Per quattro mesi non sono riuscito a trattenere ricordo alcuno della mia attività onirica: nei casi migliori ho rimediato dei frammenti del tutto inutilizzabili per miei sforzi interpretativi, dunque mi sono sorpreso quando qualche notte fa ho sognato che un serpente mi mordeva al collo.
Ho collegato la scena suddetta al lavoro d’esegesi che sto compiendo su Così parlò Zarathustra di Nietzsche, difatti in un capitolo dell’opera appare una vipera che morde Zarathustra alla gola. Nel testo il significato del morso è un attentato al Logos (tramite la gola), però là non ha effetto perché Zarathustra è un archetipo come il serpente e a questi dice persino di riprendersi il suo veleno perché non è abbastanza ricco da regalarglielo! Tale interpretazione proviene da Jung e non trova spazio nella mia realtà, non v’è modo di applicarvela, di conseguenza suppongo che il mio inconscio si sia servito di questa immagine per veicolarmi un messaggio che nulla ha a che fare con l’origine da cui ha tratto le proprie sembianze e con le quali mi si è palesato.
Credo che questo sogno presenti molteplici aspetti e, malgrado le mie sciocche resistenze, non intendo trascurare nessuna di quelle possibili interpretazioni che considero un po’ sconfortanti. Anzitutto il morso del serpente può rappresentare un monito dell’inconscio affinché mi svegli e prenda determinate decisioni, ovvero che io cambi pelle, però in questo caso tutto ciò scaturisce dalla mia sessualità inespressa e di ciò io sono certo. Quanto ho appena scritto si lega ad una concezione di Jung, quella secondo cui il serpente esprime il conflitto tra ragione e sentimento che in me si manifesta in un modo preciso; in altre parole una parte di me desidera la carnalità e al contempo un’altra mi costringe a rinunciarci (ecco il conflitto) perché io non voglio avere dei rapporti sessuali che non siano il coronamento di un profondo affetto né voglio dell’affetto che prescinda dalla passionalità (ed è per questo che non ho amiche).
Per Freud il serpente rappresenta il pene (tanto per cambiare), però non è per questa ragione che sessualizzo il sogno in questione e tutt’al più ci ritrovo un’ulteriore conferma oltre a quelle imprescindibili della mia esistenza cosciente.
In questo periodo la mia libido è al minimo storico e ricorro alla masturbazione solo come forma d’igiene per la prostata, quasi svogliatamente, perciò ipotizzo che in me si stia facendo strada una sorta di rassegnazione e probabilmente è da questa che l’inconscio mi mette in guarda: è come se stessi andando contro la mia natura. Non sono capace di conciliare la mia visione dell’amore con la realtà perché non dipende solo da me e sebbene io abbia imparato a non farmene più un problema, fin quasi al punto di rinunciarvi spontaneamente, non posso certo pretendere che di tanto in tanto il mio inconscio non scalci.
La figura del serpente nei sogni ha molteplici significati ed è una figura archetipica su cui potrei spendere molte parole, buone e non, ma preferisco fermarmi qui perché non intendo divagare.
I miei riti di passaggio: parte tre
Pubblicato lunedì 14 Settembre 2015 alle 02:55 da FrancescoLa tempesta è ormai prossima, pronta alla carica come una falange armata, e nell’aria non c’è spazio che per la sua ira, ma prima di scontrarmici voglio abbassare le palpebre per un istante. Raccoltomi in un momento di buio mi sento finalmente pronto per la schermaglia, ma quando riapro gli occhi davanti a me si estende un cielo terso e tutto ciò che mi era ad un passo adesso è svanito. Mi domando come sia potuto accadere un cambiamento così repentino, cosa lo abbia scatenato e per quale ragione; giungo a dubitare persino della mente e così mi chiedo se io non sia rimasto vittima di un’allucinazione: una voce lontana mi suggerisce che tutto può cambiare in un battito di ciglia. Provo di nuovo a chiudere gli occhi per un momento e ne riapro uno per volta, ma tutt’attorno ritrovo la stessa calma della tempesta mancata. Contemplo il sereno per quanto basta a pienarmi il cuore e avanzo verso le dune che si succedono come in una dinastia. Scorgo in lontananza una torre d’avorio che alta e imponente svetta nel deserto: nient’altro mi reclama. Giungo all’eburnea soglia e una signora anziana mi accoglie. «Vai pure, ma quando te ne andrai non chiudere la porta, altri verranno come altri sono già venuti e se dei primi il ricordo deve ancora fare un ingresso trionfale nei posteri, quello dei secondi ha già lasciato il proprio scranno» mi dice costei, vestita di bianco dagli anni e annerita dal sole di millenni.
Entro dove prima a malapena giungeva il mio occhio e salgo lungo una scala a chiocciola che mi porta su un altro piano. Sopra un leggio vi è un grande tomo dall’aspetto antico che là giace abbandonato da chissà quando. Faccio per sfogliare una pagina ingiallita, ma questa si strappa come se avesse desiderato staccarsi da tutte le altre e allora la gravo col peso del mio sguardo. Su quell’apostata cartacea ci sono scritte verità sbiadite, ma una di queste ritrova il suo stabile splendore appena la leggo tra me e me. Una volta incoronate di senso, le parole che ho davanti illustrano in epigrammi come ogni cosa sia destinata a ricadere nel suo opposto.
Odo rumori lontani e mi affaccio ad un’apertura per lanciare un’occhiata verso l’orizzonte, dove di solito il tramonto si consuma in rossori cangianti. Uomini vestiti di bianco ruotano su sé stessi e una folla attenta ne osserva i precisi movimenti. Lascio cadere la pagina di carta e scendo le scale di calce, ma quando arrivo all’esterno non c’è più traccia dei dervisci. Ritorno dentro, resto al primo piano e mi chiudo in me stesso. Forse un giorno un incontro sarà possibile, ma a dorso di elefante, non di cammello: ed elefantiaca sarà anche la memoria.
Gli elefanti di Salvador Dalì, 1948
I miei riti di passaggio: parte due
Pubblicato giovedì 10 Settembre 2015 alle 23:09 da FrancescoCadono i corpi dei molti, invero di tutti: prima furono padri e madri, poi divennero dei cadaveri e un domani anch’essi saranno sterminata dimenticanza. Qualche volta sui figli non si ripongono più speranze, ma rose, crisantemi o qualsiasi altra cosa che si confaccia ai costumi funebri della cultura d’appartenenza. Il silenzio dei morti è identico ovunque e ovunque inamovibile.
Lungo le strade dei miei anni terreni scorgo come spesso certuni seppelliscano una parte di sé assieme alle salme nelle quali un tempo vibrava la vita e su cui essi proiettavano i propri umori. Sono intero, io, non ho mai impugnato il badile né ho mai strappato un fiore dalle proprie radici per aggiungere morte a morte. Mi volto verso l’altrui sofferenza per puro caso o forse qualcosa mi induce a farlo senza che me ne renda conto, però quelle coltri di dolore sono troppo distanti perché io possa comprenderle davvero. Non mi manca l’empatia, bensì il ponte sul quale farla scorrere e una destinazione verso cui dirigerla, perciò la lascio assisa sul suo trono, regina d’un regno senza nome nel nome di un Io senza regno.
Un obolo alle prefiche e libero accesso alle frasi di circostanza affinché tutto si ripeta secondo i crismi dei fantasmi. Sono orfano nella mia lingua madre e non partecipo alle feste né alle veglie. Condivido dettami antichi che agiscono sottopelle, ma ne seguo le tracce senza coprire le mie e non mi chiedo dove conducano. C’è chi fatica a stare al mondo e chi se lo porta in groppa senza fiatare più di tanto, tuttavia sapere cosa sia giusto è talora una questione dal sapore insoluto. Proferir parola e preferire di non averlo mai fatto, non per uno smodato amore verso il silenzio, ma per scongiurare i fastidi del rumore. Cosa c’è da dire che non sia ancora stato detto? Forse ciò che manca davvero è il modo giusto di ripetere quanto è già stato pronunciato, però io non dirigo i cori e m’illudo di farne parte solo nelle scene mute, quando al Logos viene negato anche l’onore delle armi e appare in tutta la sua futile apparenza, funzionale solo al quieto vivere.
Così divàgo, solìvago, e un altro mio giorno cangia il proprio senso, perdendolo e ritrovandolo. Oggi la quiete si fa discorsiva, non ci sono arcieri che mirino all’aorta e un vento fresco decreta il principio di qualcosa mentre sancisce la fine di qualcos’altro. La calma prima della tempesta è un’occasione di ristoro e non un presagio di morte: è un momento d’utile quiete e di cui io intendo aumentare la durata sempre di più, al punto che si metta al passo della mia.
Marina con nuvole di pioggia di John Constable, 1827
I miei riti di passaggio: parte uno
Pubblicato mercoledì 9 Settembre 2015 alle 03:47 da FrancescoEventi inaspettati mi hanno fatto ricadere in turbini di amarezze e una luce lontana s’è eclissata ancor prima che potesse abbagliarmi. Devo affrontare tutto da solo perché al mio fianco non c’è nessuno, ma sono pronto a diventare centuria. Le parole saranno mie testimoni e compagne: io continuerò a scriverne fino all’ultimo giorno di questa odissea.
Attorno a me c’è odore di terra bruciata e nei dintorni vedo soltanto fuochi fatui, come funeree premonizioni che voglio sconfessare con il coraggio che mi resta e con gli entusiasmi che ancora devo raccogliere dai giorni più fruttiferi. Intanto sento il vuoto che si agita dentro di me, bestia acefala che sa comunque mostrare le fauci; questa fiera vuole divorarmi dall’interno, ma fiera è anche la mia indole. Ci sono notti in cui rischio di soccombere perché le spire di quell’essere mi avviluppano in strette mortali e se ancora riesco a liberarmene lo devo solamente ad una forza interiore che forse mi porto in dote da un’altra vita: non me la spiego in nessun’altra maniera. Shiva danza, così crea e distrugge, io invece lotto in un’arena dove le folle hanno occhi che non vedono, ma da quegli stessi spalti, e per la cecità degli astanti, dita accusatrici si tendono verso chi non vi si mescola. Tutto è dentro di me: il creato, che io creo, e la creazione, di cui sono reo. Mio è anche il nemico e la chiamata alle armi per scacciarlo dalle porte che costui minaccia.
Le trombe dei cherubini intonano un imperativo categorico che intima di vivere e quella melodia risuona piacevolmente tra le pareti del mio cerebro nonostante io sia un senzadio. È da quando sono nato che sono lontano dalle mie origini o forse da ancor prima, ma cerco di vivere questo esilio di carne come meglio posso e non ho intenzione di cadere per mia mano.
I tempi non sono ancora maturi perché io colga ciò che è nato con me, ovvero giorni di miele e pelle di pesca, perciò devo difenderne le radici, i rami e le alte fronde oppure tornare alla terra nell’ultimo degli autunni. Scrivo da insonne, con palpitazioni regolari, nell’apparente calma che avvolge l’oscurità o di cui forse quest’ultima si ricopre di sua sponte. Quanto manca ancora al prossimo caravanserraglio? Sento la nostalgia infinita di ciò che ero prima di nascere o forse mi lascio semplicemente confondere da una suggestione che ho còlto chissà dove, chissà quando. Mi faccio scudo con la lucidità e sferzo tutti i colpi che posso verso quella forza contraria che mi vuole estraneo da me. Mi sento come San Giorgio alle prese con il drago, però io non difendo la figlia di un re perché non conosco né nobili né donne: difendo me stesso, almeno per adesso.
San Giorgio e il drago di Vittore Carpaccio, 1502
Grazie ai seminari di Jung sto capendo come Così parlo Zarathustra non sia stato concepito dalla pazzia di Nietzsche, bensì quanto quest’ultima sia derivata dalla stesura dell’opera: egli scrisse al modico costo della propria salute mentale ed elaborò una filosofia tra le cui pagine… capitolò!
Jung pone l’accento su un errore fondamentale di Nietzsche, ovvero la sua identificazione con Zarathustra e quindi con il Sé, un processo insostenibile per chiunque, qualcosa che nel migliore dei casi può essere sopportata per un certo periodo prima di soccombervi, ma talora sembra che lo stesso Nietzsche profetizzi inconsciamente la propria caduta e ciò si ravvisa in un passo su cui Jung si sofferma: “Quando volevo elevarmi, anelavo al mio tramonto, e tu sei il fulmine che io attendevo!”. Quelle parole sono rivolte a Zarathustra da un giovane che rappresenta una parte di Nietzsche la quale rimane vittima del fulmine (cioè di Zarathustra e della conseguente follia) perché non ne è all’altezza: avviene un’esplosione improvvisa che Jung riscontra di frequente nei casi di schizofrenia. A breve distanza dalla cassandra succitata v’è poi un anticipo di un’idea che troverà posto nella psicologia moderna: “Il vostro nemico voi dovete cercare, e fare la vostra guerra, per i vostri pensieri”. Tali parole possono assumere un determinato significato qualora le si consideri sul piano politico, ma ne ottengono uno completamente diverso e più profondo nel caso in cui le si connoti a guisa di un conflitto individuale: opto per la seconda interpretazione.
Non ricerco nella filosofia delle verità assolute, non sono interessato ai destini ultimi dell’uomo né a tutto ciò che mi allontani dall’indole introspettiva, ma talora questi elementi collettivi mi si parano davanti poiché non sono slegato dall’umanità come non lo è nessun altro: insomma, consciamente o meno, non si può sfuggire dal confronto con gli archetipi e anzi, questo è di importanza fondamentale. Jung non ne è certo, però nel conflitto anzidetto egli vede da parte Nietzsche l’intuizione del processo d’individuazione, difatti quest’ultimo ha modo di verificarsi solo quando si trovi un centro più o meno equidistante dalle tendenze della personalità che sono in contrasto tra loro. L’identificazione con un unico versante di sé stessi è un pericolo e secondo Jung può dare l’idea che il nemico si trovi all’esterno: in termini pratici tutto ciò si nota nelle accuse che taluni rivolgono a terzi come forma di giustificazione per le proprie mancanze.
Finora nei seminari sullo Zarathustra non ho trovato da parte di Jung e dei suoi astanti nessuna forzatura, bensì delle interpretazioni con diversi gradi di attendibilità che non lasciano nulla al caso. Questo ciclo di conferenze, di cui finora ho letto e approfondito la prima metà, ovvero circa ottocento pagine, offre delle utili digressioni per le quali talvolta lo scritto di Nietzsche mi pare che sia solo un pretesto da cui sgorgare, ma non sottolineo quest’impressione come una critica ed è invece un segno di apprezzamento che tributo a tale modus operandi.
L’inizio di settembre annuncia l’autunno, ma i presagi della nuova stagione non affievoliscono i miei solipsistici entusiasmi e dunque non me ne dolgo.
Un anno fa, di questi tempi, non me la passavo bene perché avevo appena incassato una forte delusione, ma alla fine il contraccolpo emotivo non è riuscito a mettermi knockout e in qualche modo sono cascato in piedi. Sono storie comuni e penso che quasi tutti ci siano passati, perciò mi viene da ridere quando qualcuno è convinto che i propri problemi siano una sua prerogativa. Se non fossi stato astemio e solitario forse in quei momenti bui avrei cercato la comprensione dell’alcol e le frasi di circostanza di qualche presunto amico, ma io tengo troppo alla mia lucidità e troppo poco ai miei conoscenti: per fortuna non ho bisogno del vino per essere sincero!
Non posso che occuparmi di me e la consapevolezza di tale limite mi infonde una grande forza. Di certo le mie questioni non sono gravi e impellenti come quelle di chi fugge dal suolo natio per non soccombere alle guerre fratricide, o di chi magari ha una famiglia numerosa e non riesce a sbarcare il lunario, ma ognuno ha la sua croce e io da buon ateo cerco di scaraventare a terra la mia. Perseguo un’evoluzione individuale di cui nessuno è partecipe perché potrei condividerla pienamente solo se mi trovassi in una relazione di profonda reciprocità.
Certi sforzi per essere efficaci non hanno bisogno di un riconoscimento, bensì devono provocare degli effetti concreti e tutto il resto, il contorno di opinioni, è un lieto ciarlare che ha anch’esso una sua funzione specifica. Quando tutto sembra deciso io non mi fido delle apparenze benché talora su queste faccia quasi cieco affidamento, ma attendo le ulteriori conferme di quella realtà di cui non voglio essere mero spettatore. Mi trovo ancora a debita distanza da certe dinamiche perché non ho margine per avvicinarmici, tuttavia io libero una seconda volta il mio tempo libero ogni volta che lo impiego per alimentare quel fuoco interiore di cui a breve avrò bisogno come non mai, o forse come sempre.
Alcuni giorni or sono mi sono recato nella ridente Follonica per la Fiera del Disco: in occasioni del genere trovo sempre qualcosa che non ha prezzo, ovvero le conoscenze musicali di chi scelga di condividerle e dalle quali traggo quasi sempre degli ottimi spunti. Forse l’acquisto di vinili e CD può sembrare anacronistico agli occhi di taluni, tuttavia ancora compro e vendo questi supporti perché mi piace ascoltare attentamente i dischi, tanto in analogico quanto in digitale, inoltre mi diverto a raffinare la mia esigua collezione con gli scambi anzidetti.
Nell’immagine il primo disco in alto a sinistra è “Déjà vu”, opera di un ensemble di tutto rispetto che comprende David Crosby, Neil Young, Stephen Stills e Graham Nash: un classico che mi è sfuggito per lungo tempo! Accanto a quest’ultimo v’è un disco delizioso, “Ashes Are Burning” dei Renaissance, rock progressivo che la voce di Annie Haslam ammanta di magia. In alto a destra invece campeggia una ristampa de “L’era Del Cinghiale Bianco”, un album che conosco e ascolto da quindici anni nonché uno dei miei punti preferiti nell’intera discografia di Franco Battiato.
Il primo a sinistra della fila centrale è un disco di David Crosby piuttosto famoso e anch’esso è rimasto ignoto alla mia attenzione fino a pochi giorni fa benché si tratti di un classico: il titolo è “If I Could Only Remember My Name”. Accanto al debutto solista di Crosby si trova il vinile della colonna sonora di Milano Calibro 9, uno di quei film degli anni settanta che erano (e ancor oggi sono) definiti “poliziotteschi” per distinguerli da altri classici polizieschi; insomma, delle musiche si occuparono gli Osanna di Lino Vairetti, uno dei pilastri partenopei del prog italiano e ne uscì qualcosa di meraviglioso! Sotto “L’era Del Cinghiale Bianco” c’è un album di portata mostruosa, uno dei capitoli più belli dei Camel e per quanto mi riguarda dell’intero prog mondiale, ovvero “Moonmadness” di cui inserisco a piè di pagina il video di “Lunar Sea”, ultima traccia del platter. La fila in basso comincia a sinistra con i Fuzzy Duck e il loro album omonimo, ideale per tutti gli amanti del moog; è un lavoro che si situa a cavallo tra l’epoca psichedelica e quella progressiva. Sotto il vinile degli Osanna si trova una serie di CD: Gli Alluminogeni con “Scolopendra”, album di rock progressivo del settantadue che non è registrato nel migliore dei modi ma che a me offre lo stesso belle sensazioni; Brian Eno con “Apollo: Atmospheres and Soundtracks”, un lavoro che si ispira alla missione Apollo della Nasa con un ambient di ottima fattura; Sotto “Scolopendra” si trova “In Praise Of Dreams” di Jan Garbarek, in cui il sax di quest’ultimo esalta tutto il resto; poi v’è un disco di Keith Jarrett del settantasei, “El Juicio (The Judgement)” sul quale credo che sia inutile scrivere alcunché; infine vi sono due dischi di prog italiano che io reputo imprescindibili nel genere, ovvero Quella Vecchia Locanda con l’album omonimo e “Contaminazione” ad opera de Il Rovescio della Medaglia. Last but not least (cioè ultimo ma non meno importante) in fondo a destra c’è un disco straordinario di psichedelia, “Forever Changes” dei Love; quest’ultimo me lo sono fatto consigliare da chi me lo ha venduto, difatti non trovavo nulla che m’interessasse al suo banco ma volevo prendergli qualcosa e così gli ho dato carta bianca: diamine, per dargliene ancora sarei pronto a cancellare i papiri di Ossirinco!
Ho già dedicato qualche parola in merito all’importanza che Nietzsche conferisce al corpo, però non ne ho ancora spese per soffermarmi su un’interessante osservazione di Jung a proposito della funzione imprescindibile della carne nel cosiddetto processo d’individuazione.
Gli oggetti conseguono una distinzione solo nello spazio e nel tempo poiché vi assumono delle caratteristiche definite che ne permettono la conoscenza, e parimenti un individuo necessita di specchi per scoprire quale sia il suo volto, tuttavia egli può anche rispecchiarsi nei suoi simili per conoscere se stesso; Jung parte da tali assunti, nei quali io percepisco una critica agli anacoreti e in particolare ai padri del deserto: egli finisce per indicare quanto il corpo sia fondamentale per delimitare il Sé e come l’idea di quest’ultimo non sarebbe possibile se non esistesse il primo.
Non riesco a capire se il confronto con i propri simili (poiché suppongo che lo specchiamento nel prossimo questo significhi) debba essere continuo, vita natural durante, o se, una volta tratte le debite conclusioni, si possa decidere di farne a meno: qualora quest’ultimo caso fosse quello corretto non potrei scorgere nessuna critica verso gli eremiti e all’indirizzo di chi nel corso della storia (e soprattutto della propria storia) abbia intrapreso un’ascesi più o meno solitaria.
A me piace immaginare che ogni individuo abbia un destino da compiere (e a ciò collego sempre un celebre aforisma di Nietzsche, ovvero “diventa ciò che sei”), però è proprio in forza di tale peculiarità che secondo me (e non solo) non possono esservi delle regole assolute in questo ambito. Trovo illuminante ciò che Jung scrive nelle stesse pagine (che ormai mi sono lasciato alle spalle da qualche settimana) da cui ho tratto lo spunto per queste righe: “Le persone che non sono consapevoli del proprio corpo risultano affette in misura variabile da un’irrealtà esistenziale”.
Io suppongo che la consapevolezza del proprio corpo possa venire meno anche quando a questo si riservino molte attenzioni e se ne soddisfino tutti i bisogni, dunque ipotizzo che la questione verta sul modo di rapportarsi alla propria carne: paradossalmente mi ritrovo di nuovo di fronte a delle astrazioni che in questo contesto possono sembrare erroneamente fuori luogo.
La realtà del corpo è diversa per ognuno e quindi il compito di scoprirla (per chi lo vuole) non può essere delegato, ma io tendo a credere che in taluni casi a detta realtà certuni si possano avvicinare in una maniera apparentemente contraria agli interessi immediati della carne.
Trovo interessante come dai primi seminari di Jung su Nietzsche emerga più volte l’importanza che quest’ultimo dà al corpo, in netto contrasto con il cristianesimo che invece ne promuove il disprezzo, proprio come altre religioni e filosofie propendono per una mortificazione della carne. Secondo Jung chiunque neghi una parte di sé prima o poi deve attendersi delle ricadute, una vendetta da quella parte negata e quindi delle conseguenze nefaste.
Il riconoscimento dell’aspetto carnale rimanda anche al riconoscimento dell’Ombra (nel senso junghiano del termine) e la sua importanza capitale mi fa venire in mente quanto già sosteneva Platone nel Fedone circa la conoscenza del peggio: “All’uomo non conviene considerare, riguardo a se stesso e riguardo alle altre cose, se non ciò che è l’ottimo e l’eccellente; e inevitabilmente dovrebbe conoscere anche il peggio, giacché la conoscenza del meglio e del peggio è la medesima”.
Vedo nell’impronta dionisiaca da cui il pensiero di Nietzsche è caratterizzato ciò che più di tutto riconsegna alla carne il suo ruolo essenziale, tuttavia a riguardo di quest’ultima, e malgrado il mio ateismo, mi ritrovo in un passo del Vangelo di Giovanni nel quale Cristo parla del proprio corpo come se fosse un tempio: mi discosto dall’interpretazione tradizionale dell’episodio e ne dò una lettura personale che nulla ha a che fare con l’esegesi biblica.
Alla luce di queste piccole annotazioni mi preme ricordare quale sia la vendetta del corpo che Jung ravvisa nello Zarathustra, ovvero la creazione di quelle figure metafisiche che proprio dal disprezzo del corpo traggono la loro origine e la conseguenziale illusione di un’altra realtà, con la svalutazione totale di quella propria dell’essere umano.
”Ciò che il senso sente e lo spirito conosce, non ha mai dentro di sé la propria fine, ma il senso e lo spirito vorrebbero convincerti che loro sono la fine di tutte le cose: talmente vanitosi sono essi”.
Per me questo passaggio dello Zarathustra è tanto esplicito quanto caustico, aggettivi che mi sento di spendere per molti altri punti dell’opera, ma tali parole in particolare trovo che siano quelle più adatte per fare una sintesi efficace di quanto ho accennato finora.
Talvolta è meno diretta l’importanza che Nietzsche riconosce al corpo per interposto profeta, ma altrettanto profonda e mi riferisco a quando Zarathustra scongiura quelli che chiama “fratelli” di restare fedeli alla terra, espressione quest’ultima che dev’essere tradotta come un invito a mantenere una relazione con il proprio corpo, a detrimento di tutte le speranze oltremondane.
Tutto questo come si traduce nella pratica della vita quotidiana? Non posso parlare per terzi e non mi occupo di trini, perciò mi riferisco solo a me stesso. La mia relazione con il corpo verte sul rispetto di quest’ultimo e dei suoi bisogni: va dall’autoerotismo all’allenamento fisico, dal riposo fino alle piccole rinunce che lo esaltano invece di mortificarlo e non avverto scissioni con quella parte di me che reputo al tempo stesso estranea e complementare (chissà poi se a torto o a ragione e in quale misura) alla corporeità; di norma vige in me un certo equilibrio tra quanto in altri ambiti ed esistenze è reso dicotomico da abitudini dogmatiche, talora inconsce.
Questa mia estate ha tradito le sue ottime premesse e nel periodo più rovente si è rivelata un calderone di frustrazioni. Per cause di forza maggiore (precisamente di vicinato) mi sono anche dovuto separare da quel simpatico gatto che mi era stato affidato e che io avevo prontamente chiamato Heidegger; ho avuto appena il tempo di affezionarmici, così come già altre volte in altri ambiti di questa mia vita umana. Dopo cinque anni d’isolamento in campagna avevo quasi del tutto dimenticato quanto potesse risultare cancerogena la convivenza con certi bipedi della mia specie, ma per cercare di essere obiettivo devo anche riconoscere una ragione formale a quanti mi siano invisi e al contempo mi riservo il diritto di esercitare lo stesso grado di comprensione (cioè nullo) verso quegli stessi soggetti: mi considero un individuo vendicativo e paziente, fiero sostenitore della lex talionis, inoltre credo che il fuoco vada combattuto con il fuoco.
Aspetto con trepidazione le prime atmosfere autunnali e mi auguro che queste ammantino i miei dintorni ancor prima delle idi di settembre. Sento in me una recrudescenza di conflitti irrisolti e riesco a tollerarla bene perché il mio stato psicofisico ha un’ottima tenuta, però farei volentieri a meno di misurare quest’ultima in base a una scala di disagi: insomma, preferirei che la conferma della mia buona salute scaturisse dall’esercizio di nobili sentimenti e non dalla solita resilienza.
Ho quasi terminato la lettura, lo studio e gli appunti del primo volume delle conferenze di Carl Gustav Jung sullo Zarathustra di Nietzsche, dunque mi auguro di trovare presto la voglia di scriverne un po’ su queste pagine virtuali. Ho molte cose da dire e sarebbe opportuno che io trovassi sufficienti sbocchi per farle fuoriuscire tutte, ma in realtà posso anche tenermele senza problemi: per ora la forma speculativa del pensiero è ancora esentasse e grazie alla filogenesi la memoria umana ha tanti scompartimenti vuoti dove si può stipare qualsiasi cosa.
Le tante strade che ho percorso in auto, a piedi e con la mente non mi hanno ancora portato dove una certa intuizione continua a suggerirmi di andare, ma lontano da tutto e senza contatti con terzi (o trini) c’è in me qualcosa che non ha mai smesso di rifulgere (neanche quando io stesso ero convinto della sua estinzione).