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Gen

Appunti sfusi del Libro rosso di Carl Gustav Jung

Pubblicato sabato 2 Gennaio 2016 alle 22:26 da Francesco

Ancorché con estrema concisione e senza l'ausilio degli incisi necessari, intendo trasporre su queste pagine una parte dei miei appunti su uno dei testi più famosi e controversi di Jung, ovvero il Libro rosso a cui ho dedicato molteplici attenzioni sin dalla scorsa primavera.
Quanto mi accingo ad annotare non ha pretese di completezza, dunque lo vergo come meglio credo a mio esclusivo uso e consumo; mi riservo inoltre la possibilità di ampliare questo piccolo sunto di annotazioni che ho tratto dalla lettura del testo in questione e da quella della Guida al Libro Rosso di Bernardo Nante.

Il Libro rosso è disseminato di miti, ma è esso stesso un mito che esorta chi lo legge al recupero di una vita simbolica: quest'ultima consiste nell'unione degli opposti che è celebrata dalle nozze mistiche che ognuno deve narrare con l'unicità della propria esistenza. Jung precisa che il testo non dev'essere considerato alla stregua né di una dottrina né di un insegnamento, bensì solo un invito che è rivolto a chiunque intenda cercare dentro di sé la via della propria rivelazione.

Apprezzo molto quest'ultimo monito di Jung e dei suoi esegeti in quanto non riduce l'opera a un corpus di dettami per indoli pedisseque, ma pone il lettore al cospetto della vox media più bella e crudele, ovvero "libertà"; e mutatis mutandis, in tutto ciò sento odor di pelagianesimo.

Il primo passo che viene mosso nel Libro rosso è verso l'assurdo e si compie con l'assassinio di Sigfrido che invece rappresenta il senso. L'Io è il protagonista e deve rapportarsi con le figure più disparate, tra le quali il Diavolo e un anacoreta: il primo rappresenta la materia, il mondo terreno, il secondo invece l'ascesi e la spiritualità.

Viaggiando verso oriente l'Io s'imbatte in un gigante babilonese di nome Izdubar (che è l'errata traslitterazione di Gilgamesh) il quale procede in direzione opposta. Quest'incontro è quello tra l'uomo scientifico e l'uomo mitiologico con la dicotomia che è loro propria. Jung spiega al gigante la teoria eliocentrica ed egli s'ammala poiché gli vengono meno le convinzioni magiche, quindi Jung tenta di riparare al danno che ha causato e propone a Izdubar di diventare una fantasia in modo tale che lui possa portarlo in Occidente, racchiuderlo in un uovo e covarlo. Quando i passi anzidetti vengono compiuti Izdubar rinasce ma l'Io ne resta orfano.
A questo punto è sottolineata l'incapacità di vivere in pieno il mistero dell'unione degli opposti a causa della tensione tra lo scetticismo scientista e la devozione infantile.
L'Io riceve il dono della magia che richiede il sacrificio della consolazione e si reca da un mago affinché lo liberi dal destino: la magia consiste nell'imparare ciò che non può essere imparato e nel comprendere l'incomprensibile in quanto essa permette di sopportare le contraddizioni.
Il mago Filemone non comunica all'Io il segreto della magia per mezzo della parola, bensì egli si avvale del suo modo di vivere e ne fa un esempio. Compaiono poi i Cabiri, delle divinità ctonie che si mettono al servizio dell'Io per diventarne oggetto di sacrificio.

L'Io riconosce le esigenze dei morti e così può lasciare le aspirazioni personali, inoltre è in grado di non desiderare più che la sua volontà s'imponga agli altri o che di questi egli voglia la felicità.
Appaiono due figure, Salomè ed Elia: la prima rappresenta l'eros e il secondo il Logos.
Le nozze mistiche tra sopra e sotto generano un'anima spiritualizzata e il protagonista resta da solo con il suo Io: costui deve recuperare il passato che non ha ancora accolto poiché la pietra di paragone è l'essere soli con sé stessi. Questa è la via. L'Io non deve farsi carico dei morti perché deve restare fedele alla solitudine, ma non lo capisce e sprofonda nella tristezza, inoltre v'è un confronto con l'Ombra personale in cui ammette la propria inferiorità e accetta di farsi domare. Su questo orizzonte si staglia un concetto importante, ovvero che occorre comprendere sé stessi per superare la pretesa di essere compresi dagli altri.
Jung non si disfa dell'anima benché questa si presenti come una sgualdrina ipocrita poiché egli sa che comunque serba il tesoro più prezioso. Per procedere verso il Sé è necessario che vi sia un riconoscimento dei vizi e delle virtù.

Nel pleroma le coppie di opposti in realtà non esistono poiché si annullano, perciò nella misura in cui un individuo è attratto da un polo finisce per cadere in quello opposto: rimedio a ciò è l'essenza e non il pensiero. Filemone insegna il sapere che pone un freno al pensiero.
È Abraxas che abbraccia entrambi i poli, ovvero un dio da sapere e non da comprendere, cioè il signore di questo mondo. Filemone da parte sua non può insegnare ai morti il dio che è uno in quanto essi lo hanno ripudiato e così hanno dato potere alle cose, ovvero a molti dèi.
Essere in comunione dà calore mentre essere da soli dà luce: l'uomo deve differenziarsi dalla sessualità e dalla spiritualità che non possiede poiché ne è posseduto. Affinché l'integrazione si verifichi l'enantiodromia deve interrompersi. Secondo Filemone gli uomini non possono imparare nulla fino a quando non vivono la loro vita senza imitare nessuno: ciascuno deve realizzare la sua opera salvifica. Gli dèi sono insaziabli perché ricevono troppo e devono imparare la penuria dagli uomini, ma le atrocità dei mortali aumentano quando queste precedono la rinascita di un dio paradossale. Il dio unico è morto e la pluralità delle cose uniche è il dio uno.
Elia finisce per indebolirsi poiché passa a Jung una parte troppo grande del suo potere; egli e Salomè sono modelli archetipici per l'unione degli elementi maschili e femminili; riconoscere il valore della seconda rende possibile l'annullamento dell'identificazione del sapere con la mera erudizione. A un certo punto appare Cristo con le sembianze di un'ombra azzurra e Filemone lo porta a capire come la sua natura sia anche quella del serpente: egli ne conviene.

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Gen

Esordio gregoriano

Pubblicato venerdì 1 Gennaio 2016 alle 20:31 da Francesco

Quasi sempre durante i momenti di passaggio (che siano effettivi o simbolici) mi piace ricordare il titolo di un libro di Tiziano Terzani, ovvero La fine è il mio inizio.
Ieri sera mi sono recato da solo a Tivoli, laddove un tempo Adriano celebrò la bellezza del suo Antinoo e dove io, invece, senza lasciare traccia alcuna ho festeggiato l’ultimo giorno dell’anno.
In Piazza Garibaldi ho preso parte al concerto della Premiata Forneria Marconi: per la terza volta ho assistito a un loro live e credo che tra le tre quella di ieri sia stata la performance migliore.
Un capodanno all’insegna del rock progressivo non l’avevo mai trascorso ed è stato stupendo!
Ho respirato un’atmosfera fantastica e ho salutato con allegria i dodici mesi che si sono succeduti senza soluzione di continuità. Se fossi stato uno incapace di starsene per i fatti suoi forse avrei accettato uno dei vari inviti che avevo ricevuto per delle festicciole in cui difficilmente mi sarei divertito. Purtroppo con le altre persone rischio sempre di apparire scostante e sfuggente, certe volte addirittura snob, ma in realtà non sono affatto così o forse lo sono in una misura inferiore a quella che talora può trasparire dal mio comportamento.
Ho capito da prima che iniziasse il concerto quanto fosse stata saggia la mia scelta, ma quando Patrick Djivas ha attaccato l’intro di basso di Maestro Della Voce, celebre pezzo della PFM dedicato a Demetrio Stratos, non ho avuto più il benché minimo dubbio! Dovevo essere là, in prima fila!
In questo periodo l’anno scorso ero dall’altra parte del mondo e stavo bene: quest’anno sono sul suolo natio e sto bene lo stesso. Memorie piacevoli mi attraversano rapide e fugaci perché io non sono tipo d’albergarle troppo a lungo, però sono contento che ogni tanto mi facciano visita.
Auguro a me stesso un anno di crescente consapevolezza e che le mie azioni possano essere in accordo con i miei pensieri. Ho ancora una lunga strada da percorrere da solo e intendo fare il possibile affinché le circostanze mi concedano il tempo necessario per il viaggio. Ad maiora.

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Dic

Il dovuto distacco che precede un opportuno ritorno

Pubblicato martedì 1 Dicembre 2015 alle 02:07 da Francesco

Nelle ultime due settimane non ho avuto molto tempo per scrivere su queste pagine, ma anche se mi fossi ritrovato nelle condizioni di dedicarmici le avrei comunque lasciate spoglie.
Sto attraversando un periodo di forti letture in cui mi alterno tra un manuale di neuroscienze e la Guida alla lettura del Libro rosso di Jung (l’opera originale l’ho già affrontata); quest’ultimo è un testo che ho cominciato a studiare appena ho finito i quattro volumi di Jung dedicati a Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Non mi crogiolo in un becero intellettualismo, bensì mi avvalgo di simili strumenti per perorare la causa del processo d’individuazione e dunque non considero uno scopo nobile il mero accumulo di nozioni.
Per sette mesi non ho corso e solo da sessanta giorni ho ripreso ad allenarmi, di conseguenza anche questo impegno fagocita il mio tempo libero, ma sono certo che prima o poi tornerò a ripartire le sabbie delle mie clessidre in modo diverso. Mi appresto a vivere la mia terza vita da maratoneta, spero la migliore, e sento in me un rinnovato entusiasmo. Sono l’allenatore di me stesso, il mio migliore amico, il mio maestro e voglio tornare a gareggiare per il gusto di farlo.
Oltre allo sport, agli studi personali e all’introspezione sto cercando di diventare un chitarrista decente e anche se questa strada per me è in salita non posso negare che mi piacciano le sue pendenze. Insomma, io mi sento ancora centrato sulla mia via e concentrato su attività che mi arricchiscono interiormente. Per quanto possibile cerco di mantenere pensiero e azione nel migliore degli equilibri. Mi trovo su un piano emotivo di particolare intensità, ma non domando rassicurazioni né pretendo vaticini infallibili.
Avverto dentro di me il risveglio di forze che sono rimaste sopite a lungo. Riesco ancora a trarre molto dalla mia esistenza, forse più di quanto abbia fatto in passato e sono pervaso da piaceri a volte semplici, altre complessi, i quali non mi dominano né tanto meno io domino loro: in altre parole si tratta di piaceri autentici a prescindere dal loro grado di enigmaticità.
La spinta e il dinamismo di cui mi sento destinatario e ingranaggio hanno nel mio immaginario un non meglio definito legame col futurismo, perciò in calce a questo appunto di vaghezze e di personalismi inserisco il manifesto di Filippo Tommaso Marinetti magistralmente (un avverbio da poco in questo caso) letto da Carmelo Bene.

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15
Nov

Ennesime considerazioni inattuali

Pubblicato domenica 15 Novembre 2015 alle 16:46 da Francesco

Conosco un bell’imperativo di Manlio Sgalambro al quale cerco di attenermi: “Tutte le cose si devono intendere a partire dalla fine del mondo”. In conseguenza di tale assunto mi considero un testimone indiretto della presunta utopia del multiculturalismo che giunge ai ferri corti con la storia e assisto anche al grottesco stupore di chi se ne meraviglia o di chi vi indugia.
Quantomeno un tempo quella sciagura fondatrice dell’Europa che è il cristianesimo mostrava scudi crociati e alzava le else, ma poi una certa efferatezza è venuta progressivamente meno e un illusorio terzomondismo (la guancia è stata porta un po’ troppo…) ha avuto la meglio sulla ragion pratica (o real politik). Tutto nell’ordine delle cose, tutto già visto; déjà-vu, appunto. L’eterno ritorno dell’uguale. Mi trovo in un clima da fin de siècle a inizio millennio. Può essere il momento giusto per riscrivere l’opera omnia di Nietzsche e spacciarla come inedita, ma ad ogni modo io tento di restarmene a seimila piedi al di sopra del bene e del male.
Accadrà di nuovo quanto è successo per la seconda volta a Parigi e chissà che un domani non mi ci ritrovi in mezzo. Per me alla violenza bisogna rispondere con altra violenza e non mi curo di come questo semplice concetto presti il fianco agli alti ragionamenti di certuni, tuttavia se fossi convinto della maggiore efficacia di altre soluzioni non esiterei un momento a chiamarle in causa in questa mia trascurabile visione delle cose: mi reputo un individuo pragmatico, mai ideologico. Odio ripetermi e non per la ripetizione in sé, ma quando credo che questa si faccia stantia e di conseguenza non mi avventuro in analisi interdisciplinari che non spostano neanche una foglia. La breve storia umana è un florilegio di situazioni peggiori, ma la brutalità è resa tale dalla sua vicinanza temporale e non tutti sanno inquadrarla dentro cicli storici, in quell’incessante andare e venire di tendenze che come una cieca volontà afferma tutte le enantiodromie.

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Nov

Archivio onirico: sogno n° 23 e sogno n° 24

Pubblicato sabato 7 Novembre 2015 alle 02:52 da Francesco

In queste ultime settimane ho fatto due sogni apparentemente opposti che a mio avviso sono invece le due facce della stessa medaglia, ovvero l’esistenza: Eros e Thanatos.



Sogno n. 23

Mi trovo in una stanza e d’un tratto, guardando il cielo, noto un bagliore che traccia una linea bianca verso l’alto da cui poi ne disegna un’altra verso il basso: l’immagine che ne consegue è simile a quella dei due lati di un triangolo equilatero che s’incontrano al vertice dello stesso.
All’improvviso un altro bagliore precipita verso di me e il mio mondo, tuttavia non faccio in tempo a prenderne pienamente atto e mi ritrovo altrove. Tengo la mano di una persona sconosciuta e questa mi dice che non rivedrò mai più chi ho incontrato fino ad allora. Sono di nuovo bambino e passeggio su un suolo bianchissimo che somiglia alla superficie lunare: altro non lo rammento.



Sogno n. 24

Mi trovo in un locale con delle persone che non conosco. Ad un tratto esco fuori e mi siedo per terra accanto a una ragazza senza che in me vi sia alcuna intenzione di volerla avvicinare, però ne riconosco i tratti del volto e quando anche lei riconosce i miei subentra tra noi un silenzio che io rompo con un elogio di sua maestà il caso. Costei ha capelli corvini e un viso che conosco da tempo immemore. La ragazza ha qualcosa con sé, una bimba piccola che accudisce sotto una coperta, ma l’infante a sua volta si trova dentro a una bizzarra custodia di plastica che si adatta ai suoi movimenti. Chiedo il nome della piccola: Acella. Faccio notare alla ragazza come il caso ci abbia consentito di ritrovarci e le chiedo se sia fidanzata perché vorrei frequentarla: lei sembra convincersi dei miei intenti e il sogno s’interrompe.

Il primo sogno è chiaramente influenzato dai miei recenti approfondimenti sulla metempsicosi e forse esprime anche il disincanto del mio inconscio per la vita corrente, infatti a livello cosciente non avverto nulla del genere; c’è un’idea palingenetica, la voglia di un azzeramento, una tabula rasa da compiere per ripartire ex novo, tuttavia l’idea di rinnovamento non è poi così… nuova! Immagino perciò che i bagliori rappresentino un certo modo di distruggere secondo un preciso ordine, affinché la ricostruzione possa avere un senso: le due linee a mio avviso rappresentano quell’ordine sotto forma di regolarità geometrica. Quella persona che non vedo e di cui tengo la mano sono io, ancora in fase di divenire, perciò la stretta è un punto tra la mia nuova nascita e il futuro, ancora indefinito. La superficie lunare penso che sia un dettaglio scaturente da alcune mie letture, precisamente riguardanti Gurdjieff: in queste la Luna è la destinazione di quelle anime che finiscono sottomesse a novantasei leggi e si ritrovano così in condizioni minerali: in tale dettaglio colgo un indizio su quanto impiegheranno i miei progressi per realizzarsi, difatti nelle circostanze anzidette, secondo determinati insegnamenti, a quel punto l’unica evoluzione possibile rimane quella collettiva con i suoi tempi molto estesi. Non nutro alcuna convinzione in merito a quest’esoterica parte, ma l’ho chiamata in causa esclusivamente a fini interpretativi.

Nel secondo sogno ho provato una dolcezza infinita e solo un’altra volta ho serbato il ricordo di una sensazione così forte. Al risveglio mi sono davvero dispiaciuto che tutto quello che avevo provato non appartenesse alla cosiddetta realtà e per un po’ ne sono rimasto amareggiato. 
La ragazza del sogno ha un nome preciso: Stefania. Per lungo tempo costei ha rappresentato  per me un ideale di bellezza, carattere, finanche indole che io, per mia colpa, non sono riuscito a raggiungere, ma dubito che il sogno si riferisse a lei e penso invece che l’abbia usata come simbolo per rappresentare ancora una volta la componente femminile di cui la mia vita è ignara. Con l’evocazione di questa figura l’inconscio mi ha reso note le sue rimostranze per le carenze affettive che in me si sono pressoché cronicizzate e la riprova dell’impiego di quella figura è nel nome della bimba: Acella. Quest’ultimo in realtà è un cognome tipico del sud, presente anche nell’area da cui proviene la ragazza suddetta. La bizzarra custodia di plastica della bambina è invece un riferimento a me, ovvero è la mia Anima (in senso junghiano): essa non cresce ed è per questo che si adatta alla custodia in cui è portata. Illesa, ma in perenne stasi, la femminilità di una donna rimane per me un’idea astratta. Il mio elogio del caso e il tentativo di riprendere a interloquire con Stefania esprimono nel sogno una speranza che nella realtà della veglia è stata soltanto una frustrazione.

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29
Ott

Il Bacio della Medusa a Perugia

Pubblicato giovedì 29 Ottobre 2015 alle 02:31 da Francesco

Ci sono state delle volte nella vita in cui mi sono sentito al posto giusto nel momento giusto e quattro giorni fa mi è capitato proprio questo. Ho guidato per duecento chilometri fino a Perugia in compagnia di me stesso e mi sono fermato vicino al teatro Bertolt Brecht nel quale sono poi entrato per assistere al concerto de Il Bacio della Medusa, un gruppo che io (e non solo) reputo di levatura mondiale nella scena del rock progressivo; attendevo da molto tempo un loro live e non mi sono fatto sfuggire la prima buona occasione di prendervi parte: per fortuna, aggiungo! Di costoro possedevo già i dischi in vinile, ma al termine dell’esibizione ho preso gli equivalenti in CD poiché credo che certa creatività vada supportata. Sul palco è stata eseguita per la prima volta Deus lo vult, un pezzo impegnativo, specialmente per la voce di Simone Cecchini che ha sottolineato questo particolare prima di toccare delle note piuttosto alte: performance superba, davvero esaltante! La proposta di questi alfieri della musica immaginifica è stata tratta dai loro tre dischi nella cornice di un’atmosfera incantata e, per quanto io ne sia stato coinvolto per tutto il tempo, devo ammettere che i momenti apicali per me sono stati i brani provenienti da Discesa agl’inferi d’un giovane amante. In alcuni momenti il flauto e il sax di Eva Morelli sono stati davvero ipnotici, come il piffero in una celebre favola tradotta dai fratelli Grimm! Grandiosa la sezione ritmica, con Diego Pietrini alla batteria (e non solo..) e Federico Caprai al basso; si è dimostrata coriacea nell’accompagnamento e incisiva negli assoli anche la Gibson di Simone Brozzetti! Spero di rivedere presto un altro concerto de Il Bacio della Medusa perché mi ha dato molto e credo che in quel teatro ne sia rimasto un segno.
Il concerto si è concluso con Amico di ieri, un pezzo de Le Orme che Il Bacio della Medusa ha suonato assieme ad Aldo Tagliapietra (quest’ultimo aveva prima eseguito dei brani da solo): mi sono goduto e ho filmato quell’inedita condivisione dello stage, lo stupendo finale di una serata magica le cui buone vibrazioni in me, ne sono certo, non si estingueranno a breve…

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26
Ott

Memoria muscolare

Pubblicato lunedì 26 Ottobre 2015 alle 23:34 da Francesco

A marzo, dopo la maratona di Roma, ho smesso di correre e per circa sette mesi non ho fatto neanche una falcata: le cause sono state plurime. Mi sentivo appagato e avevo qualche fastidio agli arti inferiori, inoltre volevo dedicare una parte maggiore del mio tempo libero ad altre cose. Qualche giorno fa ho riprovato a correre e sono riuscito a fare sedici chilometri e mezzo ad una media di quattro minuti e quarantuno secondi a chilometro! Ne sono rimasto impressionato solo in parte poiché, malgrado la lunga pausa, serbavo in me la chiara sensazione che qualora fossi tornato in attività il mio rientro sarebbe stato meno traumatico del previsto. In quest’occasione ho avuto una prova diretta di quanto possa essere efficace la memoria muscolare e per me tale scoperta (o quantomeno la conferma ad una mia intuizione) è stata davvero fantastica; benché per me sia piuttosto tecnico, ho anche trovato l’articolo di uno studio norvegese a tale riguardo. Di sicuro c’era una cosa che avevo dimenticato ed era la portata dello stato euforico che nel mio caso solo la corsa sa darmi; in sette mesi non ne ho sentito la mancanza, tuttavia appena l’ho riprovata mi sono ritrovato al settimo cielo. Non conosco gli effetti delle sostanze psicotrope e dunque non so se possano essere più forti del rilascio di endorfine che avviene col podismo, ma quantomeno quest’ultimo non ne ha di collaterali e inoltre in me nemmeno provoca dipendenza. Anche quest’oggi ho corso altri sedici chilometri e mezzo, ma con maggiore scioltezza e minori postumi dello sforzo. Non so se tornerò pure a gareggiare: chissà.
In due allenamenti ho ripreso una condizione mentale che invero speravo venisse arricchita da altro o che ad altro si accompagnasse e invece mi ci sono ritrovato davanti così come l’avevo lasciata, ma questo rendez-vous non è comunque poca cosa. C’è un pezzo di Aldo Tagliapietra che ultimamente suona nelle mie orecchie e un paio di volte l’ho ascoltato anche oggi tra una falcata e l’altra: si tratta di Nella pietra e nel vento.

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20
Ott

Ogni verità è ricurva

Pubblicato martedì 20 Ottobre 2015 alle 15:37 da Francesco

Nel terzo volume dei seminari di Jung su Così parlò Zarathustra di Nietzsche mi sono imbattuto in un’interessante digressione secondo cui uomo e donna non si possono incontrare direttamente senza che ne risultino dei problemi; alla luce di questo assunto Jung riconosce un certo ruolo a quei riti che dovrebbero fungere da strumenti apotropaici, come il matrimonio nel cristianesimo. Sono stato colpito da questa riflessione perché io non sono mai riuscito a stabilire un ponte con l’altro sesso, ovvero una comunicazione efficace tra esseri senzienti: ci sono sempre state delle forze contrarie che mi hanno impedito un saldo allaccio con l’altro capo dell’esistenza e quando ho letto il passaggio summenzionato mi sono reso conto che in realtà l’ostacolo è sempre stato generato dallo scontro degli opposti, dal versante maschile e da quello femminile, nella totale assenza di una mediazione capace d’attenuarne l’onda d’urto. Ovviamente in quest’epoca e per un ateo anticlericale come me non può avere alcuna utilità uno strumento come il matrimonio né qualsiasi altro trucco espediente dogmatico, ma deve comunque esserci qualcosa che mitighi le forze in gioco, come suggerisce Jung; per quanto mi riguarda questo qualcosa non può che essere la somma di reciproche introspezioni, o almeno il versamento di quote eguali del proprio Io in un fondo comune, come se, tramite un ardito ossimoro, occorresse un’introspezione a due. Immagino che non potrei trovare delle parole migliori per spaventare chi anche nutrisse un pur minimo interesse nei miei confronti, di fatto complico tutto più di quanto già non lo sia, ma sono lieto che io abbia abbastanza lucidità per sottolinearlo.
In queste righe non mi riferisco a quelle relazioni che si basano sulla meccanicità e di cui potrei fare incetta se solo lo volessi: di fatto ho un potere a cui non ricorro perché mi avvelenerebbe a causa della mia lucidità, quasi come in una reazione allergica, uno shock anafilattico invece che addizionale, di conseguenza per me le cose devono seguire un determinato corso affinché non siano venefiche o foriere di disastro.
La mia lunga avventura nell’analisi dello Zarathustra da parte di Jung sta per volgere al termine e dopo oltre mille pagine trovo che talora le deviazioni dal tema principale siano più illuminanti della strada maestra, ma d’altronde ogni verità è ricurva e tutte le vie dritte mentono.


Arch of Hysteria di Louise Bourgeois, 1993
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18
Ott

La calma dopo la calma

Pubblicato domenica 18 Ottobre 2015 alle 01:29 da Francesco

Per me non c’è una rivoluzione d’ottobre e difatti plurimi tratti della mia esistenza sono ancora stazionari, però ogni giorno apprendo qualcosa di nuovo e non mi lascio trascinare da alcunché di vecchio. Dopo molto tempo ho rimesso le mani su un libro incompiuto, ma non sono ancora certo di terminarne la stesura. Mi rendo conto di come talora sia davvero importante prendere le distanze da qualcosa o da qualcuno per conseguirne una visione d’insieme più accurata che renda giustizia alle debite proporzioni, però a volte questi periodi di transizione suonano come un requiem sulle relazioni tra soggetto e soggetto od oggetto e soggetto: si fanno irreversibili. In queste sere d’autunno, che la settimana volga al termine con i bagordi sabbatici di chi non aspetta altro o proceda come una via crucis per gli altri sei giorni, io resto sempre a casa, nella mia stanza rossa ad approfondire determinate letture; a farmi compagnia tra i dischi in vinile e i libri c’è di nuovo il piccolo Heidegger; così ho chiamato il randagio felino che per cause di forza maggiore ho dovuto sistemare per un paio di mesi in altro loco, come in quarantena.
Attraverso un periodo piuttosto tranquillo su cui ogni tanto si abbattono degli afflati creativi che non trovano un’espressione immediata, ma confido che le loro influenze celesti si depositino nel mio inconscio affinché all’uopo io possa attingervi senza manco accorgermene. Al momento non ho nulla di cui lamentarmi nel mio microcosmo, laddove la giurisdizione mi appartiene in toto e ogni effetto è una eco di me, la prima causa, ma d’altronde non può essere altrimenti: mi basta ricordare quanto fu ottenebrato lo scorso autunno per gioire di quello attuale. Non mi adagio sugli allori, ma non pretendo manco che attorno a me ci siano sempre dei roseti in fiore.

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1
Ott

PFM a Radda In Chianti, Osanna e Metamorfosi a Roma

Pubblicato giovedì 1 Ottobre 2015 alle 17:49 da Francesco

Nella mia esistenza la musica ricopre un ruolo centrale e talvolta è l’unica entità a cui concedo di rompere la sacralità di certi silenzi o di seguirne la fine naturale, perciò non mi faccio mai alcun problema a recarmi da solo in ogni dove quando senta forte il richiamo di certe cose: è sempre un’avventura personale e solitaria di cui sono unico protagonista e depositario. Da alcuni anni a questa parte ho trovato la mia dimensione ideale nel mondo prog, un genere magico a cui ero destinato ad approdare con tutto me stesso, ma i miei ascolti spaziano ancora moltissimo. 
Nelle ultime settimane ho assistito a tre concerti grandiosi, tutti all’insegna del rock progressivo made in Italy. Il quattordici settembre mi sono recato a Radda In Chianti, nel senese, e ho visto per la seconda volta la Premiata Forneria Marconi: è stata davvero un’esibizione coinvolgente in cui la PFM ha proposto un piacevole sunto della propria discografia in una cornice meravigliosa. Franz Di Cioccio ha sempre una carica strepitosa, la trasuda da tutti i pori, e nonostante la sua veneranda età riesce ancora a trasmetterla al pubblico; il basso di Patrick Djivas è quello che tutti conoscono e Marco Sfogli sostituisce degnamente Franco Mussida alla chitarra.
Tre giorni dopo mi sono recato a Roma per il festival Progressivamente che si è tenuto al Planet, un celebre locale capitolino che fino a qualche tempo fa si chiamava Alpheus. Dei quattro giorni in programma io ho partecipato a due serate, perciò in tutto ho guidato da solo per circa seicento chilometri in quarantotto ore. Il diciassette settembre ho avuto il piacere di sentire e di vedere per la seconda volta i mitici Osanna di Lino Vairetti: mi piace la nuova formazione e pure il nuovo album, Palepolitana di cui ho acquistato una copia originale in CD proprio al termine del concerto. Gli Osanna sono un mondo da scoprire e da riscoprire: fantastici. Il giorno seguente, il diciotto, ho rivisto la Nuova Raccomandata Con Ricevuta di Ritorno, con alla voce lo straordinario Luciano Regoli che di recente ho apprezzato anche nell’unico disco firmato dai Samadhi, appena quarantuno anni fa. E poi fu il sesto giorno… Qui mi sono permesso un gioco di parole col nome del primo album dei Metamorfosi, band che sono finalmente riuscito a vedere dal vivo: ci tenevo! Avevo già avuto modo di ascoltare la voce tuonante di Jimmy Spitaleri in occasione della sua collaborazione con Le Orme per quel bell’album (che possiedo in vinile) che è La via della seta e anche su un suo disco da solista (a nome Davide Spitaleri) che s’intitola Uomo irregolare.
Durante il concerto succitato i Metamorfosi hanno presentato Purgatorio, il nuovo album che dopo Inferno (di quarantatré anni fa) e Paradiso (di undici anni or sono) conclude la triade dantesca di questa straordinaria formazione di cui io mi professo grande fan.

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