Alcuni giorni or sono stavo finendo i preparativi di una trasferta in Francia per un’altra corsa di cento chilometri, ma all’improvviso mi sono posto una domanda: “Perché continuo a partecipare alle gare?”. Sulle prime non ho trovato una risposta e nemmeno in seguito ne ho scovata una. Ho cominciato a gareggiare per dimostrare qualcosa a me stesso, però in meno di un anno e mezzo ho avuto più soddisfazioni di quante potessi auspicarmene. Oramai le mie motivazioni sono esaurite e soltanto il narcisismo può fornirmi ancora la spinta per competere, tuttavia non lo considero sufficiente e dunque preferisco smetterla con l’agonismo. La forza dell’abitudine ha infiacchito ciò che all’inizio era quasi prometeico, perciò anche la carica emotiva è marcita e solo un’insofferenza incipiente me ne ha dato contezza; mi chiedo se sia così anche in quei rapporti amorosi di cui il tempo usura e svela le deboli premesse, a differenza d’altre relazioni nelle quali invece i moti iniziali della passione si rinnovano come spontanee primavere.
Ho cominciato a correre per disperazione, quando la mia unica alternativa era il suicidio, e non voglio che la corsa si serva di me: dev’essere l’esatto contrario. Con l’abbandono delle gare ristabilisco l’ordine originario e mi affranco dalle continue pretese dell’Io: mai che quest’ultimo lo si possa lasciare solo un minuto! Per me l’attività fisica è importante in quanto mi permette di colmare almeno parzialmente le mancanze affettive che costellano la mia esistenza e non voglio fare a meno del diffuso senso di benessere che ne traggo e col quale contribuisco all’economia del mio umore, perciò continuerò a correre e ad allenarmi con il solo obiettivo di farmi del bene. Mi dispiace per l’aspetto umano della disciplina, difatti il podismo mi ha dato modo d’incontrare gente simpatica e anche qualche persona straordinaria che probabilmente non rivedrò mai più. Le classifiche parlano da sole, un po’ come me quando corro o pedalo in luoghi ameni senza una meta precisa. Per quanto possibile intendo godermi sott’acqua i rimasugli di quest’estate imperfetta. Ogni tanto mi piace trattenere il respiro quanto basta per stare immobile a qualche metro di profondità, ma lascio ad altri la tentazione di non affiorare più in superficie.
In questi giorni non mi riconosco. Sono stanco, indolente e non riesco a concentrarmi su nulla. Avverto persino un velo di malinconia nelle mie riflessioni, però non so chi ve l’abbia adagiato e mi chiedo se non sia caduto inavvertitamente alle Moire mentre esse tessevano il mio destino. Se mi lasciassi soggiogare da queste perturbazioni passeggere finirei per scrivere come se fossi l’unica persona al mondo ad avere dei problemi. In realtà non ho niente che una buona dormita non possa risolvere. Mica sono fatto di merda: anch’io sono un essere umano e non posso farci nulla, tutt’al più posso esserci, nel senso di Heidegger. La citazione è servita: per ora in quanto aggettivo, ma in futuro non so se servirà anche in qualità di verbo intransitivo con l’ausiliare al seguito. Prove tecniche di sagacia, un po’ come l’inversione dei dolori del giovane Werther.
D’autunno non starò come le foglie sugli alberi, perciò parafraso i versi di Ungaretti per darmi un tono. Gli stereotipi estivi sono resi anacronistici dai mutamenti del clima: ogni tanto qualcuno si ricorda che tutto cambia o forse ne è sempre conscio e all’uopo finge di stupirsene per chissà quali ragioni. Divago come se dovessi vivere davvero. Arretro d’un passo, ma tanto sono tenuto a farne molti in avanti: mi riferisco al podismo. Tra un paio di mesi correrò all’estero per la prima volta: ho scelto d’esordire oltralpe con un’altra corsa di cento chilometri, la stessa distanza con la quale ho iniziato a gareggiare. Non mi pongo obiettivi particolari e intendo allenarmi in modo spontaneo, senza badare a tabelle o ad altro. Non sono bravo ad applicare programmi specifici e non voglio rischiare un’involuzione o, ancor peggio, una deformazione dei motivi primevi che mi hanno indotto a correre. Sono partito dalla soglia di un forte disagio esistenziale e alla fine ho avuto anche delle soddisfazioni cronometriche: ciò non devo dimenticarlo mai, specialmente quando sulle ali dell’entusiasmo il mio Io lascia che gli s’introducano delle ambizioni clandestine.
Per me la corsa è solo una via per meditare che mi consente d’estraniarmi dall’impazzimento in cui versa il genere umano; è un modo per tollerare quella crudeltà che di fatto non so neanche se sia giusta o meno, ma a cui di certo una parte della mia specie non è più abituata da quando la cosiddetta civiltà ha aumentato le sue pretese: su ciò i saggi del dottor Freud sono esaustivi. Se fossi una persona migliore me ne starei sotto un albero a occhi chiusi, in perfetta ascesi, ma sono uno della massa e non è certo qualche sporadica bizzarria che può rendermi differente dal resto. Non so quanto mi resti da vivere, ma voglio cercare di trascorrere quest’arco di tempo nel migliore dei modi. Buona fortuna a tutti.
I rumori sordi e le traiettorie cieche descrivono le disabilità d’ogni dio, anche del più venerando. La testa tra le nuvole, qualche aureola e alcune favole: c’erano una volta detriti e corpi bruciati. Mi sembra che sia atteso sempre qualcun altro o qualcosa di diverso: altre temperature, vecchie fiamme, nuove riforme, talvolta invece la sola morte.
Non vedo nulla di male nel libero mercato delle opinioni, d’altronde se lo criticassi non farei altro che parteciparvi in misura maggiore: almeno in questo modo non cerco intermediari diretti e non mi assumo alcuna responsabilità verso chiunque decida di sdoganarle alla propria attenzione. Non maneggio con cura le parole vuote perché queste non costituiscono un pericolo, bensì solo un ronzio molesto. Chiunque può prendere una parte per le ragioni più disparate e chiunque può dire tutto nonché l’esatto contrario, però dubito che in questa ridda di identificazioni siano coinvolte altre istanze oltre alle figliocce disconosciute dall’Io: la realtà patrocina l’evento senza ricevere niente in cambio, manco una scalfittura. Il noumeno non si tocca. A me importa poco di tutto, ma non trascuro niente. Di settimana in settimana imparo qualcosa di nuovo, però potrei fare di meglio e in lassi di tempo più ristretti se la mia capacità di apprendimento si trovasse sulla soglia dell’autismo. Mi perdo nell’anonimato dei normodotati, non c’è il fuoco sacro d’alcuna passione in me, però mi sento perfettamente a mio agio nella condizione d’entità trascurabile. Chissà come sono passato dalla cronaca ermetica delle prime righe ad un punto così distante e diverso da quello dell’esordio: forse precipitando; la forza di gravità, croce e delizia.
Attraverso un periodo di profonda serenità. Non c’è niente che io desideri intensamente, perciò le piccole bramosie che porto in grembo non hanno abbastanza forza per compromettere il mio attuale equilibrio. Non valuto mai lo stato d’animo in base a qualche suggestione o sull’onda di un entusiasmo passeggero, bensì ne attendo sempre la conferma attraverso sonni tranquilli e risvegli lieti. Prendo il polso della mia situazione dalla facilità con cui riesco ad addormentarmi e non conosco un metodo più accurato tramite il quale ottenere un responso altrettanto preciso. Le descrizioni positive non sono avvincenti quanto le loro controparti e io non m’impegno molto per renderne più interessante l’esposizione, ma d’altro canto non ho un motivo né un capriccio per tentare qualsivoglia rafforzamento in tal senso.
La quotidianità mi offre delle piccole sfide di pazienza e dei doveri che assolvo senza sentirne il peso, ma nell’arco di una giornata riesco comunque a ritagliare ampi momenti da dedicare a me stesso. Il mio egoismo non nuoce a nessuno. Traggo delle sensazioni concrete dal mio modo di vivere, ma non ho la certezza che quest’ultimo sia davvero quello a me più confacente: chissà! Mi sto avvicinando al Pranayama col duplice scopo di sperimentarne gli eventuali benefici nella corsa e di avvalermene nella vita d’ogni giorno, perciò a tempo debito spero di poterne scrivere qualcosa di utile. Per ora mi limito a constatare quanto stia crescendo il mio lato contemplativo e in particolare in relazione ai colori del crepuscolo. Prima dovevo sforzarmi molto per osservare un tramonto e non sapevo mai goderne, ora invece, a volte, il mio occhio si volge in maniera del tutto spontanea verso il calar del sole: lo considero un primo passo benché non senta ancora in me un vero trasporto di fronte alle ultime luci del giorno; forse un domani, forse mai…
Ieri ho compiuto trent’anni a settanta esatti dallo sbarco in Normandia e mi sento più giovane di quando ne avevo venti perché oggi sono più forte e più sereno rispetto ad allora.
Non so quanto mi resti da vivere, ma conto di scoprirlo in un biscotto della fortuna la prossima volta che andrò a mangiare in qualche bettola cinese. Se mi guardo indietro non vedo nessuna traccia di nostalgia, nessuna età dell’oro e niente che possa mettere i bastoni tra le ruote del mio presente. Ho corso migliaia di chilometri e mi sono lasciato alle spalle molte cose senza che di nulla abbia mai avvertito una reale vicinanza. Credo che il bello debba ancora venire, tuttavia non so davvero cosa possa riservarmi il futuro. Tra altre tre decadi potrei ritrovarmi a rimandare ancora una volta il momento di tirare le somme, o il prossimo anno potrei essere a tu per tu con una malattia incurabile e allora ne approfitterei per stringere amicizia con le cellule impazzite. Quanta inquietudine e superstizione aleggia ovunque il passaggio del tempo sia recepito come una condanna invece che come un atto di clemenza: le idee non mi spaventano.
Ho ancora il primo bacio da scoccare e spero di farlo in modo autentico, tuttavia lo conserverei volentieri qualora avessi la garanzia di poterlo dare in un’eventuale aldilà ad Afrodite, ad una valchiria oppure ad una ninfa (Calipso su tutte!) in visita di cortesia alle divinità ctonie.
Forse in questi miei primi trent’anni la sublimazione è stato il mio più grande successo perché è da quest’ultima che hanno proliferato le mie parti migliori. Ho tramutato la verginità in una forza virile e non mi sono negato nulla che non valesse la pena d’evitare: certe privazioni mi hanno dato più di quanto avrei potuto trarre dal loro esatto opposto. Alchimia, nient’altro che alchimia. Comunque, chi non abbia mai perso tempo appresso a Jung può vederci quello che vuole, come in una macchia di Rorschach.
Cento chilometri del Passatore 2014
Pubblicato mercoledì 28 Maggio 2014 alle 08:44 da FrancescoSabato ho corso la cento chilometri del Passatore per la seconda volta e sono di nuovo riuscito a terminarla benché il mio tempo sia stato più alto di circa cinquantaquattro minuti rispetto a quello dell’anno precedente: nel 2013 impiegai 9 ore, 40 minuti e 54 secondi per raggiungere piazza del Popolo a Faenza, in quest’edizione invece ho fermato il cronometro 10 ore, 34 minuti e 31 secondi dopo lo start che è avvenuto in via dei Calzaiuoli, in quel di Firenze.
Fino al Passo della Colla tutto è filato liscio e infatti, da quanto m’è stato riferito, ero tra i primi novanta benché abbia impiegato quattordici minuti più dello scorso anno per scollinare al 48° chilometro. Fino a Marradi, al 65° chilometro, ho mantenuto un passo che mi proiettava ancora sotto le dieci ore, ma dopo il 70° ho avuto dei crampi ai polpacci e all’addome, dolori così lancinanti per i quali mi sono dovuto stendere sull’erba al lato della strada mentre passavano le auto. Una volta a terra, nel buio della notte e in quello del cuore, ho spinto le gambe contro una recinzione: dopo un po’ è sopraggiunto un altro podista che s’è fermato quasi un minuto per aiutarmi. Quando costui è ripartito io sono rimasto qualche altro secondo disteso e mi sono chiesto se avrei fatto lo stesso qualora i ruoli fossero stati invertiti: ho pensato subito di sì, ma ne sono diventato certo prim’ancora di rialzarmi per ripartire.
Verso Brisighella mi sono dovuto fermare una seconda volta per dei conati di vomito, forse un principio di congestione che mi sono procurato con l’assunzione di troppi liquidi: insomma, mea culpa, ho fatto qualche errore d’integrazione. Qualche chilometro dopo, prima del 95°, si sono ripresentati i crampi: bentornati! Seppur di minore intensità, i dolori alle gambe mi hanno fatto crollare di nuovo a terra e ho impiegato oltre un minuto per riprendermi. All’ultimo ristoro, quello del 95° chilometro, ho bevuto del the caldo e mi è sembrato la panacea di tutti i mali perché mi ha permesso di correre gli ultimi cinquemila metri sotto i sei minuti al chilometro: una velocità stellare per la condizioni in cui ero ridotto e con i quasi cento chilometri che avevo già macinato. Ho riguadagnato diverse posizioni e mi ha davvero sorpreso il cambio di passo che mi sono imposto, però avrei preferito che una tale brillantezza fosse stata spalmata meglio negli ultimi trenta chilometri.
Ora mi domando dove io abbia trovato quel vigore finale. Forse dopo il superamento di un limite s’apre per un po’ una comoda strada che ne introduce di più tortuose. La mia tenuta mentale è stata ottima e ne sono felice perché mi ha dato buone indicazioni su quanto esula dallo sport. Ho patito molto in questa cento chilometri, è stata la mia gara più lunga in assoluto e penso che mi abbia aiutato ad incrementare la mia soglia di sopportazione del dolore (che fa tanto comodo anche nella vita), ma alla fine sono riuscito a concluderla con un dignitoso 204° posto su 1738 atleti arrivati e su 2198 partiti.
Penso che ormai abbia dato il meglio di me nell’ultramaratona, perciò ho intenzione di dedicarmi a distanze più brevi, almeno per qualche tempo, però è sempre facile ricascarci…
Invero la cosa migliore sarebbe che io cominciassi a scopare.
Ad maiora.
Giorni fa mi sono recato in un negozio per fare delle compere e là ho cominciato a parlare con il gestore che non aveva soltanto cose da vendere, ma ne serbava anche di interessanti da dire. La conversazione s’è protratta per circa due ore ed è stata una delle più piacevoli di tutta la mia esistenza. Nessuno ha tentato di convincere l’altro, bensì v’è stato uno scambio di vedute che ci ha portato sulla stessa lunghezza d’onda nonostante tra noi vi fossero trascurabili differenze. Mi ha fatto riflettere una frase che egli mi ha detto e che rischia di suonare un po’ banale fuori dal contesto in cui è stata espressa: “Se la morte può prendermi solo in vita, allora la vita non può che prendermi nella morte”. Questo assunto per qualcuno garantisce la reincarnazione, ma da ateo io non riesco a convincermi di nulla, neanche del ciclo delle rinascite (la metempsicosi, o, nella fattispecie, il samsara).
Ho notato che la mia prima associazione d’idee alle parole suddette è stata con un proverbio indiano abbastanza celebre: “L’uomo dice che il tempo passa, il tempo dice che l’uomo passa”. Ieri invece m’è capitato sotto gli occhi un articolo pressappochistico che descriveva la teoria secondo cui l’universo è destinato a finire; avevo già letto qualcosa in merito sulle pagine di una rivista scientifica e quello scenario (o meglio, la negazione d’ogni altro) non mi aveva disturbato. Mi domando se qualche volta il desiderio di tornare a vivere non sia dettato semplicemente da quello di ritornare ai tempi dell’infanzia. Per quanto io trovi affascinanti certe prospettive, il mio senso critico (che non si limita alla mera ragione, ma anche a delle intuizioni) non mi dà modo di aggrapparmici e invero non me ne dispiaccio affatto. In altre parole io sono solo al cospetto del nulla; addirittura? Cose grosse! Volano paroloni. Prendo tutto (o quasi) alla leggera perché già non peso molto da vivo ed escludo che la morte possa ingrassarmi. Ho perso il filo del discorso e sono venuto meno agli intenti iniziali di questo appunto, ma in verità non volevo ridurre a mo’ di compitino una descrizione che forse non sono in grado di fare: che lavori l’immaginazione!
Mancano otto giorni all’alba d’una vigilia importante. Ho la mente sgombra, non avverto alcuna forma di tensione e mi sento pronto a sostenere la prova che m’attende. Riesco a mantenere la concentrazione più di quanto sia mai riuscito a fare in passato e ne approfitto nelle mie letture. Continuo a non avere granché da scrivere, ma questa penuria di argomenti è dovuta anche alle giornate intense che mi fagocitano tempo ed energie: mi auguro che l’estate oltre ad alzare le temperature incrementi anche la frequenza dei miei appunti.
Non sono asserragliato in una torre eburnea di abitudini radicate, anche perché una di queste prevede che io mi tenga informato su ciò che accade in patria (dove secondo i latini nessuno è profeta) nonché sulle vicende del resto del globo (invero sempre le stesse).
Ogni tanto ricevo degli elogi immeritati, viziati da idealizzazioni o da fraintendimenti ed erronei come potrebbero esserlo le critiche che per ora non mi pervengono (non in faccia, almeno), ma anche se qualcuna mi fosse rivolta non cambierebbe nulla perché in questi tempi d’austerità non compra più manco chi disprezza; io comunque offro solo il baratto: coscienza per coscienza.
Alcune delle cose più importanti restano ascose (cioè nascoste) perché talvolta non è possibile dirle in un modo che ne salvaguardi la portata emotiva. Certe parole mi sembrano destinate al deterioramento semantico, perciò trovo che il tempismo del loro impiego sia importante quanto il messaggio di cui si fanno portatrici. Accidenti, quanta prosopopea per descrivere ciò che i greci indicavano con sei lettere appena: kairos.
L’inconscio è un deposito promiscuo e sarebbe bello se certuni potessero visitarlo per cercarci qualcosa di utile come in una discarica a cielo aperto; se ne fosse vietato l’ingresso agli estranei allora non potrebbe entrarci neanche il proprietario, tuttavia immagino che spesso sia già così. Mi pare difficile stabilire contatti che meritino di essere stabiliti e trovo altresì arduo rinsaldarne di pregressi. Mi domando se esista davvero un metodo che aiuti ad affinare sempre più la capacità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto: non mi riferisco né alla fortuna né ad alterazioni del suo proverbiale bendaggio. Conosco la legge dell’ottava, però non la prendo in considerazione perché non ho l’indole adatta. Alla soglia dei trent’anni mi sento in un perfetto equilibrio tra due opposte sensazioni. So che una parte di me (forse una delle migliori) non è ancora emersa perché non sa dove rifrangersi, ma allo stesso tempo so che faccio bene a non compiere forzature in tal senso: ogni cosa deve essere naturale oppure non dev’essere affatto. La mia resistenza è tutta in questa consapevolezza, la quale può essere considerata un dono (ancorché meritato) o una condanna a seconda dei punti di vista, qualunque sia il tipo di cecità.
Domenica ho debuttato su quella che per me è una distanza breve, ovvero la mezza maratona. Di norma uso i ventuno chilometri (più alcune centinaia di metri) come allenamento di base ed è raro che in una sessione io corra di meno, tuttavia in futuro apporterò delle modifiche a questa abitudinarietà per compiere degli esperimenti: spero che il mio corpo non se ne abbia a male. Su 389 atleti che hanno tagliato il traguardo (gli iscritti erano oltre quattrocento) sono arrivato decimo col tempo di 1 ora, 21 minuti e 55 secondi. Ho corso a una media di 3’53” e ho gestito la gara in modo egregio. All’inizio ho trainato un gruppetto dal quale mi sono staccato all’altezza dell’undicesimo chilometro. Durante la parte del percorso che si snodava su una strada bianca (nella pineta della Feniglia) non ho forzato il ritmo e ho aspettato di tornare sull’asfalto prima di lanciare l’attacco ad un drappello che mi precedeva. Sono riuscito a correre gli ultimi chilometri in progressione e ho superato altri quattro atleti, ma uno di questi mi ha recuperato a sua volta negli ultimi trecento metri con un allungo eccezionale: costui mi ha dato due secondi, io invece ne ho dati tre all’undicesimo, perciò si è trattato di un arrivo in volata che mi ha esaltato molto. Sono soddisfatto del risultato e ho anche guadagnato la medaglia d’argento della mia categoria perché la gara in questione valeva come campionato regionale UISP di mezza maratona.
Oltre a questo decimo posto, due settimane prima ho partecipato ad uno short trail di 17,5km abbastanza impegnativo, specialmente sul piano muscolare, difatti il percorso prevedeva continui cambi di ritmo, con una dura alternanza di salite e discese: alla fine io sono arrivato nono su 148 e ho gradito la mia prestazione. Sono capace di divertirmi anche su distanze più brevi rispetto a quelle in cui vado a ricercare me stesso, ma ho già in programma un’altra ultramaratona, ovvero un altro viaggio introspettivo nonostante ormai abbia una certa conoscenza dei luoghi dentro e fuori di me. Vivo bei giorni e dormo sonni lieti, perciò mi ringrazio…