1
Feb

Del correre e del conoscere

Pubblicato domenica 1 Febbraio 2015 alle 18:57 da Francesco

Quest’oggi ho corso per trenta chilometri in mezzo alla neve e al fango, ma rimando ad un altro momento il resoconto della gara e mi limito a prendere spunto dai pensieri che l’hanno scandita.
Un tempo correvo per compensare le mie mancanze affettive e in questo modo riuscivo a vivere bene nel deserto emotivo in cui ancora dimoro, poi la sublimazione è terminata e sono cambiate le ragioni delle mie falcate. Mi sono reso conto che adesso corro per imparare a morire, cosicché al momento della mia ora io non sia del tutto impreparato, però auguro a me stesso di vivere a lungo e soprattutto bene! Quest’ultimo è un auspicio che rinnovo di tanto in tanto e dunque spero di potermelo ripetere molte altre volte ancora, ma allora dovrei augurarmi lo stesso per la speranza di ripetere l’auspicio di cui sopra: in realtà sono più semplice di quanto appaio. 
Platone stesso afferma nel Fedone che la “filosofia è imparare a morire” e Seneca si occupa di quella che egli chiama ars moriendi, perciò ormai asservisco la corsa e i suoi sforzi a questo tipo di studio: mi occupo della fine. Qualche mese fa ho attestato la scomparsa della sublimazione e già allora sapevo che qualcos’altro le sarebbe subentrato: adesso la sostituzione è chiara.
Oltre a macinare chilometri continuo ad accumulare nozioni, però non credo che l’aumento del bagaglio culturale sia necessariamente un bene e mi sembra che non di rado tale incremento abbia una spinta vanesia quanto quella che induce certuni (compreso il sottoscritto) a lavorare sull’ipertrofia muscolare. Ripeto: sono più semplice di quanto appaio. Anche a Seneca era invisa un certo tipo di conoscenza e c’è un passaggio di una sua lettera in cui secondo me lo dichiara in modo efficace: “Voler conoscere più del necessario è una forma di intemperanza. Che dire poi di questa moda che ci fa seguire le arti liberali e ci rende importuni, prolissi, intempestivi e vanesi e ci ci fa trascurare il necessario perché abbiamo imparato il superfluo?”.

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28
Gen

L’ordine ristabilito

Pubblicato mercoledì 28 Gennaio 2015 alle 16:13 da Francesco

È trascorsa meno di una settimana da quando ho fatto ritorno nella mia Itaca e tutto è rimasto come l’ho lasciato al momento della partenza. Mi sono riappropriato delle mie buone abitudini e mi sento già in pace con me stesso. Rinvigorite, nuovamente fiere e dislocate lungo il limes della mia individualità, così si presentano le legioni di umori, sentimenti e pensieri di cui sono a capo dentro il mio capo. Non ricevo ambasciate e attorno a me non odo lingue conosciute benché la torre di Babele sia lontana.
Ho saputo sfruttare i venti per rimettermi in sesto e adesso sono più forte di quanto sia mai stato. Non mi bastano le parole altisonanti o le suggestioni temporanee, per questo cerco e trovo le conferme che esigo nel mio approccio alla routine quotidiana. Questa volta la risalita è stata più lenta e mi è occorso il favore delle circostanze per accelerarla, però ora anche la soddisfazione è maggiore e chissà se gli dèi stanno a guardare. Vorrei chiedere udienza alla pizia di Pozzuoli, tuttavia il silenzio ce l’ho già e mi è più familiare di qualunque cosa possa infrangerlo. Devo stare al mio posto perché altro non mi è concesso, ma da qua godo di un’ottima vista. Benché lungi dal suo termine, non c’è altro inverno che mi sia stato più caro di quello che ancora mi punge ad ogni risveglio antelucano. Condivido tutto con me, perciò non devo neanche spezzare i pani.

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21
Gen

Il lungo rimpatrio

Pubblicato mercoledì 21 Gennaio 2015 alle 05:16 da Francesco

È giunto il momento di tornare a casa e di cambiare registro: Seattle, Parigi e poi un lungo scalo in Italia, forse di cinquantadue anni secondo l’attuale stima della vita media.
L’altro ieri ho avuto un sogno ricorrente, quello di precipitare in aereo. Di solito il vero significato dell’attività onirica si cela dietro il contenuto manifesto del sogno (e l’interpretazione di questo classico è una delle più semplici), ma non escludo che le prossime diciotto ore di volo possano rivelarne il carattere premonitore. Sono poco incline all’idealizzazione e immune alla nostalgia, ma di certo sentirò la mancanza di alcune cose.
Anzitutto i piacevoli allenamenti su Kohala Road, la cui vista sull’oceano non mi ha mai tolto il fiato (altrimenti sarebbe stato problematico continuare a correre), però mi ha fornito un senso di onnipotenza che più volte, per qualche chilometro, ha sospeso il mio ateismo a favore di un’identificazione immaginaria e passeggera con l’archetipo del creatore (uno qualunque).
Inoltre: la lava solidificata (per riassumere quasi tutto), la vetta del Mauna Kea e la distanza siderale da qualunque terra disgraziata.
Mi mancherà anche la quotidiana visione delle valchirie che da queste parti superano in numero le mortali. Il mio è puro estetismo: virgo intacto sono partito e tale ritorno. A proposito, per me le Hawaii sono migliori del Valhalla perché qui fa caldo tutto l’anno.
Altro da cui non vorrei separarmi: il secondo emendamento, la possibilità di svoltare a destra con il rosso (altro retaggio del maccartismo?) e la Diet Dr. Pepper.
Sono comunque contento di rimpatriare perché c’è un tempo per ogni cosa, compreso quello in cui ogni cosa non ci sarà più.
A me manca il senso di appartenenza e non lo sottolineo per fare il figo (quello cerco di farlo ogni tanto con questi improbabili e prolissi esercizi di sagacia), bensì perché in linea di massima non c’entro davvero un cazzo con l’ambiente in cui sono cresciuto, eppure ci vivo bene lo stesso per ragioni che sono note a chiunque sia sulla mia stessa lunghezza d’onda.
In alcune sue lettere Seneca salutava Lucilio con delle massime di Epicuro, io invece che sono autoreferenziale (faccio di necessità virtù) cito per me un allegro passaggio d’un siculo che fu contemporaneo della fine del mondo: “L’amore per il suolo in cui si nasce è un sentimento in più. Ogni radice è di troppo. L’idea di patria, l’idea di nazione, sono idee patetiche e casalinghe. Il suolo dell’origine è maledetto come l’ora della nostra nascita, o indifferente come quello delle lumache”. Tutto da prendere cum grano salis. Saluti e bestemmie.

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16
Gen

Le ultime escursioni

Pubblicato venerdì 16 Gennaio 2015 alle 01:19 da Francesco

Qualche giorno fa ho dovuto accompagnare una persona al tribunale di Kona che si è trovata a rispondere ad un’accusa per eccesso di velocità, così ho approfittato dell’occasione per avere uno spaccato insolito degli Stati Uniti e sono rimasto seduto in aula per tre ore ad assistere allo svolgimento di altri casi. Alcuni imputati sono stati condotti di fronte al giudice con le manette ai polsi, alle caviglie, la catena lungo il girovita e con la scorta delle guardie armate: per un attimo mi sono sentito dentro una scena di uno di quei film che hanno investito più volte le mie iridi.
Per me la più divertente è stata una ragazza che dopo la lettura di una lunga lista di accuse ha semplicemente detto: “I don’t need a lawyer”; anch’essa presentava quel look anzidetto che ai miei occhi è a metà tra un Hare Krishna (per via della tuta arancione) e uno schiavo da campo di cotone. Qualche caso si è concluso con un “dismissed with prejudice”, altri invece sono stati liquidati con centinaia d’ore di “community service” e altri ancora erano solo parte di vicende giudiziarie più corpose le cui pene finali probabilmente richiederanno l’uso dell’abaco.
Ieri invece ho guidato fino ad Hilo, la città più grande di Big Island. La natura attorno al centro urbano è stupenda. Ho passeggiato per un po’ nella zona della Coconut Island dove in passato s’è manifestata la furia dello tsunami. I parchi limitrofi sono incantevoli e hanno un’atmosfera zen. Malgrado il cielo fosse plumbeo per me la giornata è stata meravigliosa.
Tra poco invece andrò a correre lungo la Queen Ka’ahumanu highway che porta a Kona perché quest’oggi voglio un’altimetria più facile rispetto a quella di Kohala Road (le cui stupende viste comunque non mi stufano mai!). Correrò per venticinque chilometri dopodiché tornerò a casa per cucinarmi degli udon da accompagnare con della salsa di soia.

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10
Gen

Breviario intercontinentale

Pubblicato sabato 10 Gennaio 2015 alle 12:43 da Francesco

Quanto è accaduto in Francia non mi ha sorpreso più di tanto. Seguo la propaganda jihadista da fonti non convenzionali, inoltre m’interesso alle vicende del fronte siriano: ammiro i curdi che insieme a dei volontari occidentali (forse folgorati sulla via di… Damasco?) combattono contro il cosiddetto Stato Islamico. Insomma, un attentato era nell’aria, come d’altronde lo è sempre da quasi un quindicennio a questa parte. In tale ambito il mio interesse è di tipo militare e storico.
Non esprimo giudizi morali né sento la necessità di lanciarmi in una di quelle analisi che spesso trovano nell’autocompiacimento l’unica raison d’être. Ciò che mi accomuna al fondamentalismo è la mancanza di dialogo, ma nel mio caso non so quant’essa sia voluta. Potrei calcare la mano con l’umorismo di cattivo gusto o accodarmi allo sdegno generale, potrei cercare di essere originale a tutti i costi fino a scadere nella banalità o potrei semplicemente rinviare alle pagine di un libricino profetico che Emil Cioran scrisse nel sessanta, Storia e utopia: una lettura che io stesso intendo ripetere. Oggi, a maggior ragione, rinnovo quelle sante parole che digitai un mese fa: “Vorrei restarmene qua, avere una casa modesta ma con vista sull’oceano, una ragazza del Midwest con cui condividerla per il resto dei miei giorni e il piacere di leggere le prime pagine dei giornali come se fossero la cronaca estera di Alfa Centauri”.
Ambisco ad un esilio napoleonico. Ho trovato la mia Sant’Elena in mezzo al Pacifico, tuttavia non ho colpe da espiare. Da queste parti ormai è notte fonda e una piacevole stanchezza inizia ad impadronirsi del sottoscritto. Mi appresto a dormire e per conciliare il sonno spendo le ultime forze della giornata sulle Lettere a Lucilio: Seneca è il padre che non ho mai avuto.

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7
Gen

Ricapitolazione d’inizio anno e cromatismi alchemici

Pubblicato mercoledì 7 Gennaio 2015 alle 08:01 da Francesco

Già intravedo la vigilia della mia partenza nonostante manchino ancora due settimane al lungo ritorno in Italia, perciò ne approfitto per un excursus che esula dalla solita cronaca di viaggio. Non sento il fiato sul collo, però vorrei sperimentare questa sensazione che per me è ancora inedita in ogni suo senso, specie quello in cui sono coinvolti tutti gli altri cinque.
In patria con la mia lingua madre mi sento figlio unico, ma non lamento uno stato di solitudine al quale devo comunque molto. Una volta a casa riprenderò a coltivare quei nuovi interessi che ho dovuto trascurare per partire; inoltre mi farò carico di certe incombenze che ho rimandato per lo stesso motivo. Può darsi che in cielo un’avaria, una turbolenza anomala o un jihadista mettano fine ai miei propositi e a tutto ciò che può ancora accadere: memento mori!
Questo viaggio è stato il più lungo ed intenso che abbia mai fatto, ma è stato anche iniziatico. Seguendo una certa terminologia alchemica posso riassumere i miei ultimi dieci anni in almeno due parti. Prima vi è stata la nigredo, una fase in cui ho iniziato a praticare  l’introspezione e ho cambiato il mio fisico: ho distrutto quello che ero, dall’adipe ai desideri meccanici e ho tagliato i ponti con quasi tutti i miei consanguinei; una tabula rasa era indispensabile, tant’è che anche la mia ombra ci è andata di mezzo.
Quasi un lustro più tardi è giunta la cosiddetta fase dell’albedo, un periodo in cui ho cominciato a provare una certa padronanza della mia persona che si è poi riverberata lungo tutto il raggio dei miei interessi. Nello stesso arco di tempo sono riuscito a profondere ulteriori sforzi dai quali ho tratto altri benefici e piccole soddisfazioni, ovvero nient’altro che appendici dell’essenza di tale processo. In questo decennio, a cui io mi riferisco come epoca della sublimazione (che ormai ritengo conclusa), le fasi di cui sopra non sono state lineari e d’altronde non potevano esserlo. Le mie cadute hanno avuto sempre la stessa matrice: la totale mancanza di reciprocità; come in una sorta di supplizio di Tantalo non sono ancora riuscito a raggiungere il cuore di nessuno. Queste mancanze e i rari tentativi di colmarle (sempre dettati dal caso e da sincere intuizioni) talora mi hanno fatto vacillare sulla mia via e altre volte mi hanno proprio atterrato (o atterrito). Col senno di poi penso che ogni passo in quella direzione mi sia servito e forse ne avrei dovuti compiere di più decisi. I fallimenti mi hanno creato le condizioni ideali per perorare lo sviluppo personale, tuttavia non penso che possano più darmi alcunché: ormai ne conosco le dinamiche a menadito e nel migliore dei casi (o nel peggiore, che tanto è uguale) potrei provarne di nuovo le amarezze che l’Ego spaccia per uniche, ma di cui io invece ravviso chiaramente gli stereotipi.

Mi rendo conto che quanto mi appresto a scrivere possa sembrare arrogante ad uno sguardo estraneo e non lo appunterei se queste parole non avessero come destinatario il sottoscritto o se non contenessero già in nuce quell’autoreferenzialità da cui non ho modo di svincolarle.
Ora che ho messo le mani avanti posso annotare qualcosa sulla posizione altrettanto avanzata dei miei passi. In altre parole mi sento alle porte di quella che l’alchimia designa come rubedo, tuttavia non escludo che qui mi stia appropriando in maniera indebita di un termine per riferirmi a qualcosa di diverso: solo io posso conoscere la risposta e non è detto che sia quella giusta.
Ad ogni modo, mi domando se a fornirmi una prima e superficiale prova di questa transizione sia stato l’improvviso riguardo che ho preso a nutrire verso qualche tramonto, parte della giornata di cui per lungo tempo non mi sono spiegato l’altrui fascinazione: assonanze cromatiche.

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27
Dic

Da un’isola all’altra, di ritorno da me stesso

Pubblicato sabato 27 Dicembre 2014 alle 23:20 da Francesco

Su quest’isola ho ritrovato me stesso e non mi aspettavo davvero una riuscita così vivificante. Supponevo che il mio soggiorno avesse tutt’al più le possibilità di trasformarsi in un diversivo temporaneo dopo un periodo di smarrimento, ma la sua reale portata ha superato ogni mia più rosea aspettativa. Ho una buona stella, di questo ormai sono certo, però sono anche bravo ad approfittarne e mi riconosco tale merito perché non voglio fare un torto alla verità.
Prima di tornare a Kamuela, su Big Island, precisamente il penultimo giorno che ho trascorso a Honolulu, mi sono recato presso una libreria di Barnes & Noble per trovare qualcosa da impilare tra i libri che mi rimangono da leggere: alla fine il campo delle mie ricerche si è ristretto ad un piccolo settore di filosofia. Ho comprato un libro dedicato a Diogene di Sinope per regalarlo a chi mi sta ospitando; per me invece ho acquistato un saggio intitolato “Wisdom, from philosophy to neuroscience”. Ad un certo punto, mentre sfogliavo il testo per decidere se  portarlo alla cassa o meno, il mio sguardo si è fermato su un passaggio il cui contenuto qualche giorno addietro era stato oggetto di una mia riflessione: l’ennesima coincidenza dello straordinario viaggio di cui sono ancora protagonista. Prima d’incorrere in codesto scritto avevo ragionato in termini leggermente diversi sulla differenza che intercorre tra intelligenza e conoscenza, però questa si sovrappone altrettanto bene nel passaggio che cito di seguito, dove i termini della distinzione sono intelligenza e saggezza.

”The function of intelligence is characterized as focusing on questions of how to do and accomplish necessary life-supporting tasks; the function of wisdom is characterized as provoking the individual to consider the consequences of his actions both to self and their effects on others. Wisdom, therefore, evokes questions of should one pursue a particular course of action”.

 

Al mio ritorno ho avuto modo di conoscere altre persone e una sera mi sono intrattenuto per quattro ore con un italiano in quel di Kona. Sono stato a due feste diametralmente opposte e così ho appreso le differenti accezioni che il termine party può acquisire. Ho persino partecipato ad una partita di ultimate frisbee, uno sport di cui ignoravo le regole nonché l’esistenza, però si è rivelata un’esperienza divertente.
Il video in calce si riferisce prevalentemente al periodo che ho speso sull’isola di Oahu e quindi ai quattro giorni in cui sono stato a Honolulu.

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18
Dic

Maratona di Honolulu 2014

Pubblicato giovedì 18 Dicembre 2014 alle 11:40 da Francesco

Nel buio pesto di tre mesi fa non riuscivo a scorgere nemmeno un lontano bagliore di questo meraviglioso presente che allora era soltanto un futuro nascosto, del tutto inimmaginabile.
Non sono un fatalista e penso davvero che homo faber fortunae suae. Sono governato da leggi superiori che non conosco e non scarico la mia ignoranza sulle cosiddette casualità: certo, esse esistono, ma forse viene ascritto loro più di quanto in realtà portino nei loro amorfi grembi.
Mi sento di nuovo forte e allineato sulla mia via: il baricentro è stabile, lo sguardo deciso, perciò che io possa ricordare bene questi giorni e le notti che ne hanno preceduto la mirabile venuta. Oltre alle liete constatazioni è opportuno un resoconto: di sicuro non è indispensabile, però ho voglia di scriverlo per rinnovare la recente fragranza di quei momenti già incensati dagli eventi.
Sabato sono decollato dall’aeroporto di Waimea e prima di arrivare a destinazione ho fatto due brevi scali sulle isole di Maui e Molokai. Ho volato tre volte a bordo di un Cessna 208 Caravan  e durante la seconda tratta sono stato l’unico passeggero: ho provato una sensazione surreale! Sono arrivato a Honolulu in circa due ore e mezzo. Una volta uscito dall’aeroporto ho rimediato un passaggio da un atleta locale che si trovava anch’esso sul mio terzo volo e così sono andato a ritirare il pettorale: ho ricevuto il numero 16508! Non so se nasconda un valore cabalistico…
Non mi sono trattenuto molto all’Hawaii Convention Center, ma ho preferito dirigermi a Waikiki per riposarmi il più a lungo possibile e nel migliore dei modi.

Mi sono svegliato alle tre del mattino poiché lo start era previsto per le cinque. Ho messo il mio completo e mi sono legato una hachimaki (una bandana giapponese) in testa che riportava i due ideogrammi della parola “touhon”, ovvero “spirito combattente”. Per riscaldarmi ho corso da Kuhio Avenue fino alla partenza in Ala Moana Boulevard (guarda un po’, un boulevard): circa due chilometri e mezzo in cui ho visto maratoneti (o aspiranti tali) frammisti a degli ubriachi, ma forse qualcuno univa in sé i due mondi: creature ibride, un po’ dionisiache, un po’ mercuriali…
Poco prima dello start è stato cantato l’inno americano e poco dopo nel cielo ancora scuro sono esplosi dei fuochi d’artificio. Il primo chilometro l’ho dovuto correre piano, ma ho poi recuperato in progressione i secondi persi negli ingorghi dei primi mille metri. Qualche folata di vento e un po’ di pioggia hanno caratterizzato buona parte della gara, ma nulla d’insostenibile. Sono stato quasi sempre in gruppo con degli atleti nipponici, meno che in un frangente dove siamo stati in tre: un italiano, un giapponese e un tedesco, come in una barzelletta ricordata male o in un’alleanza bellica dagli esiti nefasti. Ho passato il decimo chilometro in 41 minuti e rotti e là ho trovato le prime conferme sulla mia andatura, ma ne ho ricavate di ulteriori al ventunesimo, infatti sono transitato in circa 1 ora e 28 minuti alla mezza maratona. Ho avuto una piccola crisi attorno al venticinquesimo chilometro poiché il vento si è alzato all’improvviso e la pioggia si è fatta più fitta, ma dopo poco il peggio è rientrato. Ho maturato la convinzione che sarei sceso sotto le tre ore prima del trentaquattresimo chilometro anche se avevo già cominciato ad accusare stanchezza muscolare: ho continuato a testa bassa, come altre volte, in altre casi…
Al traguardo il mio real time è stato di 2 ore, 58 minuti e 21 secondi, tempo che mi ha permesso di guadagnare l’82° posto assoluto, il 13° di categoria (M30-34) e il 71° tra gli uomini, uno dei primi europei e primo di quello che suppongo sia uno sparuto gruppo di italiani: tutto questo a fronte di più di ventiduemila partecipanti (e circa trentamila iscritti).
Niente male per uno come me che sembrava avesse chiuso con le gare e con altro: la verità è che “non è finita finché non è finita”!
Tra l’altro nel 2013 anche alla cento chilometri del Passatore (la mia prima gara) arrivai all’82° posto: quello fu un inizio e quest’ultimo forse ne sancisce un altro, come in un cerchio che si chiude, come in un eterno ritorno…
Ho iniziato questo viaggio dubitando delle coincidenze e queste mi si sono presentate in forme, modi e numeri di cui non ho ancora appuntato tutto. Non si tratta di autosuggestione: forse è qualcosa di ancora più prosaico, ma di certo non è autosuggestione. A tempo debito lascerò qui ulteriori dettagli e intanto continuo a starmene in mezzo al Pacifico, ospite di brave persone.
Dal Vecchio Continente un caro amico mi ha inviato un articolo apparso nella cronaca sportiva dell’edizione di oggi (diciotto dicembre) de Il Tirreno. Ringrazio ancora una volta chi di dovere.

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9
Dic

Desiderio di permanenza

Pubblicato martedì 9 Dicembre 2014 alle 09:31 da Francesco

Se fosse possibile richiederei asilo politico agli Stati Uniti, però mi accontenterei anche del più grande dei miracoli. Nella mia giovane esistenza ho avuto molti bei periodi, ma quest’ultimo è uno dei migliori che abbia mai vissuto e inoltre si è manifestato all’improvviso dopo circostanze di tutt’altro tenore: in questo caso, a differenza dell’aritmetica, se i fattori fossero stati invertiti il prodotto sarebbe cambiato.
Forse per arrivare prima dove mi trovo adesso avrei dovuto proseguire più ad est quando mi sono recato in estremo oriente: con un ulteriore sforzo sarei giunto in estremo… occidente!

Vorrei restarmene qua, avere una casa modesta ma con vista sull’oceano, una ragazza del Midwest con cui condividerla per il resto dei miei giorni e il piacere di leggere le prime pagine dei giornali come se fossero la cronaca estera di Alfa Centauri.
Ancora una volta il caso mi ha regalato uno shock addizionale per il salto d’ottava, ma non me ne sarei mai reso conto se non fosse stato così palese.
Non è che prima non ne fossi al corrente, anzi, ma adesso, in seguito all’esperienza diretta, mi è più chiaro come non sia sufficiente leggere alcune cose o convincersene per acquisirne un certo grado di comprensione. A tempo debito mi riapproprierò dello status di straniero in patria e di certo non per il gusto banale (e fuori tempo massimo) da bastian contrario, ma per altre ragioni a cui vanno bene tutti  i nomi possibili (e non).
Mi attendono giorni lieti benché differenti da quegli attuali e imminenti. Aloha.

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1
Dic

Oltre le coincidenze

Pubblicato lunedì 1 Dicembre 2014 alle 00:14 da Francesco

Ieri ho incontrato di nuovo una ragazza tedesca che ho conosciuto sul volo da Los Angeles a Kona. Siamo rimasti in contatto via e-mail e abbiamo deciso di trascorrere una giornata insieme. In aereo ho scoperto che è stata anche a Orbetello: quante erano le possibilità che io sedessi accanto a lei? Per me è stato un incontro bizzarro! Mi ha divertito la sua accesa spiritualità, ma non l’ho mai irrisa. Abbiamo cominciato a parlare perché lei ha notato la copertina del libro che stavo leggendo, ovvero “Simboli della scienza sacra” di René Guenon.
Sono andato a prenderla in un ostello squallidissimo nel centro di Kona e l’ho aiutata a trovare un posto migliore a sud della città, ma prima abbiamo pranzato insieme in un posto incantevole ed economico sul mare, poi abbiamo esplorato dei negozietti dai cui traboccavano cianfrusaglie d’ogni tipo. In uno di questi posti ho scovato un vinile che non m’aspettavo di trovare, un album che per me ha un significato particolare, “Sacred Hymns”: è un disco di Keith Jarrett dedicato a Gurdjieff e l’ho pagato appena dieci dollari! Alla cassa una signora prim’ancora che della merce mi ha chiesto conto del mio accento e io le ho detto: “Guess!”. Dopo due tentativi ha indovinato la mia nazionalità, che un tempo fu anche la sua, difatti è emigrata trentadue anni fa da Livorno e ora gestisce un grazioso negozio d’antiquariato (con parecchi vinili) insieme ad altre persone.
 

Verso l’imbrunire ho accompagnato la viaggiatrice teutonica in un ostello più confortevole e là ci siamo salutati come in un film. All’inizio le ho detto che non mi sentivo a mio agio con lei, infatti per quanto piacevole fosse stata la giornata avevo avvertito della distanza e grandi differenze. Ad un certo punto dopo un silenzio interminabile mi ha detto: “I like how you’re handling it”.
Allora abbiamo cominciato a parlare in auto e siamo rimasti là per un paio di ore. Dopo questa lunga e profonda conversazione l’ho vista sotto un’altra luce, ma ci siamo detti comunque addio perché in patria ha qualcuno che l’aspetta. Le ho spiegato che se l’avessi incontrata di nuovo me ne sarei potuto innamorare o forse avrei trovato un’ulteriore conferma delle differenze che avevo avvertito in un primo tempo, perciò avremmo perso in ogni caso: “Great, in any case we cannot win, no way out!”. Alla fine ci siamo messi a ridere perché è stato tutto così surreale.
Per me quelli di ieri sono stati i momenti più romantici della mia vita. Entrambi avremmo voluto che tutto finisse e continuasse, in un paradosso insostenibile per questo piano dell’esistenza. Alla fine lei è scomparsa sotto un’orribile insegna al neon che recitava “open” anche se per me rappresentava un’altra porta chiusa. Prima di andarmene le ho lanciato un bacio dall’auto e lei mi ha aspettato per ricambiare. Non la dimenticherò mai.

Ho messo insieme dei filmati che ho registrato a tempo perso durante questa prima settimana in mezzo al Pacifico: frammenti di quotidianità. Oggi sono pervaso da sensazioni agrodolci, ma nulla che non mi sia già noto. Forse ad altre latitudini è una citazione inflazionata, ma per me continua ad essere qualcosa di più: “Per aspera ad astra!”.

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