5
Apr

Di me, che nulla permane

Pubblicato sabato 5 Aprile 2014 alle 08:20 da Francesco

Intervallo piaceri e doveri senza che i primi avanzino pretese sui secondi o viceversa, perciò non ho nodi da sciogliere né conflitti da sanare. Tra alti e bassi, come se gli uni fossero realmente i contrari degli altri, mi diletto ancora ad affrontare le lunghe distanze e al contempo anelo altro. A marzo ho preso parte a tre gare. Il nove alla Strasimeno, una competizione di 57 chilometri in cui sono arrivato 41° con un tempo di 4 ore, 29 minuti e 18 secondi. Il ventitré è stata la volta della Maratona di Roma: nell’Urbe ho abbattuto ancora una volta il muro delle tre ore e ho conseguito il mio nuovo record personale sulla distanza classica: 2 ore, 58 minuti e 33 secondi. In questa edizione della gara capitolina sono giunti al traguardo ben 14875 podisti e io mi sono piazzato al 249° posto: è un risultato che mi ha gratificato molto e poi l’arrivo ai Fori Imperiali è stato davvero stupendo, così come il pubblico e la pioggia…

Il ventinove marzo mi sono imbarcato su un volo economico per Milano e l’indomani, a sette giorni dalla maratona suddetta, ho partecipato alla Cento Chilometri di Seregno, però là, nelle terre iperboree, Ermes non mi ha assistito e un’ingente perdita di sali minerali mi ha costretto ad abbandonare la gara al settantatreesimo chilometro: il caldo mi ha annientato.
Non ho vissuto male il ritiro poiché è un’evenienza che io metto sempre in conto sia nella corsa che nella vita, tuttavia, mutatis mutandis, vi ho scorto delle analogie con l’esperienza luttuosa e probabilmente ne avrei scritto qualcosa se in me non fosse venuta meno la volontà di redigere le mie analisi. È come se mi fossi voltato per vedere Euridice benché dietro di me in realtà non ci sia mai stata nessuna e così, dopo una sbirciatina al regno di Ade, sono tornato tra i miei simili. In questo periodo mi sento influenzato dalla lettura di Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani e forse in parte è anche per merito di questa gradevole contaminazione se guardo le cose con un accresciuto distacco: tanto gli effimeri successi quanto i bei fallimenti, così in alto come in basso.

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20
Feb

Ai limiti della verbigerazione

Pubblicato giovedì 20 Febbraio 2014 alle 15:21 da Francesco

Mi sforzo di scrivere benché non ne avverta l’urgenza. Le uniche parole da cui io posso trarre beneficio sono quelle che non ho ancora pronunciato.
Oramai nei miei appunti domina l’autocompiacimento e quest’egemonia dimostra quanto si sia ridotto in me il bisogno d’esprimermi; in parte ne sono contento perché nella spontaneità del silenzio vedo l’anticamera di un’accresciuta libertà, ma allo stesso tempo provo una sensazione agrodolce, come se io mi stessi allontanando sempre di più dalle orbite in cui non ho mai colliso. Mi tedia la paradossale incomunicabilità di cui il linguaggio può essere tramite. Cosa mi rimane di una discussione forbita? Quante figure retoriche mi servono per confondere ancor più le acque già torbide di una scarsa empatia? Esauriti gli aggettivi e assodati gli interessi in comune, come posso capire il disagio altrui? Di cos’è fatta l’insonnia che ottunde una rara interlocutrice? In quale maniera posso sfuggire dalla meccanicità di queste domande e da quella di eventuali risposte? L’identificazione è un’arma a doppio taglio: può essere usata per attingere dalle forze archetipiche o per cristallizzare il Sé in un’immagine di comodo.
Per me non c’è differenza tra il più ignorante dei coatti e chi gli si crede superiore in forza delle nozioni che ha acquisito. Se usata come un analgesico da assumere per via di tracotanza, nella cultura io vedo estrema pochezza e nient’altro: esercizio mnemonico, filastrocche, automatismi. Mi affascina l’intelligenza, non l’istruzione che tutt’al più può esserne una conseguenza formale. Come posso comunicare questo concetto senza che il tono della mia voce o lo stile della mia scrittura lo adulterino? Quanto di ciò che ho appena scritto sarà recepito secondo le intenzioni con cui l’ho messo nero su bianco? Capirsi? Magari. Non vivo il dramma del verbo, bensì mi limito a prenderne atto. Ancora una volta mi sembra tutto nell’ordine delle cose. È la realtà che giudica i giudizi ed è inutile che io ci metta bocca, cucita o spalancata. Diatribe, disquisizioni, monologhi o liti, sfoghi e provocazioni: una famiglia allargata di cui la solitudine è l’instancabile puerpera. Anche in questo punto scorgo la vanitas che gocciola dalle mie parole: scrivo come se tutto ciò non mi riguardasse, come se ne fossi completamente estraneo.
Non trascino nelle mie conclusioni l’intera umanità per sentirmi meno solo, artifizio a cui invece ricorre chiunque voglia dare parvenza di universalità alle proprie tesi, bensì adopero costrutti dubitativi, avverbi e congiuntivi che rendono meno appariscente ciò che scrivo. L’aforisma non fa per me e al massimo posso apprezzarne l’arguzia o il potere evocatorio. Egli parla, io scrivo, noi diciamo: la realtà sentenzia ed è di questo che sono lieto, non delle ciarle, nemmeno delle mie. Piazze a ferro e fuoco, economie in caduta verticale, senso di precarietà: comunque vada…

Io contemporaneo della fine del mondo
Non vedo il bagliore né il buio che segue né lo schianto né il piagnisteo
Ma la verità da miliardi di anni farsi lampo

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16
Feb

Maratona di San Valentino

Pubblicato domenica 16 Febbraio 2014 alle 21:20 da Francesco

Mi ero ripromesso che sarei tornato a scrivere qualcosa se avessi superato una prova: questa consisteva nel completamento della maratona in poco meno di tre ore.
Oggi a Terni ho preso parte alla mia prima quarantadue chilometri e ho sfiorato il risultato a cui ambivo, infatti ho chiuso la gara in 3 ore, 0 minuti e 54 secondi*: sono arrivato 31° assoluto su 635 e 6° di categoria. Mi sono presentato alla manifestazione in condizioni pietose. In piedi dalle 0:45 a seguito di un risveglio improvviso, sono uscito di casa alle prime luci dell’alba e ho guidato per circa due ore e un quarto prima di arrivare a Ferentillo: là ho atteso lo start per altri centoventi minuti. Ero appesantito perché a febbraio non ho avuto modo di allenarmi granché, a differenza del mese di gennaio nel quale ho percorso più di 320 chilometri. Inoltre sono capitato nella griglia di partenza di coloro che ambivano a finire la gara in quattro ore, ma d’altronde non potevo fornire all’organizzazione un risultato precedente che avvalorasse le mie intenzioni perché questa era la prima volta che gareggiavo sulla distanza di Filippide: io ho cominciato con le ultramaratone.
La collocazione suddetta mi ha costretto a forzare il passo per trovare lo spazio in cui esercitare il mio ritmo e questo sforzo l’ho pagato verso la fine: il terzo chilometro l’ho corso addirittura a 3’51” mentre io volevo procedere sin dall’inizio a 4’06”. Fino al 35° chilometro ho retto bene, ma poi ho cominciato a rallentare.
Sono comunque soddisfatto e ho deciso di mantenere la parola che mi ero dato perché il mio real time* (ovvero il tempo della gara calcolato da quando si transita effettivamente sotto l’arco della partenza e quindi differente dal time che è calcolato dal momento dello sparo) è stato di 02:59:46: il mio personal best. Missione compiuta, seppur di pochissimo.
Ho rivisto qualche faccia conosciuta, ho attraversato un bel percorso che in qualche punto ho trovato addirittura incantevole, in particolare la cascata delle Marmore, e sono andato via contento. La medaglia cuoriforme la dedico a mia madre.
Per me la corsa sostituisce esigenze d’altro ordine ed è così palese quest’azione surrogatoria che non necessita di alcuna descrizione, ma io almeno me ne rendo conto e soprattutto non rompo i coglioni al prossimo: mica male.

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30
Gen

Cenni d’assenza

Pubblicato giovedì 30 Gennaio 2014 alle 16:41 da Francesco

Negli ultimi otto mesi ho raccolto i frutti degli ultimi anni, ma avrei preferito allungare una mano verso l’Albero della Conoscenza invece di preparare la merenda al mio narcisismo.
Non conferisco grande importanza alle piccole soddisfazioni che mi sono tolto, bensì celebro la forza interiore che mi ha spinto verso quelle caduche gratificazioni. Nei miei pensieri mi rapporto spesso alla morte perché tento di prepararmici e in questo modo ne pacifico l’idea, però la mia esistenza non ha sfumature funeree e rigetto la visione della fine che mi è stata consegnata dalla cultura in cui sono cresciuto. Per me, in quanto ateo, le promesse ultraterrene valgono come le pubblicità cartacee che congestionano le cassette postali. L’unica forma d’amore che conosco è l’amor proprio. Le mie priorità non riguardano ciò che allontana l’idea della morte né tanto meno quanto tenta di avvicinarla più del possibile, ma per spiegarmi meglio dovrei aprire un capitolo e riempirlo di parole che non ho alcuna voglia di spendere. Non nego invece quanto ancor oggi pesi in me l’assenza femminile, tuttavia non sono certo di meritare il rapporto che bramo e così proseguo il mio esodo in un deserto affettivo dove non c’è traccia d’acqua né di rassegnazione. Chissà, un domani, dietro una duna, all’improvviso un’epifania muliebre…
Attraverso un periodo sereno e la vita mi arride, ma so che il futuro potrà essere peggiore o migliore del presente e dunque non mi rifugio nell’illusione dell’immutabilità che tanta fortuna riscuote presso i pusillanimi. Se avessi voglia di circonlocuzioni mi domanderei come si possa spiegare l’attesa (spesso e giustamente vana) a chi non sa attendere. Ho la sensazione che il piacere di scrivere mi stia riconquistando, ma chiederò l’onore delle armi soltanto se riuscirò a superare una prova che ho in calendario: tra meno di un mese avrò la risposta e sarò io stesso a fornirmela, ancora una volta; l’ennesima. Per aspera ad astra.

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19
Nov

Masterpiece, entropia e logomachie

Pubblicato martedì 19 Novembre 2013 alle 08:24 da Francesco

Può darsi che in futuro questo post scompaia per sopraggiunta obsolescenza.

Ancora una volta devo ricorrere alle parole per sostenerne delle altre: che gran noia Babilonia. Due giorni fa su Rai Tre è andato in onda un programma televisivo a cui ho preso parte: Masterpiece. Non ho visto la trasmissione, ma in tutta onestà dubito che sia stata soltanto la mia scrittura (invero non la reputo neanche la ragione principale) ad aprirmi le porte degli studi RAI di Torino: a differenza di altri io cerco di essere obiettivo e non mi identifico con quello che faccio. Serbo un gradevole ricordo di quella simpatica esperienza e soprattutto dei ragazzi della redazione a cui rivolgo un saluto: spero che giunga loro per puro caso!
Durante le riprese ho intuito subito che almeno nelle prime puntate del programma le biografie degli autori avrebbero prevalso sui testi, ma avevo già preventivato un risvolto del genere e non l’ho vissuto come un vulnus letterario.
Anzitutto prendo le distanze dalla giacca che mi ha rifilato la costumista e mi vedo costretto a rettificare alcune imprecisioni che sono state diffuse sul mio conto. Non so chi mi abbia consegnato le patenti di intellettuale e filosofo, ma io non sono né il primo né il secondo e non intravedo nella mia persona alcuna giustificazione per il conferimento di questi titoli. Un’altra imprecisione riguarda la breve intervista che mi ha fatto quel buontempone di Massimo Coppola: a costui ho detto di praticare una masturbazione non compulsiva (che di fatto è un modo per sottolineare un’ovvietà propria di una larga fetta della popolazione maschile), ma qualche giornalista disattento l’ha invece riportata come “compulsiva”; inoltre è passata l’idea che io non desideri relazioni e anche questo è falso: pazienza. Nulla a che vedere con le tecniche narrative, tutt’al più spunti per rilegature artigianali con colle organiche: in ogni caso credo che gli abitanti delle terre emerse se ne siano fatti una ragione.
Non devo difendere la mia scrittura poiché la letteratura europea, italiana, finanche quella del mio circondario possono tranquillamente sopravvivere senza l’ausilio dei miei libercoli. Tutti sono utili e nessuno è indispensabile. Ho letto giudizi superficiali, ma anche ottime e caustiche ironie. La televisione trasmette immagini (in senso lato) e non è detto che queste debbano aderire per forza alla realtà, di conseguenza è comprensibile che a taluni della mia persona e del mio scritto sia rimasto impresso nient’altro che l’onanismo. Non mi prendo sul serio e cerco di fare quello che cazzo mi pare senza mai rompere i coglioni al prossimo.
Chi vuole vedere al di là dei semplicismi può farlo, ma non è sicuro che varcato il confine del riduzionismo ci sia poi molto altro da scoprire, perlomeno nel mio caso: chissà! Ho apprezzato le parole che De Carlo ha speso per lodare la mia disciplina. Mi preme chiarire quanto il divieto di bestemmiare abbia limitato oltremodo i validi argomenti con cui avrei potuto perorare la nobile causa di un cazzeggio blasfemo. Non ho più l’entusiasmo per cimentarmi nelle logomachie virtuali. La ragione la cedo al migliore offerente o al primo che arriva: per me è indifferente.
Per scrivere e fare davvero arte dovrei superare la vanità (ma è solo questa la propulsione di cui so avvalermi) e raggiungere ciò che Bene (nel video in calce) chiama “disfacimento del concetto di soggetto”, ma quest’ultimo traguardo io sono in grado di sfiorarlo soltanto nella corsa, rimossa dalla sua cornice sportiva e intesa come processo di annullamento dell’Io. Anche questo appunto è un atto di vanità perché chi è in grado di comprendere ciò non ha bisogno di vederlo scritto.

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16
Ott

Altri cento chilometri

Pubblicato mercoledì 16 Ottobre 2013 alle 00:41 da Francesco

Non ho ragioni valide né stimoli passeggeri per riprendere a seminare parole trascurabili qui o altrove, ma voglio traslare su queste pagine un ricordo che ho già vergato con innumerevoli falcate: forse sono più bravo a scrivere con i piedi che con le mani…
Sabato ho corso la cento chilometri delle Alpi, da Torino a Saint-Vincent, e mi sono classificato al sesto posto con un tempo di 9:00:14. Ho mantenuto un passo al chilometro di 5’24”. Siamo partiti in 180 e siamo arrivati in 127.
Non mi va di snocciolare troppi numeri né troppe parole: coi primi ho poca dimestichezza, alle seconde invece riservo una crescente indifferenza. Nella gara ho dato tutto me stesso e al traguardo sono crollato tra le braccia di un brav’uomo. A circa cinque chilometri dall’arrivo, sulla salita del Montjovet, ho compiuto il mio ultimo sorpasso ed è stato il momento più epico della mia vita da podista. Ho visto luoghi incantevoli e ho incontrato ottime persone, ma ancora una volta sono stato sorpreso dall’intensità dei moti interiori che mi hanno accompagnato fino a quando mi sono potuto concedere il lusso di non staccare la mente.
Io corro ancora per disperazione e vivo felicemente: quante buffe contraddizioni possono costellare la vita d’un uomo. Ho ancora margini di miglioramento, però mi mancano la stoffa e le ambizioni per fare il salto di qualità. Non ho alcuna chance di eccellere in questa disciplina, ma è meritocratica e trovo che sia l’esegesi migliore di “Essere e tempo” di Martin Heidegger: in altre parole un esistenzialismo più prometeico ed esuberante. Nella corsa non c’è potere discrezionale: chi è più veloce sta davanti, chi è più lento sta dietro.
A questo punto potrei spendere qualche parola sul percorso, sull’organizzazione e quant’altro, tuttavia preferisco avvalermi della proprietà di sintesi e la mia opinione in merito può essere facilmente intuita dall’auspicio di prendere nuovamente parte all’evento di cui sopra.

Ringrazio ancora una volta la redazione de Il Tirreno per il graditissimo articolo che mi ha dedicato nella cronaca sportiva del diciassette ottobre.

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5
Giu

La legge di Lavoisier

Pubblicato mercoledì 5 Giugno 2013 alle 02:37 da Francesco

Domani compirò ventinove anni e potrei approfittarne per lanciarmi in un volo pindarico sulla mia vita, però qualcosa è cambiato in me. Si è verificata la catarsi che avevo previsto qualora fossi riuscito a correre per cento chilometri. Non mi rivedo più in alcune cose che ho scritto su queste pagine e ormai mi sento lontanissimo da tante altre che ho letto nel corso di questi ultimi anni. Ho perduto la vena esistenzialistica e anche il gusto per le provocazioni sagaci. È come se lungo la strada avessi sparpagliato migliaia di pagine, milioni di parole: una liberazione. Non so né se né quando ritroverò la necessità o il piacere di scrivere.
Devo ancora dare il primo bacio e la notte continuo ad addormentarmi da solo, però mi risveglio bene perché ho rispolverato degli ottimi motivi per farlo. Mi sono procurato quello che Gurdjieff forse definirebbe shock addizionale e trovo buffo che un individuo come me citi costui. Anche se in maniera figurata, non mi resta che imitare Emilio Salgari, benché io non ne abbia il talento né tanto meno voglia emularne la fine: spezzo la penna. Non è del verbo che ho bisogno, bensì è nell’azione e attraverso il linguaggio del corpo che io posso diventare ciò che sono: Nietzsche (o Zarathustra per lui) e Jung me lo hanno suggerito ben prima che potessi comprenderlo davvero.

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26
Mag

Il mio Passatore 2013

Pubblicato domenica 26 Maggio 2013 alle 21:05 da Francesco

Fase tecnica

Tra sabato e domenica ho vissuto una della esperienze più belle ed epiche della mia intera vita. Arrivo a Firenze all’una di pomeriggio, sotto una pioggia copiosa. In Piazza Degli Strozzi ritiro il pacco gara e scambio qualche battuta con dei podisti romani mentre mi appunto il pettorale e lego il chip alla scarpa destra. Anche se corro da sette anni questa è la prima gara in assoluto a cui prendo parte e non potrei chiedere un esordio più avvincente.

Lo start avviene puntualmente alle tre di pomeriggio in Via dei Calzaiuoli dopo lo sparo in aria di Matteo Renzi. Ho il mio classico abbigliamento, ma non sono pochi coloro che portano il kway o indossano dei teli con cui ripararsi dalla pioggia e dal vento. Più d’un corridore mi consiglia di coprirmi, tuttavia io sono abituato ad allenarmi con il freddo e dunque le condizioni atmosferiche risultano vantaggiose per me. Non mi fermo a nessuno dei primi tre ristori e faccio rifornimenti brevi ad alcuni dei seguenti, così guadagno posizioni di gruppo in gruppo fino a Borgo San Lorenzo dove arrivo in 2:42:35. Verso il punto più elevato della gara, ovvero Colla di Casaglia, mi esalto in un’ottima progressione e riesco ad avanzare ulteriormente, però non ho alcuna idea di quale sia la mia posizione in classifica e raggiungo la vetta in 4:17:00. Mi fermo per prendere la luce frontale che alla partenza avevo dato in consegna all’organizzazione e riparto. Raggiungo Marradi in 5:47:16 e comincio a rendermi conto che il mio passo è più sostenuto di quanto avevo previsto. Al 67° chilometro mi unisco ad altri due corridori, però soffro la loro andatura e la milza inizia a darmi dei fastidi che cerco di arginare con una respirazione diversa. Ci fermiamo al quattordicesimo ristoro, ma la coppia riparte e io mi trattengo qualche secondo di più per bere del tè caldo. Il buio avvolge i tornanti e per svariati chilometri non vedo nessuno davanti né dietro di me. Dopo Sant’Adriano un tizio mi comunica via SMS che sono trentottesimo su oltre millesettecento e non so se crederci o meno, però sono realista e so che non riuscirò a mantenere quella posizione fino alla fine. Dal 75° all’80° chilometro rallento il passo e m’accorgo che fatico più in discesa che in salita. Cerco di tenere a distanza colui che mi precede ed è qui che commetto l’unico errore di tutta la mia gara. Dovrei rallentare ulteriormente il passo poiché le energie sono sempre meno, però non ce la faccio e dopo l’85° chilometro costui mi sorpassa meritatamente. Accuso il testa a testa e così perdo qualche altra posizione, ma il peggio deve ancora venire. Al 90° chilometro sospetto una crisi ipoglicemica e così all’ultimo ristoro prima del traguardo faccio incetta di carboidrati e zuccheri. Supero il 95° chilometro e non ne ho davvero più: sono sfinito. Praticamente cammino per quasi tre chilometri e perdo altre posizioni, ma so che se provassi a correre troppo non finirei la gara e non ho intenzione di gettare i miei sforzi per ragioni di classifica, le quali, per altro, non riuscirei comunque a far valere. Ho i piedi divelti, un dolore alla schiena e uno all’interno coscia, ma a due chilometri dalla fine mi sento di fare un ultimo ed estenuante allungo, perciò supero l’uomo che mi precede e arrivo in Piazza del Popolo a Faenza a mezzanotte e quaranta in un tempo ottimo per me, 9:40:54, ben al disotto delle undici ore che avevo messo in conto di doverci spendere.
Ho corso per cento chilometri con una media di 5’49” al chilometro. Ho concluso all’82° posto nella classifica generale, al 78° in quella maschile e sono risultato 9° nella categoria amatori, ovvero quella di coloro che non avevano mai partecipato prima alla gara. Tutto questo a fronte di oltre 2000 iscritti, di cui ne sono partiti circa 1800 e ne sono arrivati 1451. Risultati definitivi.

Fase psicologica

Durante la gara ho ripensato alla mia esistenza, agli errori commessi, alle occasioni sprecate e alle prospettive future. Mi ci sono voluti cento chilometri per capire che devo essere meno rigido e categorico. Passo dopo passo ho smaltito i miei risentimenti e ora mi sento più tranquillo, di nuovo in pace con me stesso. Stamani, risvegliatomi a Faenza, ho avvertito qualcosa di diverso nel mio modo d’interpretare la realtà circostante. Con questa gara mi sono fatto una iniezione di autostima che mi permetterà di farmi scivolare addosso più di quanto non abbia già fatto finora. Avevo previsto degli effetti del genere e forse è stata anche questa prospettiva a farmi vincere i miei limiti. Adesso mi appaiono grottesche ed esagerate tante delle reazioni che ho avuto negli ultimi mesi, alcune addirittura pericolose. Forse se certe situazioni fossero andate nel verso giusto io non avrei mai intrapreso un’avventura del genere.
Gli ultimi due giorni resteranno irripetibili perché lo sforzo fisico è stato speculare ad un cambio d’ottica. Anche se dovessi rifare una cosa del genere il risultato in quel caso sarebbe solo ed esclusivamente quantificabile da un cronometro. Devo ancora realizzare bene tutto quanto, ma provo una soddisfazione inaudita.

Note aggiuntive
Ringrazio la redazione de Il Tirreno per il breve articolo che mi ha dedicato nella cronaca sportiva del primo giugno.

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23
Mag

Preludio ad una introspezione semovente

Pubblicato giovedì 23 Maggio 2013 alle 14:54 da Francesco

Si avvicina il giorno de Il Passatore, ma vivo questa attesa come il preludio di un cambiamento. Ieri ho corso gli ultimi ventuno chilometri della mia preparazione e stamattina mi sono svegliato bene dopo un’ottima dormita. Non c’è tensione in me. Mi sento leggero e determinato, perciò se dovessi fallire non avrei scuse a cui aggrapparmi. Le previsioni meteorologiche sono infauste e indicano pioggia da Firenze a Faenza per tutta la durata della manifestazione, ma in parte ne sono contento perché se dovessero risultare corrette l’ammanterebbero di ulteriore epicità.
Sfido me stesso perché non mi nascondo nei lambiccamenti sui massimi sistemi, bensì cerco di guadare oltre le tenebre dei miei recessi, laddove l’invito al suicidio non manca mai. È il pericolo dell’introspezione che corro, e per il quale corro. Non c’è “la società”, non c’è “la storia”, non c’è “la politica”, non c’è “la morale”, non c’è “la filosofia”: gli unici presenti sono il sottoscritto e i suoi limiti, senza possibilità di riparo o dissimulazione. Sono i passaggi intimisti di Yukio Mishima che mi corroborano il morale. Per me la corsa è l’humus perfetto in cui prendere il polso della situazione, anche a costo di non sentire più il mio; è il punto ideale (poiché privo di stabilità) nel quale il dinamismo dell’azione porta su di sé la gravità del pensiero e soltanto la mia volontà  sceglie se quella zavorra debba schiacciarmi o alleggerirmi. Io cerco un ritorno all’archetipo, ai primordi, quando ancora il linguaggio non aveva sviluppato quello strato di viltà che non di rado compone i filamenti del velo di Maya. Non è attraverso l’uso della parola o il consumo d’arte che io posso diventare ciò che sono, bensì solamente tramite l’azione. Questo appunto è superfluo ed è dettato dall’abitudine a scrivere, ma può aiutarmi ad aumentare la pressione della prova a cui sto per sottopormi. Avrò tempo e modo per riprendere il logos della situazione, però questo sarà sempre il subalterno di quanto ritengo ineffabile.

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16
Mag

Pettorale numero 1846

Pubblicato giovedì 16 Maggio 2013 alle 21:07 da Francesco

Corro da sette anni e non ho mai preso parte ad alcuna gara, ma una manifestazione ha fatto breccia nel mio interesse ed è quella de Il Passatore: si tratta di una corsa di cento chilometri che parte da Firenze e si conclude a Faenza. A causa della burocrazia ho impiegato un po’ di tempo per completare l’iscrizione, ma adesso ho tutte le carte in regola per potervi partecipare. Non ho mai coperto in un solo giorno una distanza così grande. Il mio allenamento più lungo è avvenuto un paio di settimane fa ed è stato propedeutico per l’evento di cui sopra: sessanta chilometri in cinque ore e quarantuno minuti di cui ho scritto qualcosa su queste stesse pagine. Mi sento pronto fisicamente e anche la mia mente è preparata. Punto a completare il percorso in undici ore, tuttavia non mi lamenterei se alla fine dovessi impiegarne un paio in più.
Ho cominciato a correre per disperazione e forse nel corso degli anni la ragione non è cambiata. Ci sono dei momenti nei quali avverto la necessità di sottopormi ad uno shock e la corsa mi dà la possibilità di farlo attraverso il processo di sublimazione. Cento chilometri sono molti e per me sarà interessante guardare quali pensieri mi si pareranno davanti. Mi appresto a partecipare a questa gara in un momento della mia esistenza tutt’altro che roseo, però se riuscissi a finirla sono certo che dentro di me rovescerei tutto il parossismo in cui navigo a vista da un po’ di tempo a questa parte. In una distanza del genere le insidie sono molte, ma è anche questo che mi alletta. Dispongo di una buona dose di rabbia che centellinerò a dovere, tuttavia non ne ho abbastanza per farne la mia unica risorsa ed è per questa ragione che mi affiderò più che altro alla lucidità. Mancano nove giorni alla partenza; diminuirò progressivamente il chilometraggio in allenamento e riguarderò un paio di volte Chariots of Fire.

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