7
Nov

Archivio onirico: sogno n° 23 e sogno n° 24

Pubblicato sabato 7 Novembre 2015 alle 02:52 da Francesco

In queste ultime settimane ho fatto due sogni apparentemente opposti che a mio avviso sono invece le due facce della stessa medaglia, ovvero l’esistenza: Eros e Thanatos.



Sogno n. 23

Mi trovo in una stanza e d’un tratto, guardando il cielo, noto un bagliore che traccia una linea bianca verso l’alto da cui poi ne disegna un’altra verso il basso: l’immagine che ne consegue è simile a quella dei due lati di un triangolo equilatero che s’incontrano al vertice dello stesso.
All’improvviso un altro bagliore precipita verso di me e il mio mondo, tuttavia non faccio in tempo a prenderne pienamente atto e mi ritrovo altrove. Tengo la mano di una persona sconosciuta e questa mi dice che non rivedrò mai più chi ho incontrato fino ad allora. Sono di nuovo bambino e passeggio su un suolo bianchissimo che somiglia alla superficie lunare: altro non lo rammento.



Sogno n. 24

Mi trovo in un locale con delle persone che non conosco. Ad un tratto esco fuori e mi siedo per terra accanto a una ragazza senza che in me vi sia alcuna intenzione di volerla avvicinare, però ne riconosco i tratti del volto e quando anche lei riconosce i miei subentra tra noi un silenzio che io rompo con un elogio di sua maestà il caso. Costei ha capelli corvini e un viso che conosco da tempo immemore. La ragazza ha qualcosa con sé, una bimba piccola che accudisce sotto una coperta, ma l’infante a sua volta si trova dentro a una bizzarra custodia di plastica che si adatta ai suoi movimenti. Chiedo il nome della piccola: Acella. Faccio notare alla ragazza come il caso ci abbia consentito di ritrovarci e le chiedo se sia fidanzata perché vorrei frequentarla: lei sembra convincersi dei miei intenti e il sogno s’interrompe.

Il primo sogno è chiaramente influenzato dai miei recenti approfondimenti sulla metempsicosi e forse esprime anche il disincanto del mio inconscio per la vita corrente, infatti a livello cosciente non avverto nulla del genere; c’è un’idea palingenetica, la voglia di un azzeramento, una tabula rasa da compiere per ripartire ex novo, tuttavia l’idea di rinnovamento non è poi così… nuova! Immagino perciò che i bagliori rappresentino un certo modo di distruggere secondo un preciso ordine, affinché la ricostruzione possa avere un senso: le due linee a mio avviso rappresentano quell’ordine sotto forma di regolarità geometrica. Quella persona che non vedo e di cui tengo la mano sono io, ancora in fase di divenire, perciò la stretta è un punto tra la mia nuova nascita e il futuro, ancora indefinito. La superficie lunare penso che sia un dettaglio scaturente da alcune mie letture, precisamente riguardanti Gurdjieff: in queste la Luna è la destinazione di quelle anime che finiscono sottomesse a novantasei leggi e si ritrovano così in condizioni minerali: in tale dettaglio colgo un indizio su quanto impiegheranno i miei progressi per realizzarsi, difatti nelle circostanze anzidette, secondo determinati insegnamenti, a quel punto l’unica evoluzione possibile rimane quella collettiva con i suoi tempi molto estesi. Non nutro alcuna convinzione in merito a quest’esoterica parte, ma l’ho chiamata in causa esclusivamente a fini interpretativi.

Nel secondo sogno ho provato una dolcezza infinita e solo un’altra volta ho serbato il ricordo di una sensazione così forte. Al risveglio mi sono davvero dispiaciuto che tutto quello che avevo provato non appartenesse alla cosiddetta realtà e per un po’ ne sono rimasto amareggiato. 
La ragazza del sogno ha un nome preciso: Stefania. Per lungo tempo costei ha rappresentato  per me un ideale di bellezza, carattere, finanche indole che io, per mia colpa, non sono riuscito a raggiungere, ma dubito che il sogno si riferisse a lei e penso invece che l’abbia usata come simbolo per rappresentare ancora una volta la componente femminile di cui la mia vita è ignara. Con l’evocazione di questa figura l’inconscio mi ha reso note le sue rimostranze per le carenze affettive che in me si sono pressoché cronicizzate e la riprova dell’impiego di quella figura è nel nome della bimba: Acella. Quest’ultimo in realtà è un cognome tipico del sud, presente anche nell’area da cui proviene la ragazza suddetta. La bizzarra custodia di plastica della bambina è invece un riferimento a me, ovvero è la mia Anima (in senso junghiano): essa non cresce ed è per questo che si adatta alla custodia in cui è portata. Illesa, ma in perenne stasi, la femminilità di una donna rimane per me un’idea astratta. Il mio elogio del caso e il tentativo di riprendere a interloquire con Stefania esprimono nel sogno una speranza che nella realtà della veglia è stata soltanto una frustrazione.

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29
Ott

Il Bacio della Medusa a Perugia

Pubblicato giovedì 29 Ottobre 2015 alle 02:31 da Francesco

Ci sono state delle volte nella vita in cui mi sono sentito al posto giusto nel momento giusto e quattro giorni fa mi è capitato proprio questo. Ho guidato per duecento chilometri fino a Perugia in compagnia di me stesso e mi sono fermato vicino al teatro Bertolt Brecht nel quale sono poi entrato per assistere al concerto de Il Bacio della Medusa, un gruppo che io (e non solo) reputo di levatura mondiale nella scena del rock progressivo; attendevo da molto tempo un loro live e non mi sono fatto sfuggire la prima buona occasione di prendervi parte: per fortuna, aggiungo! Di costoro possedevo già i dischi in vinile, ma al termine dell’esibizione ho preso gli equivalenti in CD poiché credo che certa creatività vada supportata. Sul palco è stata eseguita per la prima volta Deus lo vult, un pezzo impegnativo, specialmente per la voce di Simone Cecchini che ha sottolineato questo particolare prima di toccare delle note piuttosto alte: performance superba, davvero esaltante! La proposta di questi alfieri della musica immaginifica è stata tratta dai loro tre dischi nella cornice di un’atmosfera incantata e, per quanto io ne sia stato coinvolto per tutto il tempo, devo ammettere che i momenti apicali per me sono stati i brani provenienti da Discesa agl’inferi d’un giovane amante. In alcuni momenti il flauto e il sax di Eva Morelli sono stati davvero ipnotici, come il piffero in una celebre favola tradotta dai fratelli Grimm! Grandiosa la sezione ritmica, con Diego Pietrini alla batteria (e non solo..) e Federico Caprai al basso; si è dimostrata coriacea nell’accompagnamento e incisiva negli assoli anche la Gibson di Simone Brozzetti! Spero di rivedere presto un altro concerto de Il Bacio della Medusa perché mi ha dato molto e credo che in quel teatro ne sia rimasto un segno.
Il concerto si è concluso con Amico di ieri, un pezzo de Le Orme che Il Bacio della Medusa ha suonato assieme ad Aldo Tagliapietra (quest’ultimo aveva prima eseguito dei brani da solo): mi sono goduto e ho filmato quell’inedita condivisione dello stage, lo stupendo finale di una serata magica le cui buone vibrazioni in me, ne sono certo, non si estingueranno a breve…

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26
Ott

Memoria muscolare

Pubblicato lunedì 26 Ottobre 2015 alle 23:34 da Francesco

A marzo, dopo la maratona di Roma, ho smesso di correre e per circa sette mesi non ho fatto neanche una falcata: le cause sono state plurime. Mi sentivo appagato e avevo qualche fastidio agli arti inferiori, inoltre volevo dedicare una parte maggiore del mio tempo libero ad altre cose. Qualche giorno fa ho riprovato a correre e sono riuscito a fare sedici chilometri e mezzo ad una media di quattro minuti e quarantuno secondi a chilometro! Ne sono rimasto impressionato solo in parte poiché, malgrado la lunga pausa, serbavo in me la chiara sensazione che qualora fossi tornato in attività il mio rientro sarebbe stato meno traumatico del previsto. In quest’occasione ho avuto una prova diretta di quanto possa essere efficace la memoria muscolare e per me tale scoperta (o quantomeno la conferma ad una mia intuizione) è stata davvero fantastica; benché per me sia piuttosto tecnico, ho anche trovato l’articolo di uno studio norvegese a tale riguardo. Di sicuro c’era una cosa che avevo dimenticato ed era la portata dello stato euforico che nel mio caso solo la corsa sa darmi; in sette mesi non ne ho sentito la mancanza, tuttavia appena l’ho riprovata mi sono ritrovato al settimo cielo. Non conosco gli effetti delle sostanze psicotrope e dunque non so se possano essere più forti del rilascio di endorfine che avviene col podismo, ma quantomeno quest’ultimo non ne ha di collaterali e inoltre in me nemmeno provoca dipendenza. Anche quest’oggi ho corso altri sedici chilometri e mezzo, ma con maggiore scioltezza e minori postumi dello sforzo. Non so se tornerò pure a gareggiare: chissà.
In due allenamenti ho ripreso una condizione mentale che invero speravo venisse arricchita da altro o che ad altro si accompagnasse e invece mi ci sono ritrovato davanti così come l’avevo lasciata, ma questo rendez-vous non è comunque poca cosa. C’è un pezzo di Aldo Tagliapietra che ultimamente suona nelle mie orecchie e un paio di volte l’ho ascoltato anche oggi tra una falcata e l’altra: si tratta di Nella pietra e nel vento.

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20
Ott

Ogni verità è ricurva

Pubblicato martedì 20 Ottobre 2015 alle 15:37 da Francesco

Nel terzo volume dei seminari di Jung su Così parlò Zarathustra di Nietzsche mi sono imbattuto in un’interessante digressione secondo cui uomo e donna non si possono incontrare direttamente senza che ne risultino dei problemi; alla luce di questo assunto Jung riconosce un certo ruolo a quei riti che dovrebbero fungere da strumenti apotropaici, come il matrimonio nel cristianesimo. Sono stato colpito da questa riflessione perché io non sono mai riuscito a stabilire un ponte con l’altro sesso, ovvero una comunicazione efficace tra esseri senzienti: ci sono sempre state delle forze contrarie che mi hanno impedito un saldo allaccio con l’altro capo dell’esistenza e quando ho letto il passaggio summenzionato mi sono reso conto che in realtà l’ostacolo è sempre stato generato dallo scontro degli opposti, dal versante maschile e da quello femminile, nella totale assenza di una mediazione capace d’attenuarne l’onda d’urto. Ovviamente in quest’epoca e per un ateo anticlericale come me non può avere alcuna utilità uno strumento come il matrimonio né qualsiasi altro trucco espediente dogmatico, ma deve comunque esserci qualcosa che mitighi le forze in gioco, come suggerisce Jung; per quanto mi riguarda questo qualcosa non può che essere la somma di reciproche introspezioni, o almeno il versamento di quote eguali del proprio Io in un fondo comune, come se, tramite un ardito ossimoro, occorresse un’introspezione a due. Immagino che non potrei trovare delle parole migliori per spaventare chi anche nutrisse un pur minimo interesse nei miei confronti, di fatto complico tutto più di quanto già non lo sia, ma sono lieto che io abbia abbastanza lucidità per sottolinearlo.
In queste righe non mi riferisco a quelle relazioni che si basano sulla meccanicità e di cui potrei fare incetta se solo lo volessi: di fatto ho un potere a cui non ricorro perché mi avvelenerebbe a causa della mia lucidità, quasi come in una reazione allergica, uno shock anafilattico invece che addizionale, di conseguenza per me le cose devono seguire un determinato corso affinché non siano venefiche o foriere di disastro.
La mia lunga avventura nell’analisi dello Zarathustra da parte di Jung sta per volgere al termine e dopo oltre mille pagine trovo che talora le deviazioni dal tema principale siano più illuminanti della strada maestra, ma d’altronde ogni verità è ricurva e tutte le vie dritte mentono.


Arch of Hysteria di Louise Bourgeois, 1993
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18
Ott

La calma dopo la calma

Pubblicato domenica 18 Ottobre 2015 alle 01:29 da Francesco

Per me non c’è una rivoluzione d’ottobre e difatti plurimi tratti della mia esistenza sono ancora stazionari, però ogni giorno apprendo qualcosa di nuovo e non mi lascio trascinare da alcunché di vecchio. Dopo molto tempo ho rimesso le mani su un libro incompiuto, ma non sono ancora certo di terminarne la stesura. Mi rendo conto di come talora sia davvero importante prendere le distanze da qualcosa o da qualcuno per conseguirne una visione d’insieme più accurata che renda giustizia alle debite proporzioni, però a volte questi periodi di transizione suonano come un requiem sulle relazioni tra soggetto e soggetto od oggetto e soggetto: si fanno irreversibili. In queste sere d’autunno, che la settimana volga al termine con i bagordi sabbatici di chi non aspetta altro o proceda come una via crucis per gli altri sei giorni, io resto sempre a casa, nella mia stanza rossa ad approfondire determinate letture; a farmi compagnia tra i dischi in vinile e i libri c’è di nuovo il piccolo Heidegger; così ho chiamato il randagio felino che per cause di forza maggiore ho dovuto sistemare per un paio di mesi in altro loco, come in quarantena.
Attraverso un periodo piuttosto tranquillo su cui ogni tanto si abbattono degli afflati creativi che non trovano un’espressione immediata, ma confido che le loro influenze celesti si depositino nel mio inconscio affinché all’uopo io possa attingervi senza manco accorgermene. Al momento non ho nulla di cui lamentarmi nel mio microcosmo, laddove la giurisdizione mi appartiene in toto e ogni effetto è una eco di me, la prima causa, ma d’altronde non può essere altrimenti: mi basta ricordare quanto fu ottenebrato lo scorso autunno per gioire di quello attuale. Non mi adagio sugli allori, ma non pretendo manco che attorno a me ci siano sempre dei roseti in fiore.

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1
Ott

PFM a Radda In Chianti, Osanna e Metamorfosi a Roma

Pubblicato giovedì 1 Ottobre 2015 alle 17:49 da Francesco

Nella mia esistenza la musica ricopre un ruolo centrale e talvolta è l’unica entità a cui concedo di rompere la sacralità di certi silenzi o di seguirne la fine naturale, perciò non mi faccio mai alcun problema a recarmi da solo in ogni dove quando senta forte il richiamo di certe cose: è sempre un’avventura personale e solitaria di cui sono unico protagonista e depositario. Da alcuni anni a questa parte ho trovato la mia dimensione ideale nel mondo prog, un genere magico a cui ero destinato ad approdare con tutto me stesso, ma i miei ascolti spaziano ancora moltissimo. 
Nelle ultime settimane ho assistito a tre concerti grandiosi, tutti all’insegna del rock progressivo made in Italy. Il quattordici settembre mi sono recato a Radda In Chianti, nel senese, e ho visto per la seconda volta la Premiata Forneria Marconi: è stata davvero un’esibizione coinvolgente in cui la PFM ha proposto un piacevole sunto della propria discografia in una cornice meravigliosa. Franz Di Cioccio ha sempre una carica strepitosa, la trasuda da tutti i pori, e nonostante la sua veneranda età riesce ancora a trasmetterla al pubblico; il basso di Patrick Djivas è quello che tutti conoscono e Marco Sfogli sostituisce degnamente Franco Mussida alla chitarra.
Tre giorni dopo mi sono recato a Roma per il festival Progressivamente che si è tenuto al Planet, un celebre locale capitolino che fino a qualche tempo fa si chiamava Alpheus. Dei quattro giorni in programma io ho partecipato a due serate, perciò in tutto ho guidato da solo per circa seicento chilometri in quarantotto ore. Il diciassette settembre ho avuto il piacere di sentire e di vedere per la seconda volta i mitici Osanna di Lino Vairetti: mi piace la nuova formazione e pure il nuovo album, Palepolitana di cui ho acquistato una copia originale in CD proprio al termine del concerto. Gli Osanna sono un mondo da scoprire e da riscoprire: fantastici. Il giorno seguente, il diciotto, ho rivisto la Nuova Raccomandata Con Ricevuta di Ritorno, con alla voce lo straordinario Luciano Regoli che di recente ho apprezzato anche nell’unico disco firmato dai Samadhi, appena quarantuno anni fa. E poi fu il sesto giorno… Qui mi sono permesso un gioco di parole col nome del primo album dei Metamorfosi, band che sono finalmente riuscito a vedere dal vivo: ci tenevo! Avevo già avuto modo di ascoltare la voce tuonante di Jimmy Spitaleri in occasione della sua collaborazione con Le Orme per quel bell’album (che possiedo in vinile) che è La via della seta e anche su un suo disco da solista (a nome Davide Spitaleri) che s’intitola Uomo irregolare.
Durante il concerto succitato i Metamorfosi hanno presentato Purgatorio, il nuovo album che dopo Inferno (di quarantatré anni fa) e Paradiso (di undici anni or sono) conclude la triade dantesca di questa straordinaria formazione di cui io mi professo grande fan.

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18
Set

Archivio onirico: sogno n. 22

Pubblicato venerdì 18 Settembre 2015 alle 03:40 da Francesco

Per quattro mesi non sono riuscito a trattenere ricordo alcuno della mia attività onirica: nei casi migliori ho rimediato dei frammenti del tutto inutilizzabili per miei sforzi interpretativi, dunque mi sono sorpreso quando qualche notte fa ho sognato che un serpente mi mordeva al collo.
Ho collegato la scena suddetta al lavoro d’esegesi che sto compiendo su Così parlò Zarathustra di Nietzsche, difatti in un capitolo dell’opera appare una vipera che morde Zarathustra alla gola. Nel testo il significato del morso è un attentato al Logos (tramite la gola), però là non ha effetto perché Zarathustra è un archetipo come il serpente e a questi dice persino di riprendersi il suo veleno perché non è abbastanza ricco da regalarglielo! Tale interpretazione proviene da Jung e non trova spazio nella mia realtà, non v’è modo di applicarvela, di conseguenza suppongo che il mio inconscio si sia servito di questa immagine per veicolarmi un messaggio che nulla ha a che fare con l’origine da cui ha tratto le proprie sembianze e con le quali mi si è palesato.
Credo che questo sogno presenti molteplici aspetti e, malgrado le mie sciocche resistenze, non intendo trascurare nessuna di quelle possibili interpretazioni che considero un po’ sconfortanti. Anzitutto il morso del serpente può rappresentare un monito dell’inconscio affinché mi svegli e prenda determinate decisioni, ovvero che io cambi pelle, però in questo caso tutto ciò scaturisce dalla mia sessualità inespressa e di ciò io sono certo. Quanto ho appena scritto si lega ad una concezione di Jung, quella secondo cui il serpente esprime il conflitto tra ragione e sentimento che in me si manifesta in un modo preciso; in altre parole una parte di me desidera la carnalità e al contempo un’altra mi costringe a rinunciarci (ecco il conflitto) perché io non voglio avere dei rapporti sessuali che non siano il coronamento di un profondo affetto né voglio dell’affetto che prescinda dalla passionalità (ed è per questo che non ho amiche).
Per Freud il serpente rappresenta il pene (tanto per cambiare), però non è per questa ragione che sessualizzo il sogno in questione e tutt’al più ci ritrovo un’ulteriore conferma oltre a quelle imprescindibili della mia esistenza cosciente.
In questo periodo la mia libido è al minimo storico e ricorro alla masturbazione solo come forma d’igiene per la prostata, quasi svogliatamente, perciò ipotizzo che in me si stia facendo strada una sorta di rassegnazione e probabilmente è da questa che l’inconscio mi mette in guarda: è come se stessi andando contro la mia natura. Non sono capace di conciliare la mia visione dell’amore con la realtà perché non dipende solo da me e sebbene io abbia imparato a non farmene più un problema, fin quasi al punto di rinunciarvi spontaneamente, non posso certo pretendere che di tanto in tanto il mio inconscio non scalci.
La figura del serpente nei sogni ha molteplici significati ed è una figura archetipica su cui potrei spendere molte parole, buone e non, ma preferisco fermarmi qui perché non intendo divagare.

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14
Set

I miei riti di passaggio: parte tre

Pubblicato lunedì 14 Settembre 2015 alle 02:55 da Francesco

La tempesta è ormai prossima, pronta alla carica come una falange armata, e nell’aria non c’è spazio che per la sua ira, ma prima di scontrarmici voglio abbassare le palpebre per un istante.  Raccoltomi in un momento di buio mi sento finalmente pronto per la schermaglia, ma quando riapro gli occhi davanti a me si estende un cielo terso e tutto ciò che mi era ad un passo adesso è svanito. Mi domando come sia potuto accadere un cambiamento così repentino, cosa lo abbia scatenato e per quale ragione; giungo a dubitare persino della mente e così mi chiedo se io non sia rimasto vittima di un’allucinazione: una voce lontana mi suggerisce che tutto può cambiare in un battito di ciglia. Provo di nuovo a chiudere gli occhi per un momento e ne riapro uno per volta, ma tutt’attorno ritrovo la stessa calma della tempesta mancata. Contemplo il sereno per quanto basta a pienarmi il cuore e avanzo verso le dune che si succedono come in una dinastia. Scorgo in lontananza una torre d’avorio che alta e imponente svetta nel deserto: nient’altro mi reclama. Giungo all’eburnea soglia e una signora anziana mi accoglie. «Vai pure, ma quando te ne andrai non chiudere la porta, altri verranno come altri sono già venuti e se dei primi il ricordo deve ancora fare un ingresso trionfale nei posteri, quello dei secondi ha già lasciato il proprio scranno» mi dice costei, vestita di bianco dagli anni e annerita dal sole di millenni. 
Entro dove prima a malapena giungeva il mio occhio e salgo lungo una scala a chiocciola che mi porta su un altro piano. Sopra un leggio vi è un grande tomo dall’aspetto antico che là giace abbandonato da chissà quando. Faccio per sfogliare una pagina ingiallita, ma questa si strappa come se avesse desiderato staccarsi da tutte le altre e allora la gravo col peso del mio sguardo. Su quell’apostata cartacea ci sono scritte verità sbiadite, ma una di queste ritrova il suo stabile splendore appena la leggo tra me e me. Una volta incoronate di senso, le parole che ho davanti illustrano in epigrammi come ogni cosa sia destinata a ricadere nel suo opposto.
Odo rumori lontani e mi affaccio ad un’apertura per lanciare un’occhiata verso l’orizzonte, dove di solito il tramonto si consuma in rossori cangianti. Uomini vestiti di bianco ruotano su sé stessi e una folla attenta ne osserva i precisi movimenti. Lascio cadere la pagina di carta e scendo le scale di calce, ma quando arrivo all’esterno non c’è più traccia dei dervisci. Ritorno dentro, resto al primo piano e mi chiudo in me stesso. Forse un giorno un incontro sarà possibile, ma a dorso di elefante, non di cammello: ed elefantiaca sarà anche la memoria.

Gli elefanti di Salvador Dalì, 1948

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10
Set

I miei riti di passaggio: parte due

Pubblicato giovedì 10 Settembre 2015 alle 23:09 da Francesco

Cadono i corpi dei molti, invero di tutti: prima furono padri e madri, poi divennero dei cadaveri e un domani anch’essi saranno sterminata dimenticanza. Qualche volta sui figli non si ripongono più speranze, ma rose, crisantemi o qualsiasi altra cosa che si confaccia ai costumi funebri della cultura d’appartenenza. Il silenzio dei morti è identico ovunque e ovunque inamovibile.
Lungo le strade dei miei anni terreni scorgo come spesso certuni seppelliscano una parte di sé assieme alle salme nelle quali un tempo vibrava la vita e su cui essi proiettavano i propri umori. Sono intero, io, non ho mai impugnato il badile né ho mai strappato un fiore dalle proprie radici per aggiungere morte a morte. Mi volto verso l’altrui sofferenza per puro caso o forse qualcosa mi induce a farlo senza che me ne renda conto, però quelle coltri di dolore sono troppo distanti perché io possa comprenderle davvero. Non mi manca l’empatia, bensì il ponte sul quale farla scorrere e una destinazione verso cui dirigerla, perciò la lascio assisa sul suo trono, regina d’un regno senza nome nel nome di un Io senza regno.
Un obolo alle prefiche e libero accesso alle frasi di circostanza affinché tutto si ripeta secondo i crismi dei fantasmi. Sono orfano nella mia lingua madre e non partecipo alle feste né alle veglie. Condivido dettami antichi che agiscono sottopelle, ma ne seguo le tracce senza coprire le mie e non mi chiedo dove conducano. C’è chi fatica a stare al mondo e chi se lo porta in groppa senza fiatare più di tanto, tuttavia sapere cosa sia giusto è talora una questione dal sapore insoluto. Proferir parola e preferire di non averlo mai fatto, non per uno smodato amore verso il silenzio, ma per scongiurare i fastidi del rumore. Cosa c’è da dire che non sia ancora stato detto? Forse ciò che manca davvero è il modo giusto di ripetere quanto è già stato pronunciato, però io non dirigo i cori e m’illudo di farne parte solo nelle scene mute, quando al Logos viene negato anche l’onore delle armi e appare in tutta la sua futile apparenza, funzionale solo al quieto vivere.
Così divàgo, solìvago, e un altro mio giorno cangia il proprio senso, perdendolo e ritrovandolo. Oggi la quiete si fa discorsiva, non ci sono arcieri che mirino all’aorta e un vento fresco decreta il principio di qualcosa mentre sancisce la fine di qualcos’altro. La calma prima della tempesta è un’occasione di ristoro e non un presagio di morte: è un momento d’utile quiete e di cui io intendo aumentare la durata sempre di più, al punto che si metta al passo della mia.


Marina con nuvole di pioggia di John Constable, 1827
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9
Set

I miei riti di passaggio: parte uno

Pubblicato mercoledì 9 Settembre 2015 alle 03:47 da Francesco

Eventi inaspettati mi hanno fatto ricadere in turbini di amarezze e una luce lontana s’è eclissata ancor prima che potesse abbagliarmi. Devo affrontare tutto da solo perché al mio fianco non c’è nessuno, ma sono pronto a diventare centuria. Le parole saranno mie testimoni e compagne: io continuerò a scriverne fino all’ultimo giorno di questa odissea.
Attorno a me c’è odore di terra bruciata e nei dintorni vedo soltanto fuochi fatui, come funeree premonizioni che voglio sconfessare con il coraggio che mi resta e con gli entusiasmi che ancora devo raccogliere dai giorni più fruttiferi. Intanto sento il vuoto che si agita dentro di me, bestia acefala che sa comunque mostrare le fauci; questa fiera vuole divorarmi dall’interno, ma fiera è anche la mia indole. Ci sono notti in cui rischio di soccombere perché le spire di quell’essere mi avviluppano in strette mortali e se ancora riesco a liberarmene lo devo solamente ad una forza interiore che forse mi porto in dote da un’altra vita: non me la spiego in nessun’altra maniera. Shiva danza, così crea e distrugge, io invece lotto in un’arena dove le folle hanno occhi che non vedono, ma da quegli stessi spalti, e per la cecità degli astanti, dita accusatrici si tendono verso chi non vi si mescola. Tutto è dentro di me: il creato, che io creo, e la creazione, di cui sono reo. Mio è anche il nemico e la chiamata alle armi per scacciarlo dalle porte che costui minaccia.
Le trombe dei cherubini intonano un imperativo categorico che intima di vivere e quella melodia risuona piacevolmente tra le pareti del mio cerebro nonostante io sia un senzadio. È da quando sono nato che sono lontano dalle mie origini o forse da ancor prima, ma cerco di vivere questo esilio di carne come meglio posso e non ho intenzione di cadere per mia mano.
I tempi non sono ancora maturi perché io colga ciò che è nato con me, ovvero giorni di miele e pelle di pesca, perciò devo difenderne le radici, i rami e le alte fronde oppure tornare alla terra nell’ultimo degli autunni. Scrivo da insonne, con palpitazioni regolari, nell’apparente calma che avvolge l’oscurità o di cui forse quest’ultima si ricopre di sua sponte. Quanto manca ancora al prossimo caravanserraglio? Sento la nostalgia infinita di ciò che ero prima di nascere o forse mi lascio semplicemente confondere da una suggestione che ho còlto chissà dove, chissà quando. Mi faccio scudo con la lucidità e sferzo tutti i colpi che posso verso quella forza contraria che mi vuole estraneo da me. Mi sento come San Giorgio alle prese con il drago, però io non difendo la figlia di un re perché non conosco né nobili né donne: difendo me stesso, almeno per adesso.


San Giorgio e il drago di Vittore Carpaccio, 1502
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