Anni fa sono stato contattato da una ragazza con cui ho poi dialogato per un certo periodo. In seguito, senza mai muovere il primo passo, ho interloquito vìs-à-vìs con altre esponenti del gentil sesso (ebbene sì, a tanto mi sono spinto!), però non ho approfondito nessuna di queste brevi e sporadiche conoscenze: non c’è mai stata insistenza né da parte mia né dall’altra, come in un tacito accordo di reciproco disinteresse. D’altronde le mie intuizioni sono amorevoli sorelle che talvolta assumono l’aspetto spaventevole delle Erinni.
Di S. ricordo una spiccata identificazione con il mondo della cultura, una voce adatta alle ottave basse e un volto asimmetrico, tuttavia questi elementi non rendono giustizia alla sua figura e io me ne frego: il tema è un altro e le auguro invece che la sua avvenenza sia rimasta la stessa. Lentamente, ma con costanza, prese a maturare in me un certo interesse nei suoi confronti, ma già all’inizio profetizzai quali sarebbero state le sorti di quelle nostre conversazioni e forse fu anche per questo che infine si realizzarono nei tempi e nei modi di un’irreversibile indifferenza. Con S. ho sperimentato per l’ultima volta una forma embrionale di desiderio. Vedevo in lei quello che era veramente? E lei, di sé, vedeva le stesse cose? Qual era la discrepanza tra l’immagine che io mi ero fatto di lei, che lei aveva di sé e quella reale? Lo stesso ordine di domande dovrei porlo anche per il sottoscritto, però i punti interrogativi in questo caso sono gli unici punti fermi. In un tentativo di rappresentazione grafica delle dinamiche di cui sopra sarebbe forse uscito un triangolo equilatero? Non oso immaginare quante spade di Damocle pendano su quegli angoli acuti e stretti che indicano una coppia, come nelle relazioni morbose, simbiotiche, ed entrambi a grande equidistanza dal vertice, ovvero da tutto ciò che è reale nell’altro e passa inosservato. Con S. ho commesso degli errori di forma che a distanza di tempo mi hanno fatto comprendere alcune leggi. Il mio sbaglio più grande è stato quello di specificare ogni cosa, di anticiparla e di prevederne i possibili sviluppi, come se avessi voluto rompere una tradizione e dei riti in nome della ragione, ma in questo caso è stata la paura a guidare il mio raziocinio: paradossale, direi. È troppo facile gettarsi in quel vuoto, al quale tante parole ho tributato, con la certezza che il paracadute si apra. Ho rotto la magia che permea i silenzi e che ne precede la rottura, per questo il rito non s’è concluso e l’incanto è svanito prima ancora che potesse mostrarsi in pieno. Posso fingere lungimiranza e introspezione dal momento che effettivamente me ne avvalgo in termini solipsistici, ma è nella subordinazione alla paura che si trova la prova stessa di quanto queste pratiche utili e nobili diventino fandonie nelle questioni di cuore.
Ad esempio, in questo scritto ricorro all’introspezione, ma sono in un ambito autoreferenziale e dunque non sono chiamato ad affrontare le istanze contro cui finora ho dimostrato debolezza. Inoltre ho sbagliato a ritenere che certi comportamenti fossero per forza meccanici: la difficoltà a mio avviso sta nel compiere determinate azioni con la consapevolezza di farlo, così da renderle autentiche, come se l’autore fosse in grado di vedere se stesso invece di agire a testa bassa. Quando S. mi propose di venirmi a trovare io subito frapposi tra me e quell’allettante iniziativa una moltitudine di parole che di fatto negarono l’incontro, perciò disinnescai ogni possibile esito, fosse anche stato un fuoco fatuo o una semplice condivisione di spazio e tempo.
In termini più specifici devo scendere a patti con l’inconscio collettivo. Non posso imporre il mio modus operandi per agire in piena sicurezza, altrimenti la fine sarà sempre la medesima, come nella più classica delle coazioni a ripetere. Ci sono riti a cui non posso sottrarmi qualora voglia davvero attuare un passaggio da me ad un’altra persona, perciò tutto dipende dal sottoscritto e questa consapevolezza mi solleva dall’onere di cercare al di fuori di me l’errore di fondo: non è un vantaggio di poco conto e chissà, forse già di per sé vale una vita intera.
In questa domenica di blande crocefissioni io voglio offrirmi al sole e alla prossimità delle acque marine. Mi accorgo di vivere bene allorché la mia percezione del tempo rallenta sensibilmente e questa circostanza è del tutto opposta a svariate testimonianze che ho raccolto in proposito. Quando ero bambino in effetti mi pareva che il divertimento accelerasse le ore e talvolta invece che terrestri i giorni mi parevano brevi come quelli di Giove, nondimeno il senso di oppressione di quell’epoca mi offre ancor oggi un’altra analogia col gigante gassoso: la sua forza di gravità. Fino all’adolescenza ho sofferto lunghi periodi di noia, tuttavia dalle prime introspezioni in poi è scemata sempre di più e infine si è estinta. Suppongo allora che la percezione del tempo in certi stati emotivi non dipenda in primo luogo da questi, ma dallo sfondo esistenziale su cui pulsano. Quante gradazioni può avere lo stesso sprazzo di felicità? E ognuna di queste dipende soltanto dallo stato generale dell’individuo, e dunque dal suo vissuto, o intervengono altre variabili?
Per fortuna non devo compiere ricerche che accrescano lo scibile umano o che soddisfino le mie ambizioni, e d’altronde non ne sarei neanche in grado, di conseguenza sono io l’unico oggetto delle mie speculazioni. Il rallentamento della mia percezione del tempo in presenza di emozioni piacevoli immagino che sia dovuto ad uno stato generale piuttosto favorevole, una condizione quest’ultima che non s’è mai radicata nel passato di cui sopra: tanto semplice quanto plausibile. In queste considerazioni ravviso un po’ di banalità malcelata, ma è l’utilità schematica che mi dà modo di tollerarne i passaggi più scontati. Al di là d’un linguaggio così freddo, quasi disincantato e autoptico, l’importante non è ciò che scrivo, bensì quello che provo e di cui puntualmente non sono in grado di rendere l’idea. D’altronde, se fossi bravo a spiegarmi, a quest’ora batterei sulla tastiera con più cautela per il timore di svegliare qualcuno: c’est la vie.
Avrei avuto qualche angoscia in meno se, anni or sono, la Pizia di Delfi mi avesse dato contezza della tranquillità con cui oggi procedo verso la mia terza decade.
Credo che un’esatta lettura del passato ridimensioni quelle piccolezze che un tempo parevano attentare alla vita stessa. C’è chi soccombe alla nostalgia, specialmente nelle ore in cui gli occhi dovrebbero chiudersi per sospendere lo stato di coscienza, e così i fantasmi restano ipertrofici. Non posso salvare nessuno da se stesso e, per quanto mi riguarda, un legame profondo non può che ingenerarsi tra i sopravvissuti di Mnemosine: io sono dispensato dal dovere di piacere a tutti i costi perché so che basta un cenno per riconoscersi e il resto non è di mia competenza. Sono in grado di correre cento chilometri, ma non sono capace di fare il primo passo e questa inadempienza seduttiva è spesso fraintesa come anaffettività, superbia, distacco atarassico: è invece tutt’altra cosa e in tanti altri modi ancora si presta alle incomprensioni più fantasiose. Chissà io quante volte ho interpretato male certi atteggiamenti: succede e di fatto nulla cambia. Nell’aria avverto la stramba convinzione che il valore di una vita si misuri con le attenzioni che le sono tributate ed è così che molti microcosmi restano inesplorati, ma anche l’oblio fa parte del tutto e talvolta la dimenticanza non ha né inizio né fine. Non posso confrontarmi con chi non ha dimestichezza col vuoto perché se lo facessi finirei per crearne di minori, di questo sono sicuro. Le parole cadono su loro stesse, le pose si ripetono come in un immobile parossismo, e via con la guerra degli ossimori senza l’accordo dei contrari. Gli autoritratti digitali, ribattezzati con un anglicismo, sono chiamati a convogliare forze d’attrazione, oberati dalle aspettative dell’ipnosi e sottoposti a prospettive precise, ma non ci vedo nulla di male perché ogni epoca ha i suoi vezzi e talvolta io stesso sconfino in campi altrettanto vanesi. Le critiche passano come le mode a cui si rivolgono e io non posso fare altro che passarci attraverso o esserne un convinto autore, ma né in un caso né nell’altro si sposta una virgola della realtà: tutto rimane al grado di fonazione.
Quasi per caso, dopo mesi di scarso interesse per la lettura, ho ripreso in mano un libricino del dottor Freud che io considero fondamentale e, invece di qualche petalo ingiallito, ci ho ritrovato la tentazione di scrivere. Voglio aspettare un paio di giorni per capire se si tratti davvero di un ritorno di fiamma o se non sia nient’altro che un fuoco fatuo, forse principiato dalla scintilla di un’identificazione estemporanea.
Le pagine freudiane a cui mi riferisco sono quelle de “Il disagio della civiltà”, diretta emanazione di un altro testo che nemmeno menziono perché non ho lettori né lettrici ai quali rendere conto. Oltre che su queste pagine, la mia scrittura ha subìto un lungo arresto in tutte le forme, perciò d’ora in avanti intendo riprendere con una certa regolarità la stesura di due libri ancora acerbi. Vorrei finire le parole, gli argomenti, anche i pensieri, tuttavia non la vita. Senza l’intervento di una drammatica afasia, non mi dispiacerebbe se qualcosa nient’affatto funesto mi dispensasse dal linguaggio, però non confido mai nei miracoli e ancor meno nella mia capacità di compierne.
Intervallo piaceri e doveri senza che i primi avanzino pretese sui secondi o viceversa, perciò non ho nodi da sciogliere né conflitti da sanare. Tra alti e bassi, come se gli uni fossero realmente i contrari degli altri, mi diletto ancora ad affrontare le lunghe distanze e al contempo anelo altro. A marzo ho preso parte a tre gare. Il nove alla Strasimeno, una competizione di 57 chilometri in cui sono arrivato 41° con un tempo di 4 ore, 29 minuti e 18 secondi. Il ventitré è stata la volta della Maratona di Roma: nell’Urbe ho abbattuto ancora una volta il muro delle tre ore e ho conseguito il mio nuovo record personale sulla distanza classica: 2 ore, 58 minuti e 33 secondi. In questa edizione della gara capitolina sono giunti al traguardo ben 14875 podisti e io mi sono piazzato al 249° posto: è un risultato che mi ha gratificato molto e poi l’arrivo ai Fori Imperiali è stato davvero stupendo, così come il pubblico e la pioggia…
Il ventinove marzo mi sono imbarcato su un volo economico per Milano e l’indomani, a sette giorni dalla maratona suddetta, ho partecipato alla Cento Chilometri di Seregno, però là, nelle terre iperboree, Ermes non mi ha assistito e un’ingente perdita di sali minerali mi ha costretto ad abbandonare la gara al settantatreesimo chilometro: il caldo mi ha annientato.
Non ho vissuto male il ritiro poiché è un’evenienza che io metto sempre in conto sia nella corsa che nella vita, tuttavia, mutatis mutandis, vi ho scorto delle analogie con l’esperienza luttuosa e probabilmente ne avrei scritto qualcosa se in me non fosse venuta meno la volontà di redigere le mie analisi. È come se mi fossi voltato per vedere Euridice benché dietro di me in realtà non ci sia mai stata nessuna e così, dopo una sbirciatina al regno di Ade, sono tornato tra i miei simili. In questo periodo mi sento influenzato dalla lettura di Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani e forse in parte è anche per merito di questa gradevole contaminazione se guardo le cose con un accresciuto distacco: tanto gli effimeri successi quanto i bei fallimenti, così in alto come in basso.
Mi sforzo di scrivere benché non ne avverta l’urgenza. Le uniche parole da cui io posso trarre beneficio sono quelle che non ho ancora pronunciato.
Oramai nei miei appunti domina l’autocompiacimento e quest’egemonia dimostra quanto si sia ridotto in me il bisogno d’esprimermi; in parte ne sono contento perché nella spontaneità del silenzio vedo l’anticamera di un’accresciuta libertà, ma allo stesso tempo provo una sensazione agrodolce, come se io mi stessi allontanando sempre di più dalle orbite in cui non ho mai colliso. Mi tedia la paradossale incomunicabilità di cui il linguaggio può essere tramite. Cosa mi rimane di una discussione forbita? Quante figure retoriche mi servono per confondere ancor più le acque già torbide di una scarsa empatia? Esauriti gli aggettivi e assodati gli interessi in comune, come posso capire il disagio altrui? Di cos’è fatta l’insonnia che ottunde una rara interlocutrice? In quale maniera posso sfuggire dalla meccanicità di queste domande e da quella di eventuali risposte? L’identificazione è un’arma a doppio taglio: può essere usata per attingere dalle forze archetipiche o per cristallizzare il Sé in un’immagine di comodo.
Per me non c’è differenza tra il più ignorante dei coatti e chi gli si crede superiore in forza delle nozioni che ha acquisito. Se usata come un analgesico da assumere per via di tracotanza, nella cultura io vedo estrema pochezza e nient’altro: esercizio mnemonico, filastrocche, automatismi. Mi affascina l’intelligenza, non l’istruzione che tutt’al più può esserne una conseguenza formale. Come posso comunicare questo concetto senza che il tono della mia voce o lo stile della mia scrittura lo adulterino? Quanto di ciò che ho appena scritto sarà recepito secondo le intenzioni con cui l’ho messo nero su bianco? Capirsi? Magari. Non vivo il dramma del verbo, bensì mi limito a prenderne atto. Ancora una volta mi sembra tutto nell’ordine delle cose. È la realtà che giudica i giudizi ed è inutile che io ci metta bocca, cucita o spalancata. Diatribe, disquisizioni, monologhi o liti, sfoghi e provocazioni: una famiglia allargata di cui la solitudine è l’instancabile puerpera. Anche in questo punto scorgo la vanitas che gocciola dalle mie parole: scrivo come se tutto ciò non mi riguardasse, come se ne fossi completamente estraneo.
Non trascino nelle mie conclusioni l’intera umanità per sentirmi meno solo, artifizio a cui invece ricorre chiunque voglia dare parvenza di universalità alle proprie tesi, bensì adopero costrutti dubitativi, avverbi e congiuntivi che rendono meno appariscente ciò che scrivo. L’aforisma non fa per me e al massimo posso apprezzarne l’arguzia o il potere evocatorio. Egli parla, io scrivo, noi diciamo: la realtà sentenzia ed è di questo che sono lieto, non delle ciarle, nemmeno delle mie. Piazze a ferro e fuoco, economie in caduta verticale, senso di precarietà: comunque vada…
Non vedo il bagliore né il buio che segue né lo schianto né il piagnisteo
Ma la verità da miliardi di anni farsi lampo
Mi ero ripromesso che sarei tornato a scrivere qualcosa se avessi superato una prova: questa consisteva nel completamento della maratona in poco meno di tre ore.
Oggi a Terni ho preso parte alla mia prima quarantadue chilometri e ho sfiorato il risultato a cui ambivo, infatti ho chiuso la gara in 3 ore, 0 minuti e 54 secondi*: sono arrivato 31° assoluto su 635 e 6° di categoria. Mi sono presentato alla manifestazione in condizioni pietose. In piedi dalle 0:45 a seguito di un risveglio improvviso, sono uscito di casa alle prime luci dell’alba e ho guidato per circa due ore e un quarto prima di arrivare a Ferentillo: là ho atteso lo start per altri centoventi minuti. Ero appesantito perché a febbraio non ho avuto modo di allenarmi granché, a differenza del mese di gennaio nel quale ho percorso più di 320 chilometri. Inoltre sono capitato nella griglia di partenza di coloro che ambivano a finire la gara in quattro ore, ma d’altronde non potevo fornire all’organizzazione un risultato precedente che avvalorasse le mie intenzioni perché questa era la prima volta che gareggiavo sulla distanza di Filippide: io ho cominciato con le ultramaratone.
La collocazione suddetta mi ha costretto a forzare il passo per trovare lo spazio in cui esercitare il mio ritmo e questo sforzo l’ho pagato verso la fine: il terzo chilometro l’ho corso addirittura a 3’51” mentre io volevo procedere sin dall’inizio a 4’06”. Fino al 35° chilometro ho retto bene, ma poi ho cominciato a rallentare.
Sono comunque soddisfatto e ho deciso di mantenere la parola che mi ero dato perché il mio real time* (ovvero il tempo della gara calcolato da quando si transita effettivamente sotto l’arco della partenza e quindi differente dal time che è calcolato dal momento dello sparo) è stato di 02:59:46: il mio personal best. Missione compiuta, seppur di pochissimo.
Ho rivisto qualche faccia conosciuta, ho attraversato un bel percorso che in qualche punto ho trovato addirittura incantevole, in particolare la cascata delle Marmore, e sono andato via contento. La medaglia cuoriforme la dedico a mia madre.
Per me la corsa sostituisce esigenze d’altro ordine ed è così palese quest’azione surrogatoria che non necessita di alcuna descrizione, ma io almeno me ne rendo conto e soprattutto non rompo i coglioni al prossimo: mica male.
Negli ultimi otto mesi ho raccolto i frutti degli ultimi anni, ma avrei preferito allungare una mano verso l’Albero della Conoscenza invece di preparare la merenda al mio narcisismo.
Non conferisco grande importanza alle piccole soddisfazioni che mi sono tolto, bensì celebro la forza interiore che mi ha spinto verso quelle caduche gratificazioni. Nei miei pensieri mi rapporto spesso alla morte perché tento di prepararmici e in questo modo ne pacifico l’idea, però la mia esistenza non ha sfumature funeree e rigetto la visione della fine che mi è stata consegnata dalla cultura in cui sono cresciuto. Per me, in quanto ateo, le promesse ultraterrene valgono come le pubblicità cartacee che congestionano le cassette postali. L’unica forma d’amore che conosco è l’amor proprio. Le mie priorità non riguardano ciò che allontana l’idea della morte né tanto meno quanto tenta di avvicinarla più del possibile, ma per spiegarmi meglio dovrei aprire un capitolo e riempirlo di parole che non ho alcuna voglia di spendere. Non nego invece quanto ancor oggi pesi in me l’assenza femminile, tuttavia non sono certo di meritare il rapporto che bramo e così proseguo il mio esodo in un deserto affettivo dove non c’è traccia d’acqua né di rassegnazione. Chissà, un domani, dietro una duna, all’improvviso un’epifania muliebre…
Attraverso un periodo sereno e la vita mi arride, ma so che il futuro potrà essere peggiore o migliore del presente e dunque non mi rifugio nell’illusione dell’immutabilità che tanta fortuna riscuote presso i pusillanimi. Se avessi voglia di circonlocuzioni mi domanderei come si possa spiegare l’attesa (spesso e giustamente vana) a chi non sa attendere. Ho la sensazione che il piacere di scrivere mi stia riconquistando, ma chiederò l’onore delle armi soltanto se riuscirò a superare una prova che ho in calendario: tra meno di un mese avrò la risposta e sarò io stesso a fornirmela, ancora una volta; l’ennesima. Per aspera ad astra.
Masterpiece, entropia e logomachie
Pubblicato martedì 19 Novembre 2013 alle 08:24 da FrancescoPuò darsi che in futuro questo post scompaia per sopraggiunta obsolescenza.
Ancora una volta devo ricorrere alle parole per sostenerne delle altre: che gran noia Babilonia. Due giorni fa su Rai Tre è andato in onda un programma televisivo a cui ho preso parte: Masterpiece. Non ho visto la trasmissione, ma in tutta onestà dubito che sia stata soltanto la mia scrittura (invero non la reputo neanche la ragione principale) ad aprirmi le porte degli studi RAI di Torino: a differenza di altri io cerco di essere obiettivo e non mi identifico con quello che faccio. Serbo un gradevole ricordo di quella simpatica esperienza e soprattutto dei ragazzi della redazione a cui rivolgo un saluto: spero che giunga loro per puro caso!
Durante le riprese ho intuito subito che almeno nelle prime puntate del programma le biografie degli autori avrebbero prevalso sui testi, ma avevo già preventivato un risvolto del genere e non l’ho vissuto come un vulnus letterario.
Anzitutto prendo le distanze dalla giacca che mi ha rifilato la costumista e mi vedo costretto a rettificare alcune imprecisioni che sono state diffuse sul mio conto. Non so chi mi abbia consegnato le patenti di intellettuale e filosofo, ma io non sono né il primo né il secondo e non intravedo nella mia persona alcuna giustificazione per il conferimento di questi titoli. Un’altra imprecisione riguarda la breve intervista che mi ha fatto quel buontempone di Massimo Coppola: a costui ho detto di praticare una masturbazione non compulsiva (che di fatto è un modo per sottolineare un’ovvietà propria di una larga fetta della popolazione maschile), ma qualche giornalista disattento l’ha invece riportata come “compulsiva”; inoltre è passata l’idea che io non desideri relazioni e anche questo è falso: pazienza. Nulla a che vedere con le tecniche narrative, tutt’al più spunti per rilegature artigianali con colle organiche: in ogni caso credo che gli abitanti delle terre emerse se ne siano fatti una ragione.
Non devo difendere la mia scrittura poiché la letteratura europea, italiana, finanche quella del mio circondario possono tranquillamente sopravvivere senza l’ausilio dei miei libercoli. Tutti sono utili e nessuno è indispensabile. Ho letto giudizi superficiali, ma anche ottime e caustiche ironie. La televisione trasmette immagini (in senso lato) e non è detto che queste debbano aderire per forza alla realtà, di conseguenza è comprensibile che a taluni della mia persona e del mio scritto sia rimasto impresso nient’altro che l’onanismo. Non mi prendo sul serio e cerco di fare quello che cazzo mi pare senza mai rompere i coglioni al prossimo.
Chi vuole vedere al di là dei semplicismi può farlo, ma non è sicuro che varcato il confine del riduzionismo ci sia poi molto altro da scoprire, perlomeno nel mio caso: chissà! Ho apprezzato le parole che De Carlo ha speso per lodare la mia disciplina. Mi preme chiarire quanto il divieto di bestemmiare abbia limitato oltremodo i validi argomenti con cui avrei potuto perorare la nobile causa di un cazzeggio blasfemo. Non ho più l’entusiasmo per cimentarmi nelle logomachie virtuali. La ragione la cedo al migliore offerente o al primo che arriva: per me è indifferente.
Per scrivere e fare davvero arte dovrei superare la vanità (ma è solo questa la propulsione di cui so avvalermi) e raggiungere ciò che Bene (nel video in calce) chiama “disfacimento del concetto di soggetto”, ma quest’ultimo traguardo io sono in grado di sfiorarlo soltanto nella corsa, rimossa dalla sua cornice sportiva e intesa come processo di annullamento dell’Io. Anche questo appunto è un atto di vanità perché chi è in grado di comprendere ciò non ha bisogno di vederlo scritto.
Non ho ragioni valide né stimoli passeggeri per riprendere a seminare parole trascurabili qui o altrove, ma voglio traslare su queste pagine un ricordo che ho già vergato con innumerevoli falcate: forse sono più bravo a scrivere con i piedi che con le mani…
Sabato ho corso la cento chilometri delle Alpi, da Torino a Saint-Vincent, e mi sono classificato al sesto posto con un tempo di 9:00:14. Ho mantenuto un passo al chilometro di 5’24”. Siamo partiti in 180 e siamo arrivati in 127.
Non mi va di snocciolare troppi numeri né troppe parole: coi primi ho poca dimestichezza, alle seconde invece riservo una crescente indifferenza. Nella gara ho dato tutto me stesso e al traguardo sono crollato tra le braccia di un brav’uomo. A circa cinque chilometri dall’arrivo, sulla salita del Montjovet, ho compiuto il mio ultimo sorpasso ed è stato il momento più epico della mia vita da podista. Ho visto luoghi incantevoli e ho incontrato ottime persone, ma ancora una volta sono stato sorpreso dall’intensità dei moti interiori che mi hanno accompagnato fino a quando mi sono potuto concedere il lusso di non staccare la mente.
Io corro ancora per disperazione e vivo felicemente: quante buffe contraddizioni possono costellare la vita d’un uomo. Ho ancora margini di miglioramento, però mi mancano la stoffa e le ambizioni per fare il salto di qualità. Non ho alcuna chance di eccellere in questa disciplina, ma è meritocratica e trovo che sia l’esegesi migliore di “Essere e tempo” di Martin Heidegger: in altre parole un esistenzialismo più prometeico ed esuberante. Nella corsa non c’è potere discrezionale: chi è più veloce sta davanti, chi è più lento sta dietro.
A questo punto potrei spendere qualche parola sul percorso, sull’organizzazione e quant’altro, tuttavia preferisco avvalermi della proprietà di sintesi e la mia opinione in merito può essere facilmente intuita dall’auspicio di prendere nuovamente parte all’evento di cui sopra.
Ringrazio ancora una volta la redazione de Il Tirreno per il graditissimo articolo che mi ha dedicato nella cronaca sportiva del diciassette ottobre.