Non aderisco a quelle convinzioni nostalgiche che negano ai tempi odierni la possibilità di figliare ottima musica, difatti ancor oggi compulso le nuove uscite nei miei generi preferiti e non di rado compio piacevoli scoperte. Non vivo nel passato sebbene quest’ultimo dimori ed echeggi in me. Certo, sono molto legato ad alcune pietre miliari, però non lascio che si trasformino in zavorre e mi tengo a galla nel presente grazie all’ambigua posizione del morto.
Negli ultimi sette giorni ho ascoltato oltre novanta volte Zio Klaus, quarta traccia di Imilla, il nuovo disco de Il Bacio della Medusa (band che seguo dal 2008 e di cui posseggo quasi tutta la discografia), un simpatico concept album di rock progressivo italiano (prog, per amici ed estimatori) che racconta la parabola di Monika Ertl, la militante dell’ELN che sparò tre colpi a Quintanilla Pereira (formandogli in petto una vu di vittoria), reo quest’ultimo di aver mozzato le mani al cadavere di Che Guevara. L’intero disco è grandioso, intriso di atmosfere da spy story che sono rese in maniera magistrale dal classico stile del gruppo, ma in Zio Klaus sento forte la vocalità alla Peter Hammill e l’impronta dei Van Der Graaf Generator, inoltre il testo di Simone Cecchini è un vero gioiello. Spero di rivedere presto Il Bacio della Medusa dal vivo in quanto serbo un bel ricordo di un loro concerto a Perugia a cui io presenziai e in occasione del quale la band registrò il suo primo live.
Avevo già apprezzato lo stile corale di Altman nel corso di M*A*S*H* (acronimo per Mobile Army Surgical Hospital), sua opera del 1970, però io trovo che in Nashville questo modus operandi venga impiegato con un’efficacia persino superiore.
Nel film non vi è un protagonista in senso classico e stretto, ma molti comprimari dall’apparenza di monadi che la narrazione via via tesse e interseca in modo eccelso a favore del suo stesso ritmo, difatti per me scorrono alla perfezione le oltre due ore e trenta di questa pellicola del 1975 dopo Cristo. Il titolo si riferisce alla celebre città del Tennessee, mecca del country, perché la musica ha un ruolo preminente nella storia e, non di rado ma volutamente, viene sovrapposta ai dialoghi, perciò ne consegue un muro sonoro un po’ confusionario in ragione di cui trovo opportuni i sottotitoli in inglese: invero non so se ne esista una versione doppiata in italiano e adoro il carattere grottesco, surreale ed esagerato di tutte le miserie ivi rappresentate.
A mio parere una parvenza di protagonista può essere rintracciata non tanto in un ruolo, bensì in una vicenda, ossia la campagna elettorale di un fantomatico politico che si manifesta solo come voci fuori campo, tuttavia è su quest’ultima circostanza che i vari personaggi si stagliano e alla fine confluiscono: lo sviluppo di questo iter è puntellato da una sagacia spassosa e da un approccio caricaturale nei suoi tratti apparentemente documentaristici.
Il country non è il mio genere musicale d’elezione, ma le numerosi canzoni presenti si sposano bene con il resto del film senza che il tutto trascenda mai negli stilemi di un musical vero e proprio. In conclusione: per me Nashville è un film tanto lungo quanto divertente e lo reputo attuale giacché ancor oggi, secondo me, dice molto della società statunitense.
Non ho nulla d’annunciare alle spalle dell’equinozio d’autunno, ma d’altronde anche alle stagioni non resta che ripetere i propri canoni. Cosa mai dovrei dire al cospetto del tempo? E soprattutto chi mai dovrebbe pormi domande in merito? Un bel tacer non fu mai scritto e una fantastica estinzione non fu mai vissuta. Le parole sono le peggiori nemiche di loro stesse e le scambio con piacere giacché non mi servono davvero.
Per motivi pratici (il tempo) o per ragioni semantiche (l’incomprensione), i dialoghi sono a loro volta negazioni composite di loro stessi, elevazione in scala dell’equivoco elementare da cui si formano per giustapposizione di fraintendimenti. Io parlo per parlare (pour parler in senso letterale e quindi, a ulteriore riprova, inautentico); inoltre scrivo per scrivere e penso giusto per pensare, ma se ne fossi in grado mi affrancherei dal pensiero invece di tirarmelo dietro come copia carbone della mia presunta e mutevole identità. Cosa rimane di quanto non permette a nulla di restare? È un gioco di rimandi e di superfici riflettenti che non si possono relazionare tra di loro manco, o forse soprattutto, in presenza delle migliori intenzioni. La descrizione è una ciarla che pretende il rango di necessità ed è l’abitudine ad accordarle quanto vuole, ma la sua divisa più plausibile è quella da usciere perché pone fuor di sé ogni senso reale o apparente.
Se dovessi partire da un presupposto ne sceglierei uno tra i volontari, così da non far ricadere su di me la scelta di un punto di partenza, difatti l’arrivo non cambia mai in sua ragione ed è sempre il medesimo, ossia privo d’indicazioni e sostanza, refrattario a ogni mappatura.
Il mondo al contrario di Roberto Vannacci
Pubblicato venerdì 15 Settembre 2023 alle 15:00 da FrancescoÈ mio costume leggere con attenzione e ad alta voce, prassi che ho seguito anche per “Il mondo al contrario” del Generale Vannacci (rimandando l’inizio de “La parte maledetta” di Georges Bataille).
Non so se la mia copia sia difettosa e manchi di qualche pagina, ma non ho trovato né razzismo né omofobia e anche la misoginia risulta assente: forse non sono inclusi (ops, inclus*) nel prezzo e vanno aggiunti di propria sponte in base alla faziosità di riferimento. Chiunque decontestualizzi le frasi altrui compie un’opera meritoria giacché palesa agli altri la propria disonestà intellettuale. Per me pari(ah) sono coloro che hanno stigmatizzato o lodato “Il mondo al contrario” per partito preso: gente da cui guardarsi, gonzi di prim’ordine, danni collaterali del suffragio universale a prescindere dalle inclinazioni politiche. Lo scritto del Generale Vannacci raccoglie le idee di un uomo posato, convintamente democratico (questo per me è un difetto), pragmatico e ragionevole.
Nulla da eccepire su quanto afferma in merito alle energie rinnovabili, ossia un traguardo da raggiungere facendo però valere il principio di realtà, senza porre in essere quell’evirazione economica a detrimento dei ceti medi e meno abbienti di cui le sinistre progressiste (per me regressive) sono sostenitrici; ovvie e condivisibili le sue considerazioni in termini di giustizia, tasse e immigrazione: tutti questi argomenti sono suffragati da dati riportati come corollario e di cui ognuno può verificare motu proprio l’attendibilità. In oltre trecento pagine non vi è una sola virgola che possa indurre qualche magistrato a formulare un’ipotesi di reato, però immagino quale grande dispiacere ciò provochi lungo tutte le ZTL popolate dalla gauche caviar italiana. Il concetto di “normalità” evocato da Vannacci in merito all’orientamento sessuale fa leva su un dato statistico e non è un giudizio di valore né ha presupposti discriminatori, ma al contempo è una ghiotta occasione per chi voglia distorcere il significato delle parole pro domo sua: tanto chi se ne frega dell’autenticità, no?
Il pregiudizio diventa l’arma di chi millanta una lotta al pregiudizio stesso: questo cortocircuito mi fa pisciare addosso dalle risate. Dovrò cambiarmi il pannolone, ancora una volta.
Il Generale Vannacci non ha lo stile di Tommaso Landolfi e nel testo si succedono refusi (che ho appuntato in un file), un uso della di eufonica a me sgradito e qualche passaggio incerto, ma credo che il suo scritto non abbia intenzioni né vocazioni letterarie e quindi ogni critica esasperata alla forma mi fa sospettare che ci siano serie difficoltà a controbattere la sostanza.
Forse qualche “giornalista” non ha mandato giù il successo di un’autopubblicazione e può darsi che qualcun altro abbia dovuto accorgersi controvoglia di quale sia la maggioranza silenziosa del paese. Se Vannacci scendesse in politica io non lo voterei perché non credo nella democrazia, ma se facesse un colpo di stato avrebbe il mio pieno supporto.
Sono sempre qua nei modi che mi appartengono
Pubblicato mercoledì 6 Settembre 2023 alle 22:39 da FrancescoLa mia ultima gara podistica risale a gennaio, tuttavia nell’ultimo trimestre dell’anno intendo partecipare a qualche evento agonistico ed è in ragione di questo che proposito che da giugno ho ripreso ad allenarmi con fortune alterne, difatti luglio e buona parte di agosto si sono dimostrati periodi difficili per impostare certe andature con determinati volumi.
Quest’oggi sono riuscito a fare un cosiddetto “lungo” di qualità, ossia trenta chilometri a un ritmo di medio di 4’04” al chilometro, tra l’altro in una giornata un po’ ventosa, a tratti ancora calda e con delle gambe nient’affatto riposate: me gusta!. Nei primi sei giorni del mese ho incamerato novantasette chilometri in 6 ore e 27 minuti, perciò con un passo medio di quattro minuti spaccati al chilometro: sono numeri che mi soddisfino sebbene ancora non indichino la mia forma migliore di sempre.
Mi sento un privilegiato perché m’è dato di correre e questa mia passione ormai si basa su un rapporto di lungo corso (appunto) tra me, la distanza e il tempo, insomma una sorta di ménage à trois! Forse è anche per la bontà e l’efficacia di questo triangolo che io non ho mai avuto relazioni sentimentali né carnali. A trentanove anni mi sento in uno stato psicofisico eccelso per il quale sono molto grato a me stesso, tanto per non smentire ancora una volta i miei marcati tratti solipsistici e autoreferenziali. Il tempo scorre e io con lui.
Non riesco a fare una stima di quanti momenti svaniscano negli automatismi d’ogni giorno, ma più passa il tempo e meno riesco ad accettare queste perdite sulla rete neurale che s’interfaccia con il presente. In certi periodi devo compiere uno sforzo notevole per evitare che i miei pensieri si proiettino troppo in avanti e sconfinino oltre la loro giurisdizione. Non punto a cogliere l’attimo per ossequiare una frase fatta, ma cerco di limitare gli sprechi delle energie mentali e di quelle risorse che fanno capo a Kronos: in questo senso il solipsismo si rivela un utile strumento.
Non mi definisco attraverso la rincorsa di beni voluttuari e neanche punto ad avere conferme con la ricerca d’un qualche consenso o del riconoscimento sociale, ma ho in me dei paradigmi rispetto ai quali avverto l’esigenza di essere all’altezza: questi termini di paragone non sono statici e mutano nel corso del tempo, così come si fanno via via diversi modi e ritmi con cui mi ci rapporto. Sono autoreferenziale per comodità, ma non escludo che io possa vivere in un altro modo né mi stupirei se in futuro la mia esistenza facesse propri termini ancora inediti per lei e per me. Trovo sublime la sensazione di appartenermi sebbene non sappia descriverla e presenti un principio di esclusione da cui non posso prescindere. Posso fornire loro battesimi esotici e descrizioni capziose, tuttavia non sono in grado di cartografare quei moti interiori da cui sono portato e di cui, al contempo, sono portatore. Non indosso le scarpe di altri perché non mi starebbero nemmeno se fossero della mia misura e non ho bisogno di calzarle per lasciarci impronte sulle sabbie del tempo.
Ho terminato la lettura de Il cinema secondo Hitchcock, una lunga intervista che Sir Alfred rilasciò in più occasioni a François Truffaut. Sotto il profilo aneddotico ho trovato questo volumetto meno divertente rispetto a quello curato da Peter Bogdanovich per la sua brillante intervista a Orson Welles, anch’esso pubblicato da Il Saggiatore, ma ha saputo ugualmente carpire il mio interesse e mi ha dato qualche strumento in più per inquadrare il cinema tout court: in entrambi i casi ho appreso qualcosa dall’intervistato e dall’intervistatore giacché tutti registi.
Di Alfred Hitchcock ho visto trenta film, dal 1940 con Rebecca, la prima moglie, fino al 1975 con Complotto di famiglia. Mi viene difficile esprimere una preferenza assoluta in questa panoplia di opere stupende, ma devo ammettere un’inclinazione verso La finestra sul cortile, Caccia al ladro e Il delitto perfetto per la presenza di Grace Kelly, a mio parere la donna più bella e aggraziata che sia mai scesa su questo pianeta. Apprezzo molto anche Intrigo internazionale con il leggendario Cary Grant in quanto stilistico precursore di tutta la saga basata sul personaggio di James Bond; il già citato Rebecca, la prima moglie con una stupenda Joan Fontaine e L’ombra del dubbio sono altre due pellicole di mio sommo gradimento. Forse, tra quelli da me visti, gli unici film di Hitchcock che non sono riuscito ad apprezzare sono gli ultimi due, ossia Frenzy e Complotto di famiglia. Titoli eccelsi come Nodo alla gola, Psyco, Gli ucccelli e La donna che visse due volte parlano da soli.
Di recente ho visto quest’opera di Ferreri che mancava nel mio bagaglio di aspirante cinefilo e ne ho ricavato un’opinione ambivalente. L’aperta provocazione del regista mi ha ricordato, in parte e in una forma più attenuata, quella pasoliniana di Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Laddove il film di Pasolini si occupa del potere nelle sue implicazioni più anarchiche, Ferreri, per sua stessa ammissione in un’intervista, realizza un’opera fisiologica, scevra di sentimenti, dove l’edonismo lascia spazio (appunto) alla fisicità in quanto realtà ultima; non è solo nel cibo che ravviso un vago parallelismo tra le due pellicole, ma in una più generale (e a mio parere comune) estetica con la quale l’uomo viene mostrato in quanto uomo, in quanto corporeità, in quanto finitudine. In ambo i casi credo che il registro stilistico sia simile, quello grottesco, ma differisca in intensità.
Ne La grande abbuffata è palese la disperazione borghese, la trasformazione del piacere in abitudine e quindi l’incapacità di ripetere a comando l’edonismo originario: la resa del corpo al corpo e una collettiva volontà di autodistruzione. Per scomodare Freud, così da destare in me risate verso un’altra parte di me rivolta alla cinefilia, mi sembra che nel lavoro di Ferreri si affermi la pulsione di morte con una gita stanziale e culinaria al di là del principio di piacere.
Girato perlopiù in interni e con un grande cast (i personaggi usano i loro veri nomi di battesimo), per me è un film che assolve il compito per il quale è stato concepito nelle intenzioni del regista, ovvero trascurare lo spettacolo per innescare un crudo meccanismo d’identificazione, perciò lo reputo efficace in questo senso e nullo (per i miei gusti) sotto il profilo dell’intrattenimento.
Devo fare mia la buona abitudine di rispondere alle sole chiamate oniriche: cosa può mai valere un incontro che non abbia prima avuto luogo in uno stato di coscienza diverso da quello vigile? Ogni tanto faccio squillare a vuoto dei contatti inesistenti nel buio di un sonno incipiente e per comporne il numero fantastico con il pensiero: non so come funzioni la segreteria e quindi affido i messaggi alle bottiglie di vetro affinché galleggino sopra gli altrui abissi.
Il linguaggio comune e i suoi mezzi hanno limiti evidenti. Preferisco intavolare un dialogo su una struttura metafisica piuttosto che quantizzarlo in pacchetti da un server all’altro come un flusso di dati, perciò lo scatto alla risposta dev’esserci con gli occhi chiusi e sulla scia delle onde alfa. Finora ho trovato sempre spento, insomma, l’utente non era raggiungibile, ma nulla mi vieta di sparare con la mia immaginazione dei segnali verso e oltre la volta celeste: è una pratica che si esaurisce in sé e questa sua aseità le conferisce il proprio senso. A volte uno scopo sussiste benché non ce ne sia uno e non si possa darne conto né descrizione. E se a un certo punto qualcuno rispondesse dall’altro capo del sogno? Ebbene, quella sarebbe l’occasione giusta per fare una pernacchia e agganciare la cornetta o la cornucopia. Forse qualcuno prova a chiamare me nello stesso modo testé descritto e trova la linea occupata, ma io spero che quest’ultima sia una di basso su cui improvvisare contrappunti. Forse in questa suggestione il mezzo conta più del fine e non è un veicolo o almeno non risulta esserlo più di quanto lo sia un taxi vuoto che si diriga verso l’Iperuranio per caricare l’idea di sé.
A quest’ora potrei starmene su qualche autostrada deserta a guidare col solo scopo di godermi l’aria notturna, però mi trovo bene anche a casa mia perché ho un certo riscontro, invero l’unico. Mi viene spesso da ridere perché la mia è un’indole gioviale e narcisistica: sono un puer fatto e finito. Non esistono solo i problemi reali, ma anche le loro contraffazioni che superano in numero gli originali: mi chiedo se simili riproduzioni siano trattate dai venditori ambulanti sulle spiagge e negli immediati dintorni. Cocco, borse griffate, ansie, occhiali da Sole e sole occhiaie.
Mi considero alla stregua di un pianeta e di rado, per ragioni insondabili, attiro corpi celesti con cui non entro mai in contatto: si sfiorano le orbite astronomiche e non quelle anatomiche, com’è giusto che sia. Un fatto resta certo: meglio uno squilibrio gravitazionale e l’alterazione delle maree al rischio di scambiarsi una testata nel goffo tentativo di assecondare un’effusione.
Amo molto una spiegazione che confuta certe idee bislacche e non concede spazio a ulteriori dibattiti: se la Terra fosse piatta i gatti avrebbero già fatto cadere ogni cosa oltre i suoi margini. Vedo in ogni creazione e distruzione una danza più o meno aggraziata, così come suggerisce la tradizione induista, perciò anche i rapporti tra le persone sono soggetti a questi movimenti che hanno già in nuce le loro implicazioni ultime.