Pubblicato giovedì 23 Luglio 2015 alle 03:26 da
Francesco
Non conosco più la noia da quando all’inizio della post-adolescenza la solitudine mi introdusse nell’età della ragione, ma gli ultimi sette giorni per me sono stati più intensi del solito.
Annoto tutto insieme poiché voglio assentarmi ancora di più da queste pagine per ritornarci a tempo debito con una nuova verve. Comincio dal fatto meno rilevante, ovvero l’inizio della lettura dei seminari di Carl Gustav Jung (oltre milleseicento pagine) su Così parlò Zarathustra di Nietzsche (su per giù quattrocento pagine nell’edizione Adelphi che lessi anni or sono e che mi accingo a rileggere per l’occasione). Si tratta di un lungo viaggio che ho rimandato più volte e di cui ora sto facendo il primo passo poiché le circostanze mi invitano a farlo. Ho persino ripreso in mano una penna e dunque mi sono fatto amanuense per annotare di mio pugno quello che reputo interessante, difatti per un’opera così complessa le sottolineature a lapis e i segnalibri adesivi mi sembrano insufficienti. Non mi cimento in un’avventura del genere come se fossi uno studente universitario o come se volessi aggiungere degli altri volumi nella mia biblioteca, bensì il mio approccio è quello di un individuo che vuole raggiungere con tutto se stesso quelle vette pericolose e tale brividio è già favorito dalle nature complementari dei due testi. Se mi andasse d’indugiare nel citazionismo allora chiamerei in causa Manlio Sgalambro e la sua idea di epigono per spiegare meglio le mie intenzioni, ma già con questo accenno mi sono spinto troppa in là.
Nella mia casa è arrivato un nuovo felino, ma devo ancora capire se con lui mi troverò bene o se il nostro rapporto sarà caratterizzato da una certa indifferenza. Io non idealizzo gli animali e mi ci rapporto come se fossero delle persone, perciò è perfettamente nell’ordine delle cose che con qualcuno di essi sia in perfetta sintonia e con qualcun altro invece non abbia intesa alcuna.
Ogni animale (uomo compreso) ha la sua indole, ma ci vuole del tempo prima che questa mostri gran parte di sé e dunque attendo fiducioso. C’è comunque una tenerezza nei primi vagiti della vita che suscita in me un’empatia mai banale, come se ogni volta si rinnovasse senza farsene accorgere, ma la magia dell’infanzia ha una data di scadenza, così come la vita stessa.
Aggiungo il breve resoconto dei quattro giorni che ho trascorso on the road.
Sabato mattina sono sceso dal letto con uno dei due piedi, non so se fosse quello giusto o quello sbagliato, e ho deciso di partire. In me s’era fatta strada (eh già, proprio così) una forte voglia di guidare e poiché non avevo impegni da rispettare né gioie da condividere ho preso la mia auto e mi sono diretto verso nord. Ho raggiunto il traforo del Monte Bianco e per un po’ ho transitato in Francia, ma l’aria di montagna non ha mai fatto per me e così ho attraversato tutta la pianura padana per puntare di nuovo verso sud. Ho percorso tremiladuecento chilometri in quattro giorni: è stato un viaggio nel vero senso della parola… Per tre notti ho dormito in auto nelle piazzole autostradali e una notte l’ho trascorsa in una stanza a Benevento: a proposito, è davvero adorabile questa cittadina campana e spero davvero di tornarci; se solo fosse stata sul mare me ne sarei innamorato senza riserve! Mi sono spinto fino a Matera attraversando Puglia e Molise (i miei itinerari non sono stati ottimizzati dal navigatore, bensì sollecitati dall’istinto) e mi sono goduto una splendida mezza giornata tra i meravigliosi sassi della cittadina lucana.
Mi ha fatto bene questa piccola pazzia e per quanto gravosi (il caldo, le poche ore di sonno, le scomodità e la fatica di tutte le ore al volante) questi giorni mi hanno lasciato qualcosa di utile.
Per festeggiare il mio rientro a casa sono riuscito a farmi crollare addosso la porta scorrevole in vetro della doccia e così ho fatto un salto al Pronto Soccorso dove ho ricevuto un codice verde per il mio sangue rosso. Mi sono stati dati dei punti sull’indice sinistro e un’altra medicazione sul gomito destro, ma nulla di grave e ne avrò per una settimana: ne consegue che non potrò farmi le seghe né esercitarmi a suonare Layla sulla chitarra elettrica.
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Pubblicato giovedì 16 Luglio 2015 alle 22:28 da
Francesco
In quest’estate torrida il Medio Oriente è infuocato come in tutte le altre stagioni e altrove la culla dell’Occidente intona il canto del cigno, ma purtroppo i conflitti bellici e le crisi economiche non risentono delle parole che ne descrivono la crudeltà; il mio cuore invece è ancora terra di nessuno, una colonia mancata, la perfetta enclave di una vicinissima lontananza.
Nel tempo libero mi faccio salmastro, leggo, scrivo e raccatto nozioni che poi stivo in zone più o meno accessibili della memoria. Preparo pasti deliziosi che consumo al cospetto della mia ombra e talora mi reco a mangiare da solo in qualsiasi luogo che mi permetta di avere un’ampia scelta benché io vi escluda la carne. Ogni tanto m’intrattengo con esponenti dell’Arma dei Carabinieri che puntualmente mi fermano per chiedermi ragguagli sulla mia identità, ma quest’ultima è più di quanto possano attestare i miei vacui documenti o forse è meno di ciò che questi riportano. Insomma, per me non c’è molto di nuovo sotto il sole cocente di luglio, ma ho ragione di credere che anche ai primi abbassamenti delle temperature sulla mia vita non si alzerà niente d’inedito. Queste mie parole possono sembrare il misurato lamento di un individuo solo, ma non è questo il loro scopo perché io ho imparato a vivere bene una certa linearità: temo invece i cambiamenti forzati che sono posti in essere dietro ordine di sua volgare maestà l’impazienza.
Di sicuro anche per me verrà il tempo d’importanti mutamenti, ma non faccio oggetto di vaticinio la loro entità e i modi in cui si manifesteranno. Ormai il più nero dei miei autunni è alle spalle e ho ritrovato da un po’ di tempo uno stato di quiete che in passato ho già esperito più volte, ma anche lo stesso docile vuoto ha rifatto la sua timida comparsa e ora tutto mi è tornato familiare. Non è importante che i cambiamenti si abbattano su di me come una pioggia salvifica dopo un lungo periodo di siccità, ma è bene che io sia aperto alla loro eventuale venuta e, a meno che la vista interiore non m’inganni, le porte del mio Io sono spalancate come se fossero quelle di una chiesa abbandonata. Voglio concludere con delle parole di Juri Camisasca che sento mie.
“Lungo la strada ricordo i miei anni in penombra
i tumulti lontani non hanno più presa
non ho più pretese, va avanti da sé
il mio rapporto con gli eventi”
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Pubblicato mercoledì 8 Luglio 2015 alle 02:05 da
Francesco
Ho trascorso la notte del tre luglio a contemplare la volta celeste attraverso il lungo occhio del mio modesto telescopio e, in modo molto tutt’altro che elegante, sono riuscito a fotografare la pallida compagna della Terra.
Sono affezionato a questo primo scatto benché non sia niente di speciale. Le mie osservazioni si concentrano ancora sui pianeti in quanto mi è facile rinnovare lo stupore che questi mi trasmettono e dunque sacrifico l’aspetto didattico delle mie sessioni per qualche emozione notturna, però a tempo debito poserò di più lo sguardo su zone meno celebri del firmamento.
A tu per tu con l’unico satellite terrestre mi è venuta in mente una vecchia canzone di Claudio Rocchi, La tua prima luna: un pezzo di appena… quarantacinque anni fa. In realtà quella a cui si riferisce Rocchi la vidi ancor prima che pensassi di soffermarmici, ma alla fine è sempre la stessa e per me cambia soltanto la maniera di guardarla (o forse il modo di osservarmi).
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Pubblicato mercoledì 1 Luglio 2015 alle 20:17 da
Francesco
Sulla scorta di una lettura recente mi sono trovato a riflettere sull'eventualità che un giorno la coscienza possa essere tutta determinata come mera attività cerebrale, ma paradossalmente un'ipotesi così fisicalistica è al momento tanto metafisica quanto quelle a cui indirettamente si oppone. Il riduzionismo meccanicista fa storcere il naso ai miei aneliti più profondi, ma se fosse davvero alla base di tutto non potrei che prenderne atto; d'altro canto una simile accettazione renderebbe la tristezza meno dolorosa poiché inevitabile, non più gravata dalla responsabilità del libero arbitrio. Qualora si verificasse un tale scenario mi chiedo a quale grado assurgerebbe una siffatta attività compensatoria, non soltanto nel ridimensionamento delle emozioni negative (ancorché talora queste risultino formative), ma soprattutto in rapporto a quelle positive; forse ne risulterebbe un appiattimento sempre maggiore, proporzionato al livello di consapevolezza dell'ipotesi suddetta, fino al punto di un annullamento pressoché totale della polarità? Fino alla scomparsa d'ogni dicotomia? E così che fine farebbero i rapidi e impercettibili movimenti del Tao? Questa mia congettura conclusiva mi ricorda il concetto del nirvana buddhista e se vi trovasse risonanza allora per taluni (me compreso) potrebbe rivelarsi persino auspicabile.
Mi domando se il solo bisogno di aspirare ad una libertà superiore non testimoni già l'esistenza di quest'ultima su dei piani altrettanto elevati. Come può essere meccanico qualcosa che sia in grado di aspirare a ciò che per i limiti della sua natura non dovrebbe riuscire manco a concepire? Ai miei occhi, e non escludo che io pecchi di semplicismo (o ne tragga vantaggio), è come se i componenti di un circuito elettrico cessassero le proprie funzioni per interessarsi all'ontologia; diodi, resistenze e condensatori intenti a chiedersi quale sia il loro ruolo, il loro scopo, la ragione ultima della loro presenza in uno schema così limitato…
Un individuo come me è interessato alla verità, qualunque essa sia, però io in quale misura mi distinguo da qualcun altro per la disponibilità d'accoglierla a dispetto dei miei legittimi desideri? Si tratta soltanto di connessioni neurali sulle quali hanno agito un imprinting di un certo tipo e determinate influenze dell'ambiente in cui sono cresciuto? Tutto si riduce ad una commistione di processi fisiologici e culturali? Non sono un apologeta in alcuna accezione del termine, inoltre mi professo ateo per ragioni di cui non digredisco affinché questo breve appunto non ne risenta, ma è proprio l'autenticità che tento d'imprimere alla mia ricerca interiore (quindi il metodo qui è prioritario al fine stesso, com'è giusto che sia) ad impedirmi una posizione netta. Di sicuro io ho solo delle intuzioni, ma i contenuti di queste non sono altrettanto certi.
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Pubblicato martedì 23 Giugno 2015 alle 07:30 da
Francesco
Ieri ho avuto un’idea che probabilmente non apporterà nulla di concreto alla mia esistenza, ma di sicuro ne arricchirà i tratti amorfi e le parti intangibili.
Sulla strada verso casa ho notato un gabbiano che era intento a beccare un uccello più piccolo e ho pensato che taluni non riuscirebbero ugualmente a stare in pace anche se avessero le ali. Qualche ora dopo lo scontro dei volatili mi sono ritrovato a qualche metro dalla costa, in acque un po’ mosse ma comunque cristalline, rigeneranti e tanto amate dal sottoscritto che là si sente come forse si sentì quand’ebbe primo asilo nel liquido amniotico. Ad un tratto un gabbiano si è lanciato a pelo d’acqua e ha perso una piuma di cui mi sono appropriato a poche bracciate di distanza: ho deciso di coglierla appena si è adagiata sulle increspature salmastri e quasi subito ho scambiato l’idea di una coincidenza con un’intuizione simbolica.
Talvolta, per incensarne la meraviglia o per sottolinearne il carattere illusorio, la vita è descritta come se fosse un sogno e allora mi chiedo perché non applicare alla prima le interpretazioni che di solito si riservano al secondo. La penna di quel gabbiano ora è asciutta e si trova davanti a me come se fosse un presagio, o almeno io la connoto in questo modo e chissà che delle altre coincidenze non mi convincano ad escluderle la natura stessa della coincidenza: bei paradossi.
Nella smorfia napoletana uno dei significato della piuma indica un contrasto con le donne e ciò è buffo (a tratti persino inquietante) poiché tale interpretazione ha per me un significato preciso. È passato un po’ di tempo da quando credevo che tutto avvenisse per caso e non escludo che alla fine sia davvero così, ma vivo meglio senza certezze di questo genere.
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Pubblicato venerdì 12 Giugno 2015 alle 09:43 da
Francesco
In passato ho rimandato più volte un serio approccio a qualunque forma di meditazione perché non sapevo orientarmici e non avevo le idee chiare sulle mie necessità: sporadici tentativi, a tratti un po’ naif, non mi hanno mai portato oltre un breve sollievo. Per me un avvicinamento razionale alla pratica è un primo e imprescindibile passo da compiere poiché mi ritengo un occidentale a tutti gli effetti e non so procedere altrimenti, tuttavia so bene che degli eventuali sviluppi non possono essere del medesimo tenore e devono perciò snodarsi su un altro piano. Ho quasi terminato la lettura di Stati di coscienza di Charles T. Tart e in una parte del libro, il cui argomento sono gli stati di coscienza alterata, vi è una digressione sulla meditazione che io ho trovato piuttosto istruttiva. Anzitutto ho gradito l’uso esplicativo e pragmatico di espressioni che altrove ho sempre percepito (forse per una mia mancanza) piuttosto astruse; mi riferisco in particolare all’impiego del termine “energia”: ne riporto un esempio affinché le mie parole non finiscano per essere avvolte dalla stessa fumosità verso cui ho appena dichiarato insofferenza. Lo stato di coscienza ordinario è considerato naturale poiché si presta alle esperienze familiari di tutti i giorni, ma per mantenere il proprio regime ha bisogno di energie che lo stabilizzino e queste sono prodotte dalle fonti più disparate, quali i movimenti del corpo, le attività quotidiane e ovviamente il pensiero, col suo continuo rumore di fondo, perciò se le energie anzidette non fossero impiegate allora lo stato di coscienza ordinario potrebbe lasciare il posto ad altri stati di coscienza: secondo me è significativo che a questo proposito Tart citi Don Juan (lo sciamano di Carlos Castaneda) e ricordi com’egli invitasse il suo allievo a rallentare il pensiero.
In realtà non c’è nulla di nuovo sotto il sole poiché in certi ambiti e alle latitudini più disparate la sospensione dell’attività mentale risulta sempre una conditio sine qua non, ma a mio avviso Tart ha il pregio di spiegarla in termini tutt’altro che iniziatici. È su tale attività discorsiva che si staglia una metafora induista che in altri contesti forse non sarei riuscito ad apprezzare in egual misura; mi riferisco all’immagine dello stato di coscienza ordinario come quella di una scimmia ubriaca e dispettosa che vada di albero in albero dietro la spinta dei suoi desideri animaleschi.
Io non ho mai fatto uso di droghe, neanche di quelle di Stato (cioè tabacco e alcolici), però ho sempre compiuto una netta differenza tra l’uso di sostanze psicotrope a scopo ricreativo (che in realtà è analgesico, ma questo punto mi riservo di rimarcarlo nel saggio che sto scrivendo) e un uso atto ad espandere la coscienza (tale è per esempio il ricorso al peyote con l’ausilio di uno sciamano); mi pare che Tart nel suo libro proponga una visione abbastanza simile benché la sua abbia un taglio (eh già, la parola è azzeccata…) più scientifico e si astenga dai giudizi di valore.
Tutti questi concetti non sono mere astrazioni sebbene io non escluda che nascano e poi si sviluppino con l’intento di esserlo, perciò me ne servo come se fossero dei pezzi di ferraglia da impiegare per scopi diversi da quelli per cui sono stati creati; non c’è bisogno che lo scriva e dunque lo scrivo perché non sono i soli bisogni a muovermi: da ciò cerco un riverbero concreto.
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Pubblicato sabato 6 Giugno 2015 alle 19:45 da
Francesco
Ho corso migliaia di chilometri a piedi, ho letto decine di migliaia di pagine e ho vissuto centinaia di migliaia d'ore. Sono nato esattamente quarant'anni dopo lo sbarco di Normandia e, per quanto il mio su questo pianeta sia stato più modesto, oggi mi sento come se anch'io avanzassi attraverso le Ardenne: Berlino cadrà.
La mia forma psicofisica è ottima e in quest'anno, ultimo alfiere dei primi tre lustri del secondo millennio, la sua tenuta è stata sottoposta alle dovute prove. Mi sento più forte di quanto sia mai stato in passato perché nel corso di quest'offensiva trentennale ho guadagnato l'appoggio di un'alleata preziosa: l'esperienza. Ho trascorso alcuni anni trincerato in me stesso, altri invece in prima linea dove mi sono confrontato su più fronti e, anche se io a casa non ho mai avuto nessuno a cui scrivere col piglio di Ungaretti, forse non mi sono mai sentito vivo come in questo periodo. Abile attendista per definizone, che il tempo si faccia avanti se ha coraggio.
Ho fatto arretrare molti limiti, ho colmato svariate lacune e anche se qualche battaglia è stata persa molti conflitti sono stati superati. Si vis pacem para bellum. A tale proposito mi vengono in mente le parole di una donna che stimo molto: "La lotta dello spirito è brutale come la guerra tra gli uomini". Potrei morire stanotte nel sonno o campare altri settant'anni e divenire così un simpatico centenario, ma ambisco ad altro che esula dal tempo e dai suoi rapporti quantitativi.
Sono sulla mia via e anche se trovo ogni senso in me stesso spero che il resto del cammino sia condiviso nella misura in cui ogni misura viene meno. C'è ancora molto da fare, ma che sia fatto o no forse non ha l'importanza che vi si può attribuire come quando sembra che l'abbia nelle più convincenti stronzate con cui la mia civiltà paga il suo stato di relativa quiete.
Il vecchio Frank è ancora sulla breccia, sconosciuto a tutti meno che a sé. Happy birthday to me.
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Pubblicato mercoledì 3 Giugno 2015 alle 13:46 da
Francesco
Quella in calce è la mia tetrade corrente. Titoli enfatici, ma testi equilibrati tra cui sussistono dei punti di contatto. Ho la sensazione che un giorno tutte queste nozioni diventeranno obsolete come la fisica aristotelica e la medicina di Paracelso, perciò ne cerco un approccio che non sia solo intellettuale e difatti le mie esigenze non sono di quell’ordine.
Equidistante dal positivismo e dalla metafisica, io (parola grossa scritta in minuscolo) non posso che interessarmi ai loro tentativi di conciliazione.
Se volessi potrei liquidare tutto come un modo per darmi un tono, una ricerca d’evasione da questioni pragmatiche, una banale e ingenua fascinazione per certi temi od ogni altro tipo di resistenza dalle sembianze di faceto biasimo: per quanto vituperata, la realtà resta un’altra, in senso lato. In quest’ambito per me non c’è nulla di cui discutere perché ne traccio i confini nel soliloquio e nell’introspezione, ma approfitto della circostanza per inviare segnali flebili verso ricezioni improbabili. Frappongo ostacoli da superare.
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Pubblicato lunedì 1 Giugno 2015 alle 04:06 da
Francesco
Ho trovato piuttosto interessante un frammento della seconda appendice del Libro Rosso di Jung che si situa alla fine del volume. In quelle paginette conclusive sono prese di nuovo in esame le figure di Elia e Salomè, ovvero un vecchio e saggio padre, il quale rappresenta il Logos, e la di lui figlia che svolge la stessa procura per l'Eros.
Per come sono presentati, e con qualche spontanea forzatura, paragono quei due princìpi allo spirito apollineo e allo spirito dionisiaco di Nietzsche, ma in entrambi i casi riconosco come l'uno non sia posto in antitesi all'altro. Col medesimo grado d'approssimazione avrei potuto riferirmi ai due elementi del Tao e così via, in un dotto saccheggio di schemi analoghi dopo il quale, di fatto, non mi sarebbe rimasto nulla: che beffa. A proposito: ovunque io mi volga mi sembra che il dualismo sia sempre stato apparente, a uso e consumo delle morali regolatrici, per il bastone e la carota, per fare sì che gli inferi si stagliassero (bene e male) sul paradiso o viceversa.
Non ho fatto questa premessa per lanciarmi nell'ermeneutica del Libro Rosso o per azzardare una retrospettiva sul simbolismo della mia giovane specie: ho le spalle abbastanza larghe per sollevare un bilanciere, ma non per sobbarcarmi il peso di quelle impalcature filosofiche.
Oltre a vani tentativi di sagacia è opportuno che io giunga al punto, ammesso che da questo si possa poi tracciare alcunché. Certuni hanno imputato la mia verginità (fisica ed emotiva) ad un ricorso eccessivo della ragione, ma in tali occasioni costoro hanno commesso l'errore di credere che il Logos si opponga all'Eros; anche se non sono cristiano (e almeno per questi scampoli di primavera e l'estate imminente non lo diventerò), voglio parafrasare il Nazzareno: "Padre (o chi per lui) perdonali perché non sanno quel che fanno". Anzi, nessuna grazia e non sanno, punto.
La capacità di discernimento per me non si oppone ai moti del cuore, ma quando l'una si trova in sintonia coi secondi fa in modo che questi si esprimano con la massima autenticità, nella piena eleganza della loro consapevolezza e non per la furia cieca d'una passione che talora è viziata dal timore della solitudine: nel mio immaginario la differenza è la stessa che intercorre tra un cavallo imbizzarrito e uno che galoppa libero lungo praterie incontaminate, a mezzodì (nella fiera giovinezza) o alle ultimi luci dell'occaso (quando la vita si accorcia, come se prima la morte non le fosse stata sempre accanto…).
La mia facile teoria è la seguente: la puerile contrapposizione di Logos ed Eros è utilizzata da taluni per giustificare i propri passi falsi e soprattutto la consapevolezza con cui furono mossi; è troppo facile incolpare la cosiddetta "passione" ed è questo, sì, invece un trucco nel quale io ravviso un impiego davvero volgare dell'intelletto. Cerco di ragionare con il cervello in quanto è l'organo deputato a tale compito, perciò non mi occupo di chi delega il cazzo o altri genitali (e quanti sono mai?). Non posso intavolare alcun dialogo con chi non veda al di là del proprio prepuzio od oltre i propri estrogeni: errore di ambo i sessi a cui non mi presto.
Mi occupo anche di contraddizioni del genere nel saggio che sto scrivendo a intervalli quantomai irregolari, ma non so quando o se quest'ultimo vedrà mai la luce e d'altronde non me ne frega nulla, proprio come a chiunque altro: ecco un esempio di silente unanimità.
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Pubblicato martedì 26 Maggio 2015 alle 08:12 da
Francesco
Tempo fa la psicologia della Gestalt e il suo approccio olistico nell'analisi della realtà mi hanno fornito lo stimolo per approfondirne le speculazioni. A tale riguardo ho letto un libro di Gaetano Kanizsa, "Grammatica del vedere", e la parte che più ha suscitato il mio interesse è stata la spiegazione della differenza tra vedere qualche cosa e pensarla.
Di primo acchito una simile precisazione può sembrare scontata, pleonastica e tautologica, ma secondo me offre più di qualche spunto e trovo una prima conferma di quest'idea nella difficoltà d'operare una distinzione abbastanza netta tra le due attività in esame. Qualcuno per ovviare a questo problema ha proposto di ritenere pensiero e percezione due fasi dello stesso processo, ma secondo me Kanizsa ha giustamente liquidato tale espediente come una scotomizzazione.
Quando l'occhio incontra una parola a cui mancano una o più lettere questa viene comunque letta come se fosse stata scritta correttamente, di conseguenza da un esempio così classico si evince quanto il cervello vada al di là dell'informazione fornita e personalmente trovo questo punto già sufficiente per sposare la prospettiva gestaltista. Un altro argomento a favore di tale posizione fa leva sui cosiddetti criteri di completezza che agiscono in modi diversi sul pensiero e sulla percezione: con una breve ricerca sul web è possibile raccogliere numerose immagini tramite cui capire come, ad esempio, la simmetria sia una discriminante preminente nel pensiero e risulti secondaria nel campo delle percezioni, dove invece la convessità e la continuità di direzione assumono un'importanza maggiore. Dell'ulteriore acqua al mulino di Kanizsa è portata dagli innumerevoli fenomeni di completamento amodale, ovvero quei casi in cui ciò che viene visto non ha una corrispondenza fenomenica, ma questa è resa a livello cognitivo: insomma, di ciò che manca si occupa l'intuito. Se volessi approfittare dell'occasione per essere semplicista e categorico potrei affermare che non occorre la psicologia della Gestalt per sapere che niente è come sembra, però la questione è un'altra e pone l'accento su come la realtà oggettiva venga mediata nel soggetto da fattori di vario genere che gli sono intrinsechi, non ultimi quelli emotivi.
A mio modesto avviso in alcune trattazioni la straordinarietà non risiede nelle teorie proposte o nei grandi impianti speculativi che le sostengono, ma nella capacità di comprendere davvero cosa implichino e come si ripercuotano nella vita d'ogni giorno.
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