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Mag

Archivio onirico: sogno n. 20 / Mantra ed esperienza onirica

Pubblicato sabato 2 Maggio 2015 alle 15:47 da Francesco

La scorsa notte ho fatto un sogno bellissimo, del tutto stridente con quanto l'inconscio mi ha passato sottobanco nell'ultimo periodo: mi sono interrogato su quest'inversione di tendenza.
È pomeriggio, il cielo è grigio ma il mare calmo e io cammino su degli scogli per cercare un ingresso nella falesia che mi sovrasta. Non trovo alcuna entrata e chiudo gli occhi: quando rialzo le palpebre mi trovo in una casa con le pareti bianche. Accanto a me siede una donna che ha più di cinquant'anni, ma è ancora bellissima e intona una canzone che conosco bene.
Mi guarda, mi bacia su una guancia, mi sorride e continua a emettere ogni nota con precisione e disinvoltura, come se per lei non ci fosse alcuna differenza tra l'eloquio e il canto; all'improvviso s'interrompe, mi sorride, mi dà un altro bacio sulla guancia e poi mi stringe a sé, spalla contro spalla. Io provo un profondo affetto nei suoi confronti e sono pervaso da una dolcezza infinita. L'altra alza lo sguardo verso il soffitto e i suoi occhi trascinano i miei, ma torniamo a guardarci quasi subito e lei si rivolge a me: "Queste pareti non sarebbero più belle se fossero dipinte?". Replico con un sorriso, lo stesso che giace sul suo volto: ne resto incantato.

Nella scena iniziale il mare è calmo e il cielo grigio perché più o meno tutto continua a scorrere (panta rei) anche se io non trovo il modo di entrare in un cuore, ovvero la falesia del sogno. L'improvviso cambio di scena mi conferma che non deve esserci una ricerca poiché tutto avviene senza preavviso: ecco perché dopo un batter d'occhio mi ritrovo accanto alla deuteragonista.
La donna e l'affetto che mi manifesta non hanno un valore erotico, ma per me rappresentano i desideri di complicità e piccole attenzioni che capeggiano le mie fantasie affettive più profonde.
La domanda della donna è retorica e suona come un invito a dipingere quelle pallide pareti: si tratta di una scena quasi materna, un affettuoso sprone nei mi confronti.

Questa volta non sono molto interessato all'interpretazione del sogno perché i suoi significati aggiungono poco al quadro degli ultimi tempi, ma voglio fare un'ipotesi sulla sua origine.
Forse l'inconscio può veicolare i propri contenuti in una forma più o meno piacevole, così come lo stesso concetto può essere spiegato in maniere diverse, e difatti anche in quest'occasione mi è stata ribadita la mia mancanza d'amore, però in una forma nient'affatto cupa o minacciosa, anzi, amorevole come la premura di una madre divina.
Il giorno prima del sogno ho ascoltato a lungo il moola mantra cantato da Deva Premal (ma la donna del sogno non era lei poiché aveva più primavere e i suoi capelli erano corvini) e quando ne ho analizzato il ricordo, dopo una rapida associazione d'idee, mi sono chiesto se in qualche misura quel mantra non fosse penetrato al di sotto della mia coscienza; anche se nel sogno la sensazione d'incanto era più marcata, mi ha ricordato un po' quella che ho provato quando mi sono prestato all'ascolto piacevole e prolungato di quel kirtan.
Al fine di scongiurare certe derive, il mio approccio a determinati temi è quello di un tardo illuminista, perciò mi baso sulle mie esperienze per farmi un’idea della mia realtà soggettiva. Suppongo che il mantra (di cui io so fruire solo nella commistione di kirtan e musica occidentale) possa sortire degli effetti variabili a seconda di chi ne fa esperienza, ma in tale ipotesi riconduco tutto al campo fisico delle vibrazioni (senza esserne in grado di teorizzarne alcunché).
Di certo su di me agisce anche (o forse soprattutto) ciò di cui non conosco il significato.

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28
Apr

Archivio onirico: sogno n. 18 e sogno n. 19

Pubblicato martedì 28 Aprile 2015 alle 16:45 da Francesco

Ho passato una notte travagliata e il mio inconscio ha trasmesso un palinsesto inquietante che spero ancora una volta di riportare e interpretare nel migliore dei modi.

Sogno n. 18

Mi si para davanti una signora incappucciata che ha un aspetto tetro e un'età indecifrabile. Costei mi mostra la mano destra e io noto subito una ferita bianca sotto le sue nocche, però non mi ci soffermo e sposto lo sguardo: quasi mi giro dall'altra parte.
La donna mi ripresenta la mano e le dico che cercherò di aiutarla, ma appena le tocco le dita la ferita s'irradia e al contempo il volto della signora diventa tanto pallido quanto cattivo: provo un orrore improvviso e mi risveglio di colpo con il battito cardiaco piuttosto accelerato.


Sogno n. 19

Mi riaddormento quasi subito e nel nuovo sogno mi ritrovo in una grotta bianca vicino al mare. Parlo con una ragazza che fa colazione e ad un tratto compare un essere androgino dalla pelle scura: ha il volto di un ragazzo e il corpo di una donna procace. Alla sua vista la ragazza si arrabbia con lui e con me, perciò se ne va infuriata e scende sotto la grotta, lungo una sorta di scalinata naturale. Saluto l'altro battendo il mio pugno contro il suo e sorrido.

Nel primo sogno credo che la signora simboleggi il mondo femminile: la sua età è indecifrabile poiché ne deve raffigurare ogni stagione, dalla massima beltade fino alla naturale sfioritura.
Intravedo nella mia iniziale ritrosia il lontanissimo fatalismo nei confronti dell'altro sesso che ha caratterizzato la mia adolescenza, perciò il momento in cui la signora mi riporge la mano per me rappresenta l'ingresso nell'età adulta; la reazione che ella ha al mio tocco sintetizza tutte le difficoltà, le insidie e le frustrazioni che il dovuto cambio di atteggiamento ha comportato nella mia esistenza: l'orrore che ne segue e il risveglio sono la sofferenza e la rinascita nonché le facce diametralmente (e sostanzialmente) opposte della solitudine emotiva.

La prima scena onirica è legata alla seconda, ma preferisco procedere separatamente poiché le ho percepite come esperienze singole, inframmezzate da un brusco risveglio.
La ragazza nella grotta è un altro simbolo dell'altro sesso, ma l'essere androgino che compare non è che il mio lato femminile, inteso come l'Anima (la maiuscola è voluta) junghiana e io interpreto il nostro saluto, pugno contro pugno, come un ritrovato equilibrio con l'Animus (ovvero il lato maschile che io costituisco in quell'essere proprio come quello costituisce in me il lato opposto). La ragazza che si allontana arrabbiata è il mondo femminile che percepisco in perenne afelio e il mio sorriso finale è quasi una specie di accettazione per questa distanza che forse non è reale: che sia un errore di parallasse dovuto proprio… ad un punto di vista?
Su quest’ultima immagine azzardo un’altra ipotesi, un po’ arrogante, ma non lascio che i timori della modestia frenino i miei spunti.
Può darsi che l’allontanamento furioso della figura femminea simboleggi la frustrazione di quelle (poche) ragazze che hanno trovato nella mia Anima (cioè nel mio lato femminile) quanto non volevano sapere di loro, con un chiaro infrangimento delle normali regole di seduzione a cui non mi sono sottomesso e la mia tendenza introspettiva che le ha costrette al confronto con loro stesse: rare ma intense occasioni che si sono risolte sempre con nette separazioni (e tali sarebbero state anche senza le dinamiche anzidette).
Se quest’ultima ipotesi corrispondesse a verità allora ci troverei un concorso di colpe, poiché non ritengo un merito favorire l’altrui introspezione a meno che certi contenuti dell’inconscio non emergano in una maniera appropriata: est modus in rebus, ma sul serio

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23
Apr

Uovo di Jung

Pubblicato giovedì 23 Aprile 2015 alle 10:16 da Francesco

Mi sono soffermato su due capitoli del Libro rosso: il nono e l'undicesimo.
Il mio interesse s'è destato all'incontro di Jung con Izdubar, l'uno diretto verso oriente e l'altro verso occidente; il nome del secondo protagonista è quello con cui gli assiriologi indicavano il personaggio di Gilgamesh quand'ancora non ne era nota la giusta traslitterazione.
Izdubar irrompe come un gigante che brandisce un'ascia bipenne e anela all'immortalità, tratti che di primo acchito me l'hanno fatto associare alla mitologia norrena, però egli cade presto vittima delle parole di Jung che involontariamente lo avvelena col sapere scientifico di cui costui si fa inconsapevole nunzio: da qui l'enantiodromia oscura i cieli e riempie le pagine.
Così prende piede il noto gioco degli opposti, che prima chiamerei "incontro" e poi "accordo" dei contrari se volessi rendere un po' più serio il mio approccio al tema, ma questa volta lascio i riferimenti alchemici a chi vuol credere più del necessario a ciò che scrive o a quello che legge.
La razionalità quasi uccide il dio (in quanto Izdubar lo rappresenta col pensiero orientale), però l'altro vuole salvarne l'esistenza e s'ingegna per farlo. Alla fine Jung riduce Izdubar a una mera fantasia e così può trasportarlo in un uovo (e la semplicità della soluzione a me ricorda proprio l'espressione "uovo di Colombo"). Portato in una casa e fatto oggetto di incantesimi, così sono chiamate nel decimo capitolo quelle che a me sembrano preghiere, l'uovo viene aperto e il dio rivive: mi ha colpito molto l'immagine che Jung ha realizzato per descrivere questo momento.
La rinascita di Izdubar non è letterale e io ne associo il senso lato a quello della morte di dio secondo Nietzsche; nel primo caso si manifesta un rinnovamento di sé stessi, nell'altro invece v'è un preludio al superamento dei vecchi valori (poiché ne viene decreta la fine).
Jung non filosofa con il martello, forse non filosofa affatto, inoltre suppongo che i suoi scopi siano altri, perciò non metto in contrapposizione due pensatori di così diversa natura che io vedo comunque vicini laddove il tempo è quasi un orpello della metafisica.
Oltre alle dotte (in apparenza) elucubrazioni, personalmente non riesco a trasporre nulla di ciò nella mia realtà, perciò ne elogio la forma e ammetto la mia totale incapacità di identificarmici.
Non mi sognerei mai (eh già, il verbo è proprio adatto, e anch'esso lo è, "il verbo", come in una scatola cinese da calembour) di screditare la tecnica dell'immaginazione attiva di cui Jung si è avvalso, ma riconosco come questa non mi appartenga; d'altronde, in modo tutt'altro che ermetico, è egli stesso a mettere in guardia il lettore in un passo del Libro rosso: "Quello che vi do, non è né una dottrina né un insegnamento. E da quale pulpito potrei indottrinarvi? Vi informo della via presa da quest'uomo, della sua via, ma non della vostra. La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. La via è in voi, ma non in dèi, né in dottrine, né in leggi. In noi è la via, la verità e la vita".

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20
Apr

Archivio onirico: sogno n. 17

Pubblicato lunedì 20 Aprile 2015 alle 15:29 da Francesco

Qualche notte addietro ho fatto un sogno per me inedito, o almeno io non ricordo di averne mai avuto uno analogo. Mi trovavo a cena con molte persone che non riuscivo a focalizzare, come se fossero state parte di un sottofondo vivente: ero seduto e tenevo in braccio un neonato.
Probabilmente il pargolo era il figlio di un mio ipotetico conoscente. L'ambiente era allegro, però il convito non faceva parte di alcuna celebrazione e, in base alle mie percezioni, mi sembrava che fosse semplicemente un'occasione per riunire della gente attorno a una tavola imbandita.
In quest'immagine onirica l'elemento principale è l'infante che rappresenta il cosiddetto puer aeternus, ovvero il bambino interiore: il significato credo che sia duplice e in apparenza molto contraddittorio. In parte il fanciullo simboleggia la mia apertura verso il mondo e la voglia di un cambiamento che tarda ad arrivare, ma in una certa misura è come se io pretendessi tutto ciò a mo' di bambino viziato, quasi che mi fosse dovuto. Inoltre credo che quel neonato fossi io e così è come se nel sogno fossi stato padre di me stesso benché all'inizio abbia attribuito il pargolo a un mio ipotetico conoscente: dunque, io senex e puer al contempo.
Non mi faccio sconti perché l'introspezione non può funzionare coi compromessi, perciò deduco che l'inconscio mi abbia informato ancora una volta del mio spaventevole bisogno d'amore.

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18
Apr

La presenza mentale

Pubblicato sabato 18 Aprile 2015 alle 03:20 da Francesco

Circa una settima fa mi sono recato presso un piccolo osservatorio astronomico per assistere ad una breve lezione sulla materia e l'energia oscura nell'universo, tuttavia la mia attenzione è stata catturata più dalle interazioni dei partecipanti che dall'oggetto di discussione.
Ho constato la diffusa incapacità di stare cinquanta minuti in silenzio ad ascoltare qualcuno che spiega qualcosa. Ho avuto lo stesso tipo d'insofferenza per tutto il mio iter scolastico, ma in quel caso io ero obbligato (ancorché mi sottraevo con assenze e svogliatezza) a stare seduto per cinque ore consecutive e quindi, a differenza dell'evento di cui sopra, non lo avevo scelto.
La lezione in sé non mi ha entusiasmato molto poiché a mio avviso mancava di quel mordente che pochi (o almeno suppongo tale esiguità) sanno instillare nelle loro opere divulgative, però ho approfittato delle circostanze per esercitare la mia attenzione in un contesto tutt'altro che coinvolgente: per me è stato un espediente attraverso cui ho tentato di essere presente; forse anche sforzi del genere avvicinano ad una più ampia comprensione dell'universo.
Inoltre ho notato come la vanità e lo sfoggio di erudizione tendano a prevalere sull'acquisizione di nozioni, come se la priorità fosse quella di trovare il modo di mettersi in luce, quantunque si tratti della luce riflessa di conoscenze a disposizione di chiunque voglia investirci del tempo: ciò vale negli ambiti più disparati e ai miei occhi denota un infantislimo archetipico di cui anch'io mi sento colpevole in certi casi.
Da quando sono tornato dal mio lungo viaggio ho iniziato a cimentarmi con nuovi interessi, in campi in cui ho scarsa dimestichezza e dove riesco lo stesso ad eludere le frustrazioni dei primi passi: una di tali attività è l'osservazione della volta celeste. Forse mi sono avvicinato ancor di più a quanto è infinitamente grande e infinitamente piccolo perché non ho ancora trovato sagge, stupefacenti e copernicane rivoluzioni di mezzo. Tempo al tempo.

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8
Apr

Lo spirito del tempo, lo spirito del profondo

Pubblicato mercoledì 8 Aprile 2015 alle 15:39 da Francesco

Alcune volte accantono dei libri in attesa che il momento opportuno ne propizi la lettura: per me si tratta di uno stratagemma con cui prevengo un approccio meccanico a quei testi che reputo importanti e ai quali riservo un attento esame. Uno degli scritti in questione è Il libro rosso di Carl Gustav Jung: l’ho acquistato in autunno ed è soltanto da una settimana che sono incorso nelle condizioni giuste per addentrarmici con tutto il mio spirito.
Quest’opera mi rispecchia in toto e intuisco con altrettanta pienezza in quale stato d’animo Jung ci si sia dedicato nel corso di decenni. In alcuni tratti riscontro l’influenza di Nietzsche e del suo Zarathustra, soprattutto nei dialoghi visionari che lo svizzero sostiene con la propria anima.
I suoi peripli mi ricordano i miei, perciò quasi mi commuovo a scorgere quant’egli si sia spinto a ridosso della pazzia per superare il cosiddetto spirito del tempo; a tal proposito mi sono rimaste impresse le parole di Schelling che compaiono in una nota del testo, ovvero quelle per cui esiste “una classe di persone che riescono a dominare la follia e che, proprio esercitando questo controllo, mostrano in sommo grado la forza dell’intelletto”.
L’esperienza nel deserto di Jung con la sua anima mi conferma quanto gli archetipi vivano nella mia specie: io stesso sono ricorso a quell’immagine ancor prima di conoscerla nella sua opera e medesime sono state le intenzioni del suo utilizzo. V’è un altro punto che mi ricorda da vicino le mie elucubrazioni e si tratta di un breve passaggio nel quale ritrovo compiuta anzitempo una critica all’accumulo di nozioni che più volte è sorta spontaneamente in me: “Non vi è cultura creata dalla mente che sia sufficiente a trasformare la tua anima in giardino; io avevo curato la mia mente, che era lo spirito di questo tempo in me, ma non lo spirito del profondo che si volge alle cose dell’anima, al mondo dell’anima”.
Jung per affrontare queste scoperte e per sostenerne il rischio fece affidamento sulla famiglia e sul proprio lavoro, tuttavia io non ho la prima e nel mio caso le mansioni del secondo non hanno punti di contatto con questo àmbito. Sono da solo nella traversata del deserto, ma per fortuna posso contare su tante risorse interiori. Qui il linguaggio si fa rarefatto, quasi viene meno al suo compito, perde polisemia e si presta ad accuse di vaghezza: ulteriore riprova di quanto mi trovi distante da chiunque possa essermi affine. Il cammino continua.

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3
Apr

Fili karmici

Pubblicato venerdì 3 Aprile 2015 alle 01:30 da Francesco

Ogni tanto mi torna in mente chi mi parlò di fili karmici: l’ultima volta mi disse che il futuro giace sulle ginocchia di Giove. Mi domando dov’ella sia e quali vette avremmo toccato se fossimo stati in grado di conoscerci, però mi chiedo anche se quei fili ci leghino ancora impercettibilmente.
Eravamo su due vie simili, intenti a raggiungere una meta comune, al di fuori di noi e al di fuori delle relazioni con gli altri: strade parallele, sì, che per definizione non si sono mai incontrate. Può darsi che lei si trovi ancora nel deserto o abbia già lasciato le dune su cui io sono ancora nomade. Forse un giorno ci vedremo e non ci riconosceremo o magari scambieremo un saluto di primo acchito in altre dimensioni. Il viaggio sembra ancora lungo e le possibilità innumerevoli.
Persevero in forti esperienze di autoconoscenza e giorno dopo giorno sento i miei simili sempre più distanti, ma non m’illudo di essere poi così diverso da ciò a cui comunque non appartengo.
Avverto il bisogno della condivisione da quando ho memoria di me, tuttavia non posso accettare compromessi che minino l’autenticità dei miei propositi: è una situazione complicata, di difficile soluzione e da cui a volte ho l’impressione che non possa districarmi. Pago a caro prezzo tutta la mia lucidità, forse più di quanto valga. Nel deserto sussurro un nome ed è subito silenzio.
Proseguo.

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29
Mar

Una settimana di concerti

Pubblicato domenica 29 Marzo 2015 alle 15:09 da Francesco

Nell’arco di sei giorni ho assistito a tre concerti piuttosto diversi tra loro, tutti a Roma e con la piacevole compagnia di me stesso. Trentasei ore dopo la maratona capitolina ho fatto ritorno nella Città Eterna per vedere Alice dal vivo: una rara occasione che ho còlto senza indugi.
Nella sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, dove regna un’acustica eccezionale, sono stato estasiato dalla voce e dal carisma della signora Bissi, nonché dalla scaletta proposta.
Per me i momenti migliori del live sono stati l’esordio con “Nel resto del tempo”, eseguita solo con voce e tastiera; alcuni brani dell’ultimo album: “Veleni”, che ascolto spesso, “Tante belle cose”, ovvero un’intensa cover di Françoise Hardy, la sua interpretazione de “La realtà non esiste” di Claudio Rocchi; poi pezzi meno recenti ma non troppo datati, quali “Il contatto”, “Orientamento”, “Morire d’amore” (che malgrado il titolo è tutto fuorché una canzone melensa), “Nomadi” e “L’era del mito”.  Ho apprezzato anche il lato pop, comunque sempre ricercato.
Per me non ci sono mai stati momenti bassi, solo picchi altissimi, e alcuni inconvenienti tecnici non hanno inficiato per nulla quella che ho vissuto come un’esibizione superba.
Il ventisette marzo mi sono recato al Jailbreak per vedere i grandi Vision Divine e pure questo live è stato eccezionale! Sono rimasto tutto il tempo sotto il palco e mi sono goduto quasi due ore di power metal che ormai conosco a menadito. Questo è davvero un grande gruppo che sa come coinvolgere il pubblico e secondo me meriterebbe platee molto più ampie. Alla voce c’era Fabio Lione, che tecnicamente non è all’altezza di Michele Luppi ma io lo preferisco in quanto ad interpretazione. I duelli tra tastiere e chitarre si sono sprecati, sfoggiati come se fossero facili da comporre ed eseguire, ma pure le parti ritmiche (o forse soprattutto queste) hanno fatto le cosiddette buche per terra. La scaletta è stata corposa e se la memoria non mi fa difetto credo che abbia chiamato in causa quasi tutta la discografia della band.
Ieri, infine, ho ripreso la mia auto e  mi sono fermato un po’ prima di Roma (sebbene sempre nel suo territorio) per raggiungere il Crossroads. È stato il turno di Neil Zaza, un chitarrista che ha parecchio gusto e asservisce la sua immensa tecnica a quest’ultimo. Mi sono seduto al tavolo per uno che avevo prenotato e ho mangiato qualcosa durante il live. Anche in quest’occasione è andato tutto bene e ho passato una bella serata: sapevo cosa aspettarmi da Zaza e ne sono rimasto soddisfatto, inoltre ha suonato due pezzi nuovi che mi sono piaciuti parecchio.

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23
Mar

Maratona di Roma 2015

Pubblicato lunedì 23 Marzo 2015 alle 16:18 da Francesco

Scrivo qualcosa su quel passatempo con cui mi illudo di allungare i telomeri, ma sarebbe meglio che spendessi delle parole su qualcos’altro. Ieri alla Maratona di Roma ho corso di proposito senza orologio e con appena ventitré chilometri di allenamento nelle ultime tre settimane (di cui cinque in una staffetta e diciotto veloci qualche giorno prima della gara).
Sono partito forte, troppo forte, e per quasi venti chilometri ho seguito una kazaka che poi ha chiuso in due ore e quarantatré minuti: un tempo irrealistico per me.
Ho corso la prima metà in un’ora e ventuno minuti, la seconda in un’ora e trentacinque minuti: porco dio! La crisi è cominciata al ventottesimo chilometro, bella prematura come i mali incurabili che falcidiano i più sfortunati alla grande lotteria della genetica.
Ho pensato al ritiro fino al quarantesimo chilometro, ma a forza di ripetermelo come un mantra quel comprensibile intento ha perso di significato. Solo al mio secondo Passatore ho sofferto più di ieri mattina. Il paradosso è che in una gara gestita malissimo ho chiuso con un tempo per me soddisfacente, ovvero due ore, cinquantasei minuti e ventiquattro secondi: si tratta del mio secondo miglior risultato di sempre in maratona!
Non ho mai accusato così tanto le asperità dei sanpietrini: ottimi come armi improprie per gli scontri di piazza, un po’ meno per correrci. Alla fine ho chiuso 158° su 11486 e sulla via del ritorno, in una piccola libreria, ho anche trovato una buona versione dell’Eneide a sette euro.
Ho deciso di mettere a piè di pagina le foto impietose che mi ritraggono in prossimità dell’arrivo perché in quei quarantadue chilometri ho alzato ancora una volta la soglia di sopportazione del dolore: ieri la vera prestazione è stata caratteriale, non atletica.

Foto di Romacorre.it
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19
Mar

Archivio onirico: sogno n. 16

Pubblicato giovedì 19 Marzo 2015 alle 17:52 da Francesco

La scorsa notte ho fatto un sogno ricorrente che ha avuto una conclusione diversa rispetto a quella deli casi precedenti. Il cambiamento del finale mi ha lasciato una sensazione positiva e inaspettata. Per la prima volta ho sognato di sopravvivere ad un incidente aereo e non mi sono svegliato di colpo. Purtroppo non rammento i dettagli dell’esperienza onirica e quindi non posso tentare un’interpretazione accurata, ma in quest’occasione mi faccio bastare l’epilogo inedito.
È come se dall’inconscio mi fosse giunta la prova di quella forza alla quale ho fatto cenno a più riprese nell’ultimo periodo: quasi una conferma per l’avvenuta consegna di un nuovo vigore.
Per quanto mi riguarda alcune ambizioni sepolte (di sicura matrice sentimentale) e gli spettri di certi fallimenti hanno la loro rappresentazione onirica nell’aereo che precipita, tuttavia tendo a supporre che tali disagi non abbiano più un grande potere su di me perché alla fine esco illeso dal disastro. Mi domando se io sia troppo benevolo nel giudizio di questo sogno o se invece lo inquadri correttamente; saranno le settimane venture a dirimere la questione e trovo del tutto normale che l’immediato futuro getti luci sulle recenti incrostazioni di un lungo passato.

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