23
Giu

La piuma di un gabbiano

Pubblicato martedì 23 Giugno 2015 alle 07:30 da Francesco

Ieri ho avuto un’idea che probabilmente non apporterà nulla di concreto alla mia esistenza, ma di sicuro ne arricchirà i tratti amorfi e le parti intangibili.
Sulla strada verso casa ho notato un gabbiano che era intento a beccare un uccello più piccolo e ho pensato che taluni non riuscirebbero ugualmente a stare in pace anche se avessero le ali. Qualche ora dopo lo scontro dei volatili mi sono ritrovato a qualche metro dalla costa, in acque un po’ mosse ma comunque cristalline, rigeneranti e tanto amate dal sottoscritto che là si sente come forse si sentì quand’ebbe primo asilo nel liquido amniotico. Ad un tratto un gabbiano si è lanciato a pelo d’acqua e ha perso una piuma di cui mi sono appropriato a poche bracciate di distanza: ho deciso di coglierla appena si è adagiata sulle increspature salmastri e quasi subito ho scambiato l’idea di una coincidenza con un’intuizione simbolica.
Talvolta, per incensarne la meraviglia o per sottolinearne il carattere illusorio, la vita è descritta come se fosse un sogno e allora mi chiedo perché non applicare alla prima le interpretazioni che di solito si riservano al secondo. La penna di quel gabbiano ora è asciutta e si trova davanti a me come se fosse un presagio, o almeno io la connoto in questo modo e chissà che delle altre coincidenze non mi convincano ad escluderle la natura stessa della coincidenza: bei paradossi.
Nella smorfia napoletana uno dei significato della piuma indica un contrasto con le donne e ciò è buffo (a tratti persino inquietante) poiché tale interpretazione ha per me un significato preciso. È passato un po’ di tempo da quando credevo che tutto avvenisse per caso e non escludo che alla fine sia davvero così, ma vivo meglio senza certezze di questo genere.

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12
Giu

Lo stato di coscienza ordinario

Pubblicato venerdì 12 Giugno 2015 alle 09:43 da Francesco

In passato ho rimandato più volte un serio approccio a qualunque forma di meditazione perché non sapevo orientarmici e non avevo le idee chiare sulle mie necessità: sporadici tentativi, a tratti un po’ naif, non mi hanno mai portato oltre un breve sollievo. Per me un avvicinamento razionale alla pratica è un primo e imprescindibile passo da compiere poiché mi ritengo un occidentale a tutti gli effetti e non so procedere altrimenti, tuttavia so bene che degli eventuali sviluppi non possono essere del medesimo tenore e devono perciò snodarsi su un altro piano. Ho quasi terminato la lettura di Stati di coscienza di Charles T. Tart e in una parte del libro, il cui argomento sono gli stati di coscienza alterata, vi è una digressione sulla meditazione che io ho trovato piuttosto istruttiva. Anzitutto ho gradito l’uso esplicativo e pragmatico di espressioni che altrove ho sempre percepito (forse per una mia mancanza) piuttosto astruse; mi riferisco in particolare all’impiego del termine “energia”: ne riporto un esempio affinché le mie parole non finiscano per essere avvolte dalla stessa fumosità verso cui ho appena dichiarato insofferenza. Lo stato di coscienza ordinario è considerato naturale poiché si presta alle esperienze familiari di tutti i giorni, ma per mantenere il proprio regime ha bisogno di energie che lo stabilizzino e queste sono prodotte dalle fonti più disparate, quali i movimenti del corpo, le attività quotidiane e ovviamente il pensiero, col suo continuo rumore di fondo, perciò se le energie anzidette non fossero impiegate allora lo stato di coscienza ordinario potrebbe lasciare il posto ad altri stati di coscienza: secondo me è significativo che a questo proposito Tart citi Don Juan (lo sciamano di Carlos Castaneda) e ricordi com’egli invitasse il suo allievo a rallentare il pensiero.
In realtà non c’è nulla di nuovo sotto il sole poiché in certi ambiti e alle latitudini più disparate la sospensione dell’attività mentale risulta sempre una conditio sine qua non, ma a mio avviso Tart ha il pregio di spiegarla in termini tutt’altro che iniziatici. È su tale attività discorsiva che si staglia una metafora induista che in altri contesti forse non sarei riuscito ad apprezzare in egual misura; mi riferisco all’immagine dello stato di coscienza ordinario come quella di una scimmia ubriaca e dispettosa che vada di albero in albero dietro la spinta dei suoi desideri animaleschi.
Io non ho mai fatto uso di droghe, neanche di quelle di Stato (cioè tabacco e alcolici), però ho sempre compiuto una netta differenza tra l’uso di sostanze psicotrope a scopo ricreativo (che in realtà è analgesico, ma questo punto mi riservo di rimarcarlo nel saggio che sto scrivendo) e un uso atto ad espandere la coscienza (tale è per esempio il ricorso al peyote con l’ausilio di uno sciamano); mi pare che Tart nel suo libro proponga una visione abbastanza simile benché la sua abbia un taglio (eh già, la parola è azzeccata…) più scientifico e si astenga dai giudizi di valore.
Tutti questi concetti non sono mere astrazioni sebbene io non escluda che nascano e poi si sviluppino con l’intento di esserlo, perciò me ne servo come se fossero dei pezzi di ferraglia da impiegare per scopi diversi da quelli per cui sono stati creati; non c’è bisogno che lo scriva e dunque lo scrivo perché non sono i soli bisogni a muovermi: da ciò cerco un riverbero concreto.

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6
Giu

Trentunesimo genetliaco

Pubblicato sabato 6 Giugno 2015 alle 19:45 da Francesco

Ho corso migliaia di chilometri a piedi, ho letto decine di migliaia di pagine e ho vissuto centinaia di migliaia d'ore. Sono nato esattamente quarant'anni dopo lo sbarco di Normandia e, per quanto il mio su questo pianeta sia stato più modesto, oggi mi sento come se anch'io avanzassi attraverso le Ardenne: Berlino cadrà.
La mia forma psicofisica è ottima e in quest'anno, ultimo alfiere dei primi tre lustri del secondo millennio, la sua tenuta è stata sottoposta alle dovute prove. Mi sento più forte di quanto sia mai stato in passato perché nel corso di quest'offensiva trentennale ho guadagnato l'appoggio di un'alleata preziosa: l'esperienza. Ho trascorso alcuni anni trincerato in me stesso, altri invece in prima linea dove mi sono confrontato su più fronti e, anche se io a casa non ho mai avuto nessuno a cui scrivere col piglio di Ungaretti, forse non mi sono mai sentito vivo come in questo periodo. Abile attendista per definizone, che il tempo si faccia avanti se ha coraggio.
Ho fatto arretrare molti limiti, ho colmato svariate lacune e anche se qualche battaglia è stata persa molti conflitti sono stati superati. Si vis pacem para bellum. A tale proposito mi vengono in mente le parole di una donna che stimo molto: "La lotta dello spirito è brutale come la guerra tra gli uomini". Potrei morire stanotte nel sonno o campare altri settant'anni e divenire così un simpatico centenario, ma ambisco ad altro che esula dal tempo e dai suoi rapporti quantitativi.
Sono sulla mia via e anche se trovo ogni senso in me stesso spero che il resto del cammino sia condiviso nella misura in cui ogni misura viene meno. C'è ancora molto da fare, ma che sia fatto o no forse non ha l'importanza che vi si può attribuire come quando sembra che l'abbia nelle più convincenti stronzate con cui la mia civiltà paga il suo stato di relativa quiete.
Il vecchio Frank è ancora sulla breccia, sconosciuto a tutti meno che a sé. Happy birthday to me.

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3
Giu

Sinergie

Pubblicato mercoledì 3 Giugno 2015 alle 13:46 da Francesco

Quella in calce è la mia tetrade corrente. Titoli enfatici, ma testi equilibrati tra cui sussistono dei punti di contatto. Ho la sensazione che un giorno tutte queste nozioni diventeranno obsolete come la fisica aristotelica e la medicina di Paracelso, perciò ne cerco un approccio che non sia solo intellettuale e difatti le mie esigenze non sono di quell’ordine.
Equidistante dal positivismo e dalla metafisica, io (parola grossa scritta in minuscolo) non posso che interessarmi ai loro tentativi di conciliazione.
Se volessi potrei liquidare tutto come un modo per darmi un tono, una ricerca d’evasione da questioni pragmatiche, una banale e ingenua fascinazione per certi temi od ogni altro tipo di resistenza dalle sembianze di faceto biasimo: per quanto vituperata, la realtà resta un’altra, in senso lato. In quest’ambito per me non c’è nulla di cui discutere perché ne traccio i confini nel soliloquio e nell’introspezione, ma approfitto della circostanza per inviare segnali flebili verso ricezioni improbabili. Frappongo ostacoli da superare.

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1
Giu

Logos ed Eros (accordo dei contrari)

Pubblicato lunedì 1 Giugno 2015 alle 04:06 da Francesco

Ho trovato piuttosto interessante un frammento della seconda appendice del Libro Rosso di Jung che si situa alla fine del volume. In quelle paginette conclusive sono prese di nuovo in esame le figure di Elia e Salomè, ovvero un vecchio e saggio padre, il quale rappresenta il Logos, e la di lui figlia che svolge la stessa procura per l'Eros.
Per come sono presentati, e con qualche spontanea forzatura, paragono quei due princìpi allo spirito apollineo e allo spirito dionisiaco di Nietzsche, ma in entrambi i casi riconosco come l'uno non sia posto in antitesi all'altro. Col medesimo grado d'approssimazione avrei potuto riferirmi ai due elementi del Tao e così via, in un dotto saccheggio di schemi analoghi dopo il quale, di fatto, non mi sarebbe rimasto nulla: che beffa. A proposito: ovunque io mi volga mi sembra che il dualismo sia sempre stato apparente, a uso e consumo delle morali regolatrici, per il bastone e la carota, per fare sì che gli inferi si stagliassero (bene e male) sul paradiso o viceversa.
Non ho fatto questa premessa per lanciarmi nell'ermeneutica del Libro Rosso o per azzardare una retrospettiva sul simbolismo della mia giovane specie: ho le spalle abbastanza larghe per sollevare un bilanciere, ma non per sobbarcarmi il peso di quelle impalcature filosofiche.
Oltre a vani tentativi di sagacia è opportuno che io giunga al punto, ammesso che da questo si possa poi tracciare alcunché. Certuni hanno imputato la mia verginità (fisica ed emotiva) ad un ricorso eccessivo della ragione, ma in tali occasioni costoro hanno commesso l'errore di credere che il Logos si opponga all'Eros; anche se non sono cristiano (e almeno per questi scampoli di primavera e l'estate imminente non lo diventerò), voglio parafrasare il Nazzareno: "Padre (o chi per lui) perdonali perché non sanno quel che fanno". Anzi, nessuna grazia e non sanno, punto.
La capacità di discernimento per me non si oppone ai moti del cuore, ma quando l'una si trova in sintonia coi secondi fa in modo che questi si esprimano con la massima autenticità, nella piena eleganza della loro consapevolezza e non per la furia cieca d'una passione che talora è viziata dal timore della solitudine: nel mio immaginario la differenza è la stessa che intercorre tra un cavallo imbizzarrito e uno che galoppa libero lungo praterie incontaminate, a mezzodì (nella fiera giovinezza) o alle ultimi luci dell'occaso (quando la vita si accorcia, come se prima la morte non le fosse stata sempre accanto…).
La mia facile teoria è la seguente: la puerile contrapposizione di Logos ed Eros è utilizzata da taluni per giustificare i propri passi falsi e soprattutto la consapevolezza con cui furono mossi; è troppo facile incolpare la cosiddetta "passione" ed è questo, sì, invece un trucco nel quale io ravviso un impiego davvero volgare dell'intelletto. Cerco di ragionare con il cervello in quanto è l'organo deputato a tale compito, perciò non mi occupo di chi delega il cazzo o altri genitali (e quanti sono mai?). Non posso intavolare alcun dialogo con chi non veda al di là del proprio prepuzio od oltre i propri estrogeni: errore di ambo i sessi a cui non mi presto.
Mi occupo anche di contraddizioni del genere nel saggio che sto scrivendo a intervalli quantomai irregolari, ma non so quando o se quest'ultimo vedrà mai la luce e d'altronde non me ne frega nulla, proprio come a chiunque altro: ecco un esempio di silente unanimità.

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26
Mag

Gestalt

Pubblicato martedì 26 Maggio 2015 alle 08:12 da Francesco

Tempo fa la psicologia della Gestalt e il suo approccio olistico nell'analisi della realtà mi hanno fornito lo stimolo per approfondirne le speculazioni. A tale riguardo ho letto un libro di Gaetano Kanizsa, "Grammatica del vedere", e la parte che più ha suscitato il mio interesse è stata la spiegazione della differenza tra vedere qualche cosa e pensarla.
Di primo acchito una simile precisazione può sembrare scontata, pleonastica e tautologica, ma secondo me offre più di qualche spunto e trovo una prima conferma di quest'idea nella difficoltà d'operare una distinzione abbastanza netta tra le due attività in esame. Qualcuno per ovviare a questo problema ha proposto di ritenere pensiero e percezione due fasi dello stesso processo, ma secondo me Kanizsa ha giustamente liquidato tale espediente come una scotomizzazione.
Quando l'occhio incontra una parola a cui mancano una o più lettere questa viene comunque letta come se fosse stata scritta correttamente, di conseguenza da un esempio così classico si evince quanto il cervello vada al di là dell'informazione fornita e personalmente trovo questo punto già sufficiente per sposare la prospettiva gestaltista. Un altro argomento a favore di tale posizione fa leva sui cosiddetti criteri di completezza che agiscono in modi diversi sul pensiero e sulla percezione: con una breve ricerca sul web è possibile raccogliere numerose immagini tramite cui capire come, ad esempio, la simmetria sia una discriminante preminente nel pensiero e risulti secondaria nel campo delle percezioni, dove invece la convessità e la continuità di direzione assumono un'importanza maggiore. Dell'ulteriore acqua al mulino di Kanizsa è portata dagli innumerevoli fenomeni di completamento amodale, ovvero quei casi in cui ciò che viene visto non ha una corrispondenza fenomenica, ma questa è resa a livello cognitivo: insomma, di ciò che manca si occupa l'intuito. Se volessi approfittare dell'occasione per essere semplicista e categorico potrei affermare che non occorre la psicologia della Gestalt per sapere che niente è come sembra, però la questione è un'altra e pone l'accento su come la realtà oggettiva venga mediata nel soggetto da fattori di vario genere che gli sono intrinsechi, non ultimi quelli emotivi.
A mio modesto avviso in alcune trattazioni la straordinarietà non risiede nelle teorie proposte o nei grandi impianti speculativi che le sostengono, ma nella capacità di comprendere davvero cosa implichino e come si ripercuotano nella vita d'ogni giorno.

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23
Mag

Spostamento verso il rosso (redshift)

Pubblicato sabato 23 Maggio 2015 alle 09:15 da Francesco

Un tempo le pareti della mia stanza tacevano e arrossivano a causa della timidezza, ma poi il loro colore si è fatto sempre più intenso grazie allo spirito di emulazione per le supergiganti da almeno dieci masse solari: il silenzio invece è rimasto sempre uguale, cosmico anch'esso, ed è solo il mio modo di percepirlo che è mutato nel corso delle sfumature anzidette.
Talvolta le mie carni si fanno nottivaghe e s'illuminano (in realtà vengono illuminate) dalle luci arancioni che fin dal tardo pomeriggio reclamano uno spazio nell'oscurità, come chiunque altro dai suoi primi vagiti e da tutto il resto che poi da lui (e in lui) albeggia irrimediabilmente.
Mi sottopongo a qualsiasi grado di giudizio, nelle sedi opportune, in quelle che sono già andate a fuoco e dove un principio d'incendio è quantomeno possibile. In certi momenti vivo come se la realtà circostante fosse fatta di cartongesso e mi lascio cullare dall'idea della fine (che fine non è, né l'idea né la fine in sé) o forse sono io che l'accarezzo poiché mi è ancora possibile farlo.
In me pulsano intuizioni fortissime. Ho anche slanci di spensieratezza che ridimensionano tutto l'apparente sussiego di cui mi rendo colpevole, ma sono anche innocente fino a prova contraria, ovvero quella per cui ogni cosa ricade nel suo opposto: enantiodromia.
Azioni, parole, esperienze o un immobilismo incompiuto, che rasenti lo stato vegetativo e lasci sfogare i bambini (il proprio puer), non come i muscoli striati che sono strigliati dalla volontà: a ciò riduco l'esistenza e non mi pare poco. Già da stamane col rosso di sera…

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17
Mag

Consonanza

Pubblicato domenica 17 Maggio 2015 alle 23:34 da Francesco

Ho cenato con dei baldi giovani che in altri tempi sarebbero stati devoti a Dioniso, ma in quanto astemio non ne ho condiviso l'ebbrezza. Alla stessa tavola, dove ho mangiato tre ottimi primi piatti per evitare carne e pesce, mi sono ritrovato a parlare con la compagna d'un commensale.
Non immaginavo che costei avesse un tale insight e per un certo arco di tempo ci siamo isolati in una discussione molto interessante: è come se lo scontro delle nostre parole avesse innescato una tempesta cosmica. Noi parlavamo di archetipi e solitudini maestre mentre il rumore di fondo andava componendosi di dibattiti calcistici, battutine da caserma e bestemmie forzate.
Lei conosce la mia visione del mondo e, senza alcuna malizia, ma con quella che io ho percepito come sincera stima, mi ha volto un plauso per i miei intenti poiché vi ha rivisto i suoi.
La sua approvazione non ha avuto presa sulla mia vanità e l'ho considerata più un dato di fatto o un segno di riconoscimento che altro. D'altronde se si fosse trattato d'un mero complimento per me sarebbe stato insignificante: niente di più e niente di meno di un'osservazione analoga che mi si possa rivolgere quando ho i bicipiti in ipertrofia o gli addominali definiti.
Ad un certo punto quest'ottima interlocutrice mi ha detto che per la prima volta era riuscita a farsi capire da qualcuno su un determinato argomento e subito dopo (o forse prima, ma cosa può mai contare l'apparente linearità del tempo?) con un cenno alla filosofia tedesca ho inviato Nietzsche al nostro tavolo; "Quando guardi a lungo nell'abisso, l'abisso ti guarda dentro".
Per me quella non è una semplice citazione con cui darsi un tono né tanto meno un aforisma con il quale riempirsi la bocca in mancanza di meglio, bensì costituisce una realtà, un'esperienza diretta, perlomeno nell'interpretazione che io ne azzardo.
Volgersi verso l'abisso per me significa guardare dentro di sé, correr l'alea dell'introspezione, in quanto guardarsi dentro può rendere ciechi (per parafrasare il titolo di un bel saggio).
L'abisso che guarda di rimando non è altro che la propria immagine riflessa e il pericolo è quello di non riconoscercisi fino al punto di perderci il senno, perciò chiunque scelga o si ritrovi su una certa via è chiamato all'improba fatica di scoprire quanto più può chi davvero egli sia.
A parte questa lodevole e opportuna digressione, il mio dialogo con la banchettante di cui sopra s'è poi snodato in ulteriori vicoli ciechi (poiché questioni d'un certo ordine sono insolubili), e vi ho trovato un'intesa rara a cui non è seguita alcuna forma d'attrazione benché si tratti senz'ombra di dubbio d'una donna avvenente: nulla è scattato in me perché lei è occupata e io non sono affascinato né platonicamente né fisicamente da chi già costituisce la metà di qualcun altro.
Ancora una volta gli dèi si prendono gioco di me ed è per questo motivo che io voglio arrivare quanto più vicino possibile alle porte dell'Olimpo, così da avere l'occasione di incontrare in quei dintorni un'incarnazione della Venere Callpigia. Se mai qualcuno dovesse starmi accanto io le riconoscerò una natura semidivina poiché tutte le mie lotte interiori così la incoroneranno, e di un'origine talmente ibrida saprò vivere tutto. Intanto la battaglia si annuncia ancora lunga.

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13
Mag

Archivio onirico: sogno n. 21

Pubblicato mercoledì 13 Maggio 2015 alle 17:12 da Francesco

Forse negli ultimi giorni non mi sono esposto alle influenze giuste o forse certe volte, malgrado tutti gli sforzi per condizionarlo, l'inconscio non trova altre maniere che le cattive per veicolare i suoi contenuti. Il sogno di questa notte è stato inquietante nella forma e triste nella sostanza, ma l'oracolo si è espresso e a me non resta che prendere atto dei suoi annunci.

Mi ritrovo in una classe universitaria che siede all'aperto: i banchi e la cattedra sono sistemati vicino alla curva di una strada dove in quest'ultimo periodo passeggio spesso. Provo un po' di angoscia perché non sono uno studente e temo che la professoressa possa scoprirmi. Accanto a me siede un mio stretto conoscente, noto casinista: d'un tratto egli si alza e va a disegnare un volto su una parete rocciosa che funge da lavagna. La docente rimprovera il suo allievo indisciplinato ed entrambi iniziano a discutere con veemenza, però non capisco cosa si dicano.
I due sono ancora intenti a parlare quando io mi vedo dentro il prototipo di un nuovo treno che è diretto a Madrid: accanto a me siede una ragazza che non conosco e il cui fascino tuttavia mi pare familiare da tempo immemore. Il desiderio divampa.
Inizio a parlare con la mia vicina e dopo una lunga chiacchierata lei mi dice: "Il mio posto è qua". All'improvviso un responsabile del mezzo inizia a inveire contro un suo collega e a bordo scatta il panico perché un dispositivo del locomotore è fuori controllo: il viaggio di collaudo si appresta al disastro. Dopo poco il treno deraglia e si capovolge più volte. Vedo qualcuno che esce illeso dall'incidente e corre lungo una banchina (evidentemente tutto è avvenuto a… destinazione), perciò immagino che mi sia messo in salvo, ma quando guardo in faccia chi fugge mi accorgo che non sono io quello che l'ha scampata e allora capisco di essere morto. Mi risveglio di colpo.

Il contenuto di questo sogno funesto attiene non già all'amore, bensì a quanto può precederlo, ovvero quell'intima conoscenza tra individui che nelle sue massime espressioni sa scavalcare muri invalicabili e persino coloro che con pazienza certosina ne sistemano ogni mattone.
L'ambiente universitario chiama in causa una persona precisa che intuizioni tanto intraducibili quanto attendibili mi fanno ritenere molto affine a me, quasi che in una vita passata ci fossimo dati appuntamento in questa.
La mia paura di essere scoperto dalla professoressa come infiltrato simboleggia il contrasto che v'è sempre stato tra me e gli ambienti preposti all'insegnamento: è la mia totale repulsione per simili contesti. Il completo disinteresse per le dispute di quei mondi è rappresentato dalla piena noncuranza con cui sfuma la scena dell'alterco tra il mio conoscente e l'insegnante.
La ragazza che trovo in viaggio è come se fosse una vecchia conoscenza benché di fatto ne sappia poco. Il nuovo prototipo del treno indica modi inediti di rapportarmi alla mia vicina, figli di una evoluzione personale e dell'assestamento di alcune convinzioni che solo da poco hanno trovato in me la loro piena quadratura, tuttavia il disastro che ne segue conferma come ogni tentativo vecchio o nuovo sia destinato a fallire miseramente: o forse no.
"Il mio posto è qua", mi dice costei prima del disastro: ovvero ovunque meno che accanto a me perché io non resterò là. L'incidente avviene dentro la stazione in quanto ognuno volente o nolente raggiungerà la propria meta, cioè la morte, tuttavia è la maniera in cui ciascuno vi arriverà che farà la vera differenza. Quest'ultimo punto secondo me è anche un monito che l'inconscio mi volge affinché io continui a trovare ogni senso dentro di me, come se di fatto fossi già morto, ma per ragioni di sopravvivenza emotiva e non per partito preso: ciò si accorda con le immagini finali di questo episodio onirico.
Mi devo guardare da un possibile errore in d'interpretazione, difatti se mi piegassi alle lusinghe delle difese regressive finirei per credere che il mio compito sia quello di chiudermi in me stesso e userei tali spunti per avallare una condotta autodistruttiva, ma in realtà devo fare l'esatto opposto, in tempi e modi che siano in accordo con la parte più autentica di me e con il corso degli eventi. Il cuore deve restare aperto, spalancato, anche se alla fine, oltre la sua soglia, non restasse altro che una città fantasma, forse mai fondata.

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11
Mag

All’insù

Pubblicato lunedì 11 Maggio 2015 alle 05:43 da Francesco

Ero in procinto di sostenere un aspetto della Gestalt a discapito del comportamentismo, ma poi ho lasciato perdere: ne avrei scritto qualcosa solo se fossi riuscito a iniziarne la stesura con la ferma intenzione di eliminarne tutte le parole, compresa l'ultima. L'arte di disfare e il gusto dello sfacelo non mi appartengono, ma ora non ho la benché minima voglia di sterili speculazioni sulla profonda diversità che vige fra due verbi di abuso comune: vedere e pensare.
Ho bisogno di esperienze mistiche e non di frasi, neanche di quelle che compongono le formule magiche. La realtà mi va un po' stretta o viceversa, ma ho ancora spazio e modo per trovarne la giusta misura. Scrivo a caso, però manco troppo: lo faccio per gioco e lenimento. Se fossi Joyce non mi troverei qua, ma in una tomba di Zurigo. A me non interessa il flusso di coscienza, bensì che quest'ultima resti in castigo il tempo necessario affinché le sue silenti compagne ricevano udienza. Per qualcuno i grandi insegnamenti vanno bene solo quando tutto va bene, come se le cause dovessero fare pendant con gli effetti: d'altronde le mode vanno e vengono proprio come le vite umane. Le differenze sostanziali si facciano carico delle loro presentazioni o periscano: io sono assicurato contro la vaghezza. Litighiamo, amiamoci, creiamo nuovi mondi o estinguiamo quello che diamo per scontato. Ectopirosi, once again.
All'aquila invidio il volo, l'apertura alare e soprattutto il suo dono, come per mano di Castaneda. Non mi sono mai stati concessi dei sogni lucidi, ma un tempo ne possedevo degli altri che invece non si sono mai concessi alla realtà: quasi proibiti i primi, altezzosi i secondi.
Abbraccio lo schienale d'una sedia su cui non si metterà mai nessuno: anche le assenze hanno i loro posti riservati e tali rimarranno (riservati). L'alba, un giorno nuovo e l'ottimismo che non stride con la realtà dei fatti: tanto può il riposo, la fiducia in sé stessi e chissà quante altre cose di cui non mi avvedo. Con il naso all'insù guardo per un momento quello che c'è.

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