16
Apr

Nell’ordine delle cose

Pubblicato martedì 16 Aprile 2013 alle 11:44 da Francesco

Il mondo non è cambiato granché dal giorno della mia nascita e qualche volta mi chiedo se io lo abbia frequentato già altre volte prima di ripiombarci nell’attuale incarnazione. È un peccato che il mio ateismo mi precluda un’adesione convinta alla metempsicosi.
Da qualche parte le bombe esplodono e fanno un grande rumore, altrove deflagrano allo stesso modo però quelle onde d’urto e quei morti si limitano gonfiare delle statistiche che tutt’al più aggiornano il repertorio di qualche terzomondista. Ovunque io appoggi l’attenzione, in qualche grado, scorgo violenza, ignoranza, fanatismo e prevaricazione: da un’impiegata pubblica affetta da secchezza vaginale fino al più determinato dei salafiti. Non posso cambiare il mondo, perciò mi concentro su me stesso e cerco di perseguire l’evoluzione della mia persona, tuttavia non ne faccio una ragione di vita perché anche in questo caso la morte è un’azionista di maggioranza… Passerò giorni migliori degli attuali, di questo posso dichiararmi sicuro senza che intervenga un ottimismo di facciata. Malgrado tutto avverto in me una propensione naturale a ricercare quanto sia capace di giovarmi e non bastano le parole per invertire questa tendenza, nemmeno le mie. È un po’ di tempo che non mi regalo le analisi del sangue, ma tengo sotto controllo quei valori che ho avuto il piacere di demolire su consiglio di un tedesco sifilitico.
Uso l’esperienza, le intuizioni e l’amor proprio per farmi scudo contro l’impazzimento generale a cui assisto quotidianamente. Si avvicendano giornate terse e calde dalle quali cerco di trarre il meglio. Non mi aspetto che qualcosa cada dal cielo, né manna né i frammenti di un meteoroide. Trovo paradossale come io mi avvii verso il mio ventinovesimo compleanno meno disilluso che in passato, ma ne sono contento. Ho lanciato lontano buona parte del mio disfattismo, proprio ora che potrebbe farmi comodo. Sono colpevole d’istigazione alla serenità.

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12
Apr

Pain of Salvation a Ciampino

Pubblicato venerdì 12 Aprile 2013 alle 11:59 da Francesco

Ieri mi sono recato a Ciampino per assistere ad un concerto acustico dei Pain of Salvation benché invero non ne fossi granché convinto. Quando ho varcato la soglia dell’Orion gli Arstidir avevano appena cominciato a suonare e dopo un paio di pezzi la band islandese ha catturato il mio interesse con sonorità molto delicate, talvolta soltanto corali, perciò ho deciso che prima o poi ne approfondirò l’ascolto. Già presentatasi in un pezzo con i summenzionati, Anneke van Giersbergen è poi rimasta sul palco con la sua voce e una chitarra acustica. Il suo vibrato mi ha ipnotizzato per tutta la performance e avrei ascoltato volentieri qualche pezzo in più del suo repertorio: mi è piaciuta moltissimo la sua versione di “Time After Time” di Cyndi Lauper.
Ho trovato simpatica la scenografia, la quale ha offerto una cornice domestica e retrò con cui Gildenlöw e soci hanno interagito durante l’esibizione, inoltre ha dato all’intero concerto una dimensione ancor più intima di quanto già non fosse per la presenza di un pubblico esiguo.

Non sapevo se dal vivo mi sarebbe piaciuta la proposta acustica dei Pain of Salvation, gruppo che avevo già visto in un leggendario concerto a settembre dello scorso anno in quel di Veruno. Ne sono rimasto soddisfatto oltre ogni più rosea aspettativa e l’unico pezzo che non ho gradito è stato un duetto jazzato e melenso con Anneke, ovvero  la cover di “ Help Me Make It Through The Night“ di Kris Kristofferson: avrei preferito udire la voce dell’ex cantante dei The Gathering in un pezzo più potente. Ho trovato assai migliori la cover di “Dust In The Wind” dei Kansas e quella sanguigna di “Perfect Day” di Lou Reed. La band è rimasta sul palco per circa due ore e ha alternato parti più datate della propria discografia a tracce più recenti come “1979” che in veste acustica mi ha davvero stregato. Insomma, è stato un bel live, il primo in quest’anno così avaro di concerti interessanti e alla portata del mio nomadismo solitario.

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9
Apr

Entelechia in cartolina

Pubblicato martedì 9 Aprile 2013 alle 13:56 da Francesco

Espando il pensiero per proteggermi dalla pioggia di rane, dalla caduta libera del senno e dalle depressioni collettive. Basta allungare una mano in qualsiasi direzione per cogliere il pomo della discordia, ma io non sono in vena di dissanguarmi e perseguo la meta di una serenità costante. Mi sembra che tutto concorra affinché una scure si abbatta sul presente, perciò mi faccio un po’ più in là e resto defilato nel sole primaverile mentre le ombre altrui si moltiplicano a vicenda per scoraggiarsi con altrettanta reciprocità, in misura sempre maggiore. Esercito l’autodifesa, anche e soprattutto per proteggermi da me stesso, in particolare dai condizionamenti fuorvianti delle mie introiezioni. Non mi sento parte di un disegno più grande, ma neanche una nota a margine. Forse sono quei vuoti ai quali ogni tanto guardo con sospetto che mi riempiono la vita, come se fossero delle zone cuscinetto in grado di salvaguardarmi da quanto in fondo non ho mai smesso di desiderare. Comunque, fino a qui tutto bene. Sto all’erta, però senza farmi venire il torcicollo. Faccio affidamento sulla mia parte migliore e non mi preoccupa l’idea che la mia buona stella sia ormai una nana bianca. Io non sono infatuato del fato: colpe e meriti mi appartengono in pieno. Ho avuto occasioni che non ho saputo sfruttare e ho commesso degli errori evitabili, ma non ne approfitto per edificarci sopra il muro del pianto: ‘sti gran cazzi.
Non sono infallibile e non bramo la considerazione di chi pretende che io lo sia; non sono così ingenuo da credere che esista un rimedio per ogni sbaglio, ma non ho nulla da farmi perdonare. Ora come ora a me interessa soltanto che il sole mi scaldi abbastanza da indurmi a riprendere la confidenza stagionale con le acque salmastre. Tra le mie mani riesce a passare a malapena il mio destino, perciò è inutile che io provi a filarne qualcun altro. Avverto quelle che qualcuno un po’ naif chiamerebbe “buone vibrazioni”, ma per me sono semplicemente sensazioni e intuizioni che turbinano assieme in un periodo un po’ strano, refrattario alle definizioni, insomma, ostile al verbo. Le parole grondano troppa vanità: maledette.

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6
Apr

Si vis pacem, para bellum

Pubblicato sabato 6 Aprile 2013 alle 07:20 da Francesco

Sono trascorsi quasi sei anni dal mio viaggio in Corea del Sud. Di Seoul ricordo il contrasto tra la fatiscenza e la modernità, più netto di quello che in seguito ho notato in Giappone e a Taiwan. L’Estremo Oriente ha sempre esercitato su di me un’attrazione naturale e mi auguro di tornarci quanto prima, tuttavia i soggiorni a quelle latitudini mi hanno dato di modo di apprezzare ancor di più il mio luogo natio malgrado io sia riuscito sempre ad eludere l’asineria del campanilismo. Non sono un esterofilo e al contempo non nutro alcuna forma di orgoglio nazionale; mi sento un apolide, ma di questo status non faccio una bandiera sennò tanto varrebbe che mi avvolgessi in quella sotto cui sono nato. Non è semplice sfuggire alle definizioni, alle identità e soprattutto a tutto ciò che si presta all’identificazione; forse negarsi al logos significa anticipare in parte la morte, tuttavia sembra che questo sia lo scopo ultimo dell’esistenza, o almeno è quanto mi è suggerito a gran voce dai silenzi dei cimiteri in cui talora metto piede; ad ogni modo io non attribuisco un senso funereo e nefasto a questi pensieri.
Non voglio perdermi in troppe digressioni, anche se esse ormai si sono insediate in larga parte di questo appunto col mio beneplacito. Ho evocato i miei ricordi coreani in quanto pare che al nord del trentottesimo parallelo siano in atto i preparativi di una catarsi nucleare. Il regime di Pyongyang nel corso degli anni ha attirato più volte il mio interesse, perciò non c’è nulla che mi stupisca nelle disamine offerte dalle testate giornalistiche e dalle emittenti televisive. È banale ogni citazione che attinga dal più celebre romanzo di Orwell, quello il cui titolo è uguale all’anno della mia nascita, ma è altresì scontato ogni spunto che prenda piede dall’immaginario nato in seno alla Guerra Fredda: corsi e ricorsi storici. Non cerco la coerenza nei potenti della Terra, e forse mi stucca di più il buonismo d’ogni aspirante analista che l’efferatezza di un dittatore, ma nella figura merdosa del papa l’uno non esclude l’altra e difatti trovano un punto d’incontro che rassomiglia al buco del culo. V’è il fanatismo dell’Occidente, in apparenza pacato, ma più simile ai modelli a cui si oppone di quanto le contrapposizioni illusorie facciano credere: un po’ come il denaro che è solo carta alla quale viene attribuito un valore di comodo, lo stesso assegnato ai crocefissi. Mi torna alla mente una celebre citazione degli indiani Cree, la quale paventa come soltanto una volta distrutta ogni forma di sostentamento l’uomo scoprirà che non si possono mangiare i soldi: io vi aggiungo un monito sull’altrettanta scarsa digeribilità delle icone sacre.

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30
Mar

Incomprensioni, veleni, silenzi e distanze

Pubblicato sabato 30 Marzo 2013 alle 12:40 da Francesco

Qualche giorno fa sono stato contattato da una persona che ha risieduto per diverso tempo nel mio cerebro. Non mi aspettavo più una parola da costei e invece ne ho ricevute di stimolanti, ma per quanto intenso, vasto e autentico, il mio entusiasmo si è rivelato evanescente.
In me ha prevalso il risentimento e ogni altro proposito è andato a farsi fottere, tuttavia me ne sono reso conto quando avevo già intinto frasi e pause nel curaro. Non sono stato abbastanza lucido da capire l’errore che stavo per commettere o forse ho finto di non comprenderlo così da giustificare il mio sfogo, in ogni caso per me è divenuto tutto chiaro quando mi sono trovato al di fuori della conversazione, ovvero nel momento in cui quest’ultima è collassata. Ho provato a porre rimedio alla mia condotta, ma purtroppo non è servito ad un cazzo. In questa occasione il mio processo introspettivo non è scattato in tempo, ma ancora non riesco a capire se il ritardo sia stato intenzionale o se invece sia dipeso da una carenza temporanea della mia attenzione. Ho scontato l’inesperienza con l’altro sesso e forse anche una disillusione di fondo che io cerco comunque di tenere lontano dalle mie convinzioni. Ahimè non riesco ad avere sempre il controllo dei pensieri e probabilmente ne avrei ancora di meno se m’illudessi di poterlo avere del tutto. Ho perso l’occasione di conoscere una persona affine, però ancora una volta ho compreso i miei meccanismi interiori e così ho finito per accettare più facilmente il prezzo da pagare. Non penso che potesse esserci un inizio diverso per tale riavvicinamento, ma il seguito aveva dei margini di netto miglioramento. Per Freud le emozioni inespresse non muoiono mai, bensì restano sepolte vive e sono destinate ad uscire in modo più brutto: sulla base di questa citazione tendo a credere che una partenza furente come quella di cui sopra avrebbe potuto rivelarsi addirittura propedeutica se fosse stata intesa come una tabula rasa da cui ricominciare a discutere.
Non sono nato imparato e tento di rimediare agli errori senza aspettarmi una seconda, una terza, una quarta, o un’ennesima possibilità; anzi, il mio difetto maggiore forse consiste proprio nella cattiva abitudine di non attendermi manco la prima chance. Ho una personalità spigolosa e merito di non avere nessuno accanto, ma devo ancora stabilire se si tratti di una ricompensa o di un castigo. Mi viene da ridere perché la mia storia è costellata di aborti relazionali, infrequenti e distanti, diversi in tutto meno che nella nullificazione: una mistura tragicomica di romanticismo autistico, di ironia nera e di fraintendimenti tanto puntuali quanto pedanti. Più passano gli anni e più mi convinco che l’unico linguaggio affidabile sia quello del corpo: la Torre di Babele è un ecomostro, nel senso che i suoi echi contengono tutta la mostruosità della confusione. D’ora in avanti, per quanto possibile, mi affiderò alla fisiognomica: il raziocinio se ne farà… una ragione!

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23
Mar

Vox clamantis in deserto

Pubblicato sabato 23 Marzo 2013 alle 13:41 da Francesco

Sono sette anni che corro. Ho lasciato dietro di me migliaia di chilometri e ho la ferma intenzione di macinarne ancora molti, infatti ogni volta che completo i diciotto e mezzo del mio percorso mi sento più vicino a me stesso, del tutto intimo con la mia parte migliore e profondamente amato da quella spinta per la vita che mio malgrado ho sempre esperito come solipsistica.
Incominciai a correre per pura disperazione, spontaneamente; un processo simile a quello della crisalide. Le prime uscite furono brevi, incerte e notturne, però passo dopo passo divennero sempre più lunghe, risolute e mattutine o pomeridiane: esperienze sia esaltanti che salvifiche. Non rimembro affatto quando sono riuscito per la prima volta a coprire la distanza sulla quale m’alleno tutt’oggi, ma forse ho appiattito il ricordo a forza di calpestarlo sulla strada in cui si è originato e oramai l’ho reso parte integrante di un presente che si rinnova ad ogni mia falcata. La corsa ha una valenza archetipica, la quale s’adatta a molteplici interpretazioni: credo che io all’inizio l’abbia vissuta come una fuga e successivamente come l’inseguimento di una persona migliore. Non so di preciso cosa sono diventato, ma di sicuro non quello che ho superato di volta in volta. Prima o poi dovrò smettere di correre; potrei diventare un invalido permanente, morire in un incidente o invecchiare senza proroghe, ma spero di essere pronto per ognuna di queste eventualità. Anch’io ho attraversato stagioni, emozioni e condizioni atmosferiche assai diverse e qualcosa mi ha sfiorato appena, tuttavia fino a questo momento la mia strada è stata abbastanza sgombra e ho mantenuto costantemente la distanza di sicurezza da quanto avrebbe potuto rallentarmi.
Non corro per scappare da qualcosa, ma forse non ho mai imboccato la direzione che avrebbe potuto condurmi verso traguardi migliori: tutto sommato va bene lo stesso e sono a posto così. Il narcisismo per me è stata una scelta obbligata e la corsa ne è una conseguenza benefica, ma non penso che una diminuzione del primo nuocerebbe alla seconda. Resto autoreferenziale in quanto non ho ancora incontrato una forza in grado di strapparmi da me stesso, dall’autarchia affettiva che considero un’arma a doppio taglio e di cui però non ho ancora ragione di disfarmi.

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11
Mar

L’idea della morte

Pubblicato lunedì 11 Marzo 2013 alle 01:13 da Francesco

La crisi economica pone in risalto una putrefazione sempreverde, quella della psiche. La morte è il leitmotiv che non può più essere celato dal consumismo o dalla frivolezza, però smette anche di trovare come unico spazio la cronaca nera e così riguadagna i palcoscenici delle notti insonni. La paura del domani, le incertezze sul futuro, l’ombra della spada di Damocle: tutto ciò angustia chiunque sia cresciuto nell’illusione di potersene liberare con la buona volontà e solamente con questa. Il dramma dell’esistenza travalica i numeri di un conto corrente: su questo punto sono assai esplicite le casistiche dei suicidi dei paesi più sviluppati. Il clima di insicurezza e sconforto può aiutare il seme dell’autodistruzione a diventare una pianta rampicante verso l’oblio.
Vorrei che ogni individuo avesse delle garanzie materiali, quantomeno per dare a tutti accesso alle stesse possibilità, tuttavia mi domando se taluni sarebbero riusciti a conseguire determinati risultati se non fossero partiti da condizioni di netto svantaggio. La crudeltà della natura per me non è sottoponibile alla morale in quanto la precede e la prescinde, ma ai miei occhi resta uno spettacolo efferato che in qualche misura impatta sulla mia empatia. Non ho soluzioni da dare a terzi e non mi aspetto che altri possano averne per me. Di sicuro la clemenza è umana, ma non del mondo in quanto mondo, bensì in quanto proiezione consolatoria e salvifica.
La mia esistenza è mossa dalla spinta verso la vita e forse è proprio per questo che il pensiero della morte è così ricorrente in me. Per Seneca “è cosa egregia imparare a morire” e non vedo come dargli torto. Non sono eterno né voglio esserlo, ma qui semplifico la faccenda e non tengo in considerazione il finalismo, l’escatologia e tutto l’ambaradan dei pensatori o dei presunti tali. Mi confronto con l’idea della fine senza soccombervi ed è questo che mi appaga; ciò mi permette di condurre un’esistenza che mi auguro longeva, ma che in determinate condizioni potrei anche decidere di terminare anzitempo. Emil Cioran ha campato tanto e sosteneva che per lui la vita non sarebbe stata possibile senza l’idea del suicidio; a tutto ciò si riallaccia anche un libro che sto leggendo ultimamente, Il suicidio e l’anima di James Hillman che mette in risalto l’importanza di esperire la morte. Mi reputo fortunato a frequentare gli abissi con chi già ne ha scandagliato i fondali. Thanatos mi apre sempre di più all’amore, o forse alla sua idea: concretizzarla o meno non è così importante e credo che anche questa sia una delle ragioni per cui non mi pesa il perdurare dello stato virgineo, che è tale sia sotto il profilo platonico che sotto quello carnale. Queste non sono considerazioni meste, ma maestose: è imponenza, non impotenza.

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6
Mar

Penuria di pretese

Pubblicato mercoledì 6 Marzo 2013 alle 03:53 da Francesco

Non sono un piromane, dunque non mi serve una laurea da usare come innesco per uno spettacolo incendiario. La mia persona non è motivo di insonnia né meta di pellegrinaggio, ma resta luogo di culto per l’amor proprio. Abito tra i vivi e tra i morti anche se ogni tanto confondo gli uni con gli altri. Conosco bene me stesso; solo di vista i miei riflessi. Sollevo le parole con il pensiero. Invece di essere così lapidario dovrei ingegnarmi per defungere e risorgere, ma vorrei più di tre giorni d’aspettativa per godermi il sepolcro. Non v’è cogenza che mi obblighi a dare un senso né tanto meno il cazzo, ma soprattutto non vige davvero la necessità di dare un cazzo di senso a qualcosa.
Per quanto possibile cerco di ricamare sul mio tempo dei motivi che mi allietino, ma qualche volta la coperta risulta troppo corta. Non so come terzi mi ritraggano, ma io sono piuttosto affabile. Scanso ed evito con alterigia soltanto coloro che cercano attenzioni o una valvola di sfogo: venditori, predicatori, ragazze isteriche e superficiali, ex compagni di classe che si masturbano con la mia effigie, aspiranti rivoluzionari, estimatori di Bukowski e damerini di diverso ordine e grado. Ho ampio spazio per l’amore e non per coloro che sentendone la mancanza cercano d’identificarsi con le faccende più disparate. C’è un segreto ulteriore da sbloccare in quel postribolo di Fatima, un bonus che ribadisce come il mondo possa continuare tranquillamente i suoi moti di rivoluzione e rotazione tanto senza di me quanto senza coloro a cui mi riferisco. Lo spettacolo prosegue perché non ci sono protagonisti e forse, malgrado la prevedibilità che le è propria, la morte costituisce il più grande colpo di scena.
Adesso vorrei saltare a piè pari nelle quattro del mattino per riaffiorare qualche ora più in là. Il mio sonno sarà troppo breve per portare consiglio o ristoro, ma non lo farò sentire in colpa per il fatto di presentarsi a mani vuote o addirittura amputate.

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3
Mar

Notte bucolica

Pubblicato domenica 3 Marzo 2013 alle 04:07 da Francesco

Stanotte mi sono avventurato per impervie vie fino ad una struttura diroccata, un posto che secondo taluni ospita sovente le celebrazioni di messe nere. Io non ho incontrato né uomini incappucciati né ho trovato resti di animali, ma soltanto delle scritte sgrammaticate sulle pareti e un po’ di umidità. Il luogo non è suggestivo e l’alone di mistero dal quale è avvolto è l’orrendo frutto di superstizioni ereditarie che ancor oggi non si scollano dai babbei in cui sono radicate. Se davvero esistesse un diavolo credo che proverebbe un grande bisogno di essere consolato prima di mettersi a mercanteggiare anime per sbarcare il lunario.
Non c’è nulla di spaventoso nell’oscurità, nel silenzio e nell’isolamento, però possono incutere terrore le verità che hanno modo di dipanarsi qualora le condizioni summenzionate si sommino. Mi chiedo per quale ragione una parte dell’umanità ricerchi il male in qualcosa di trascendente quando la realtà quotidiana ne è già così prodiga! In realtà si tratta di una domanda retorica a cui mi sono risposto in varie occasioni, tuttavia questa volta non voglio ripetermi per collocare qualche parola in più in un’annotazione così scarna.

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26
Feb

Al di sopra delle logomachie

Pubblicato martedì 26 Febbraio 2013 alle 21:29 da Francesco

Gli esiti inaspettati delle elezioni hanno provocato una frattura profonda in Italia. Il vuoto di potere è uno spettacolo magnifico ed emana un’atmosfera da fin de siècle. Non coltivo illusioni e mi limito a vedere ciò che ho contribuito a provocare con il mio voto. Né nel mio armamentario né tra la mia mobilia figura la speranza, ma il clima elettrico di queste ore mi fa illuminare d’immenso. Adesso sono ancora di meno coloro che possono considerarsi al sicuro in quanto s’è allargato un destino comune. Le circostanze attuali possono costituire l’inizio di una rinascita o l’allungamento di una notte drammatica a cui comunque seguirà un’alba: per me è tutta una questione di tempistiche poiché dubito nella costanza del male quanto in quella del bene.
L’incertezza stringe il futuro e soffoca il presente. Io sono sereno perché mi sento pronto ad affrontare qualsiasi evenienza, anche quelle più terribili per un individuo che sono del tutto estranee agli scenari summenzionati. Non devo consolare nessuno e a nessuno devo dare conto, ma ho anche l’abitudine di essere sincero con me stesso e non posso negare che forse mi piacerebbe avere delle responsabilità verso terzi. La fatiscenza, il crollo e la macerie, la rifioritura, il ritorno della primavera e la calma dopo la tempesta: questi cicli non bastano a fare una collana degna del collo di Gaia. Dalle parole che mi ostino a vergare a tal guisa non traspare l’entusiasmo monumentale della mia vita interiore, ma rinuncio a risultare potabile e mi accontento di esserlo per me stesso.

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