Nelle scatola dei regoli (forse simile a quella delle regole) non so dove mettere (a sedere o su un piedistallo?) il bene e il male, perciò si accomodino le antitesi e, sebbene orfane, facciano come se fossero nella casa del Padre.
Non amo tatuaggi né piercing perciò se avessi un credo, uno qualunque, dovrei tenermi al labbro il suo amo: ecco, questo per me sarebbe davvero insopportabile. Talvolta mi chiedo se abbia fatto bene a non seguire mai uno sguardo, forse anch’esso simile a una professione di fede. Le domande si possono lasciare in sospeso perché prima o poi, in ragione dell’anzidetta gravità, cadranno da sole e si faranno polvere come ogni altra cosa. Nottetempo mi accomodo tra le mie piccole arguzie, o almeno io concedo loro questo nome, mi cullo nelle mie cose che in realtà mie non sono, ma tanto vale scrivere così.