Pubblicato mercoledì 15 Giugno 2016 alle 16:26 da
Francesco
Ho approfittato di un'iniziativa editoriale de Il Giornale e lo scorso sabato mi sono procurato l'edizione del Mein Kampf di Adolf Hitler che è uscita in allegato con il quotidiano.
Avevo già avuto tra le mani il testo che l'artefice del nazismo redasse durante il suo periodo di blanda prigionia, ma non ne avevo mai completato la lettura perché la copia non era mia e non ero ancora in grado di comprenderne pienamente i contenuti. Ho udito aspre polemiche verso la proposta de Il Giornale, ma le ho trovate stucchevoli, faziose, infantili, pretestuose e improntate a un becero buonismo. Per me la nota dolente non è stata affatto la lodevole pubblicazione di un libro dal forte interesse storico, bensì l'ho riscontrata in quanto sterile riproposizione di quest'ultimo nell'edizione del trentaquattro a opera di Bompiani: refusi sparsi, accenti invertiti e una qualità della stampa davvero dozzinale. Avrei preferito una nuova traduzione in un formato migliore e così, a fronte di tali condizioni, non avrei storto il naso neanche se il prezzo finale fosse stato un po' maggiorato. Mi sono comunque cimentato nella lettura e ho piazzato dei segnalibri adesivi nei punti che più di altri hanno catturato il mio interesse: al momento ho superato le prime centodieci pagine e conto di raggiungere l'ultima entro un paio di settimane.
Di certo non mi lancio nel tentativo di proporre un'analisi critica del manifesto politico di Adolf Hitler, tuttavia voglio qui annotare dei rimandi a quanto ho letto sinora affinché possa sostenere come, dal mio punto di vista, in ogni yang ci sia un po' di yin. Non intendo politicizzare questo appunto e mi auguro che nessuno lo faccia, ma tendo a credere che me ne sbatterei i coglioni se una tale e remota eventualità dovesse trovare compimento.
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Non amo il parlamentarismo, di conseguenza mi si sono illuminati gli occhi quando ho letto che il movimento nazionalsocialista partecipava all'istituto parlamentare con il solo scopo di distruggerlo dall'interno poiché vi ravvisava "uno dei peggiori fenomeni della decadenza umana".
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Sposo la critica secondo la quale le regole democratiche esistono solo affinché taluni se ne possano servire per il loro profitto e abbiano la facoltà di dimenticarsene all'uopo.
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Per determinati individui l'esistenza stessa dello Stato fonda già la sua invulnerabilità e dunque quest'ultimo non serve gli uomini, bensì sono essi a servirlo con "una canina adorazione dell'autorità statale". In altre parole il mezzo si trasforma in fine e io non mi sento a disagio a condividere una tale opinione benché sia stata la stessa di Hitler.
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Non credo che una nazione consista nel sangue e non penso che una mescolanza di cosiddette razze possa nuocerle, anzi, considero piuttosto ridicola una concezione così distante dalla realtà, ma ammetto che riconosco una certa valenza a tale aberrazione ideologica dalla prospettiva del mio senso estetico (nel quale, per altro, io stesso non rientro e di cui, di fatto, me ne fotto).
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Sono un aperto sostenitore dell'eugenetica, ma probabilmente io poggio su motivazioni assai diverse da quelle che ispirarono il Terzo Reich. Anch'io credo che "chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino", tuttavia tale punto di vista non può che restare un'astrazione poiché non è possibile fornire una valutazione oggettiva dei canoni suddetti; inoltre la storia e il consesso civile hanno conosciuto figure eminenti che sono scaturite da genitori di tutt'altra risma. Sostengo lo stesso una tale idea per la tutela del nascituro, affinché possa avere pressoché le stesse possibilità di sviluppo psicofisico dei suoi coetanei.
È indubbio che talora degli svantaggi congeniti possono fornire la propulsione adatta affinché l'individuo raggiunga notevoli risultati di compensazione, e su ciò ci si può appoggiare a certi studi di Alfred Adler per corroborare (qualora ce ne fosse davvero bisogno) la validità del concetto di "inferiorità d'organo". Qual è dunque la strada da seguire e, soprattutto, può essere che uno zoppo la percorra meglio dei normodotati?
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Mi trovo d'accordo in modo preoccupante con una precisa critica che Hitler muoveva al sistema scolastico del suo tempo. Per egli l'insegnamento dell'epoca prevedeva troppe cose e, giustamente, si rendeva conto che d'un tale bagaglio culturale rimaneva poco agli studenti e, dunque, auspicava che fossero impartite nozioni più essenziali: esse difatti erano eccessive per il tedesco medio ed esigue per quello che vi ci si doveva poi specializzare; tale ridimensionamento della didattica prevedeva inoltre un aumento del tempo da dedicare all'educazione fisica. Anche in questo caso posso fare mia una tale idea benché io la ritenga giusta per ragioni diverse da quelle funzionali al regime.
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È innegabile che "un giovane contadino può possedere assai più talento che il figlio di genitori occupanti da molte generazioni un alto posto", però la "superiore cultura di quest'ultimo non ha, per sé stessa, nulla a che fare col talento più o meno grande, ha la sua radice nella maggior copia di impressioni che il fanciullo riceve in grazia della sua varia educazione e dell'ambiente che lo circonda". A ciò, anch'esso presente tra visioni più o meno deliranti del Mein Kampf, non posso obiettare nulla, ma d'altro canto non so quanto sia corretto decontestualizzare i punti ai quali mi sono rifatto: può darsi che commetterei lo stesso sbaglio se riservassi un identico trattamento a quanto ho scritto finora tra il serio e il faceto…
Letture parallele e analoga serietà. Sturmtruppen di Bonvi e il Mein Kampf di Hitler.
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Pubblicato domenica 5 Giugno 2016 alle 02:44 da
Francesco
L'estate incombe come la più gradita delle condanne e io spero che mi sia concesso di scontarla fino all'ultima goccia di mare. Mi districo facilmente tra la routine delle cose da fare e la certezza di quelle che non possono accadere, però ve ne sono anche altre da cui traggo sommo gaudio. Sono pervaso dalla tipica tranquillità che segue la moria delle speranze superflui, perciò vivo l'attuale congiuntura come se un'antichissima età dell'oro mi si stesse ripresentando nella più inaspettata delle recrudescenze. Ci sono galassie lontane in cui si stanno verificando eventi di portata inimmaginabile, ma per me altrettanto distanti nonché ignoti risultano i problemi dei miei simili e quindi non m'è dato immedesimarmi né in una stella di neutroni né in un cuore affranto.
Non vivo il distacco come se fosse una sorta di merito atarassico, bensì mi limito a prenderne atto in quanto dinamica contingente e talora mi chiedo se debba temere o meno una modifica in tal senso. E cosa cazzo posso mai saperne? L'intuito dice una cosa, l'istinto controbatte, altre entità prendono la parola e altre ancora la ripudiano. Per adesso va tutto bene com'è e cerco di non prestare ascolto alla frammentazione del Sé, ma d'altro canto io non potrei dare udienza a cotante istanze neanche se lo volessi e per questa mirabile impossibilità devo rendere grazie alle circostanze favorevoli di questo periodo. Mi trovo a debita distanza dalla distanza stessa.
Il tempo ordina alla vecchiaia di distruggere la bellezza, di Pompeo Girolamo Batoni, 1746
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Pubblicato domenica 29 Maggio 2016 alle 23:17 da
Francesco
Sabato mi sono recato a Firenze per prendere parte alla mia terza edizione del Passatore, ma ho sbagliato a interpretare la gara e mi sono ritirato al quarantottesimo chilometro, in cima al Passo della Colla, il punto più alto del percorso: non me ne sono pentito affatto!
Quest'anno il caldo torrido ha provocato molti ritiri, ma nel mio caso non è stato determinante e se avessi impostato correttamente la prestazione sarei riuscito a contenerne gli effetti, quindi non accampo la scusa delle alte temperature! Ho sbagliato io perché ho deciso di non portarmi l'orologio e ho voluto farne a meno per non avere l'assillo cronometrico, ma in questo modo mi sono affidato solo alle sensazioni (che la prima volta mi fecero fare una grande gara) e non mi sono reso conto di quanto il mio passo fosse troppo veloce per le mie capacità. Ho transitato a Borgo San Lorenzo, a circa trentuno chilometri e mezzo dalla partenza, in due ore e trentadue minuti, perciò con un passo di quattro minuti e quarantanove secondi al chilometro: un vero e proprio suicidio. I polpacci sono diventati di marmo poco dopo il quarantesimo e ho fatto bene a ritirarmi prima che sopravvenissero i crampi: non ero nelle condizioni di terminare la gara.
L'ottimo risultato della mia prima sei ore e tutti i chilometri che ho macinato negli ultimi mesi mi avevano dato un'iniezione di fiducia, inoltre alla partenza mi sentivo bene ed ero fiducioso, ma ho vanificato tutto e, per quanto tenessi a questa gara, è anche vero che un secondo dopo il ritiro non me ne è fregato più nulla. Gioisco per i successi e faccio spallucce ai disastri.
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Pubblicato venerdì 20 Maggio 2016 alle 00:43 da
Francesco
Sono trascorsi più di dieci anni da quando vaticinavo al mio avvenire una decade d'isolamento emotivo, perciò le mie previsioni si sono rivelate giuste oltre ogni più rosea o tetra aspettativa. Talora ho udito il lontano richiamo di qualche sirena, tuttavia non mi sono mai infranto su una scogliera né su un seno e di quelle voci sibilline non mi è rimasta neanche un'allucinazione.
Ho vissuto da solo i momenti più intensi ed estatici della mia giovane esistenza, ma più volte mi sono ritrovato a domandarmi se una tale condizione sia stata davvero un privilegio e ogni volta qualcosa d'ineffabile mi ha risposto di sì.
Ho cercato dentro di me ciò che non sono mai riuscito a trovare fuori di me e, anche grazie alla proverbiale benevolenza della fortuna verso gli audaci, mi sono imbattuto in un fuoco interiore che sporadiche folate hanno affievolito solo in quei momenti bui di cui il dualismo stesso è fatto.
In alcune zone di questo pianeta la vita vale poco e anche lontano da quegli inferni terrestri le sue quotazioni non sono certo alle stelle, perciò sono contento che il mio unico bacio sia stato quello della summenzionata fortuna. Ho assistito alla caduta di parecchi individui e il fiume non sembra ancora pago di cadaveri; poco importa che certi morti sembrino ancora vivi.
Io penso a me stesso senza nuocere agli altri e sto riguadagnando il dovuto distacco da certe pretese del cuore per le quali evidentemente non ho ancora le spalle abbastanza larghe, però tutto questo non mi suona nuovo e quindi non mi resta che migliorare l'esecuzione di un vecchio spartito. Non voglio imparare niente da nessuno e non mi faccio un bagno di umiltà, ma intendo sporcarmi le mani per risvegliare le forze che in me sono sopite e della cui presenza non potrei dubitare neanche se lo volessi. Le mie parole sono autoreferenziali, ma d'altronde io esisto (per così dire, o qualsiasi cosa voglia dire) soltanto in relazione a me, perciò non spetta loro l'onere di alcuna spiegazione di cui non siano già munite: ecco le comodità del solipsismo.
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Pubblicato lunedì 9 Maggio 2016 alle 19:58 da
Francesco
Sabato mi sono recato a Firenze per prendere parte a una gara di sei ore su un circuito di duemiladuecento metri, però l'ho corsa con l'intenzione di usarla come allenamento per un'altra competizione. L'inizio è avvenuto a mezzogiorno e fino alle sei ho percorso lo stesso giro più o meno una trentina di volte. Alla fine ho mantenuto un'andatura media di poco al di sotto dei cinque minuti al chilometro e ho accumulato circa settantatré chilometri che mi hanno fatto guadagnare il primo podio della mia carriera come terzo uomo.
Questo genere di eventi sono un po' elitari e la partecipazione non è certo quella delle grandi occasioni, tuttavia vi si riversano coloro che hanno una certa confidenza con le lunghe distanze. La mia prestazione è risultata migliore di qualunque mio pronostico e mi ha dato dei riscontri importanti che spero mi aiutino ad affrontare al meglio una gara a cui tengo parecchio.
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Pubblicato domenica 1 Maggio 2016 alle 19:32 da
Francesco
Stamane mi sono recato in un ridente borgo della zona per prendere parte a una gara podistica di appena otto chilometri: è così che sono tornato all'agonismo dopo oltre un anno di assenza da qualsiasi evento competitivo. Mi sono classificato all’ottavo posto su ottanta partecipanti e mi considero soddisfatto poiché distanze così brevi non sono certo la mia specialità.
Ho corso il primo chilometro a 3'10", il secondo a 3'23", il terzo a 3'26; il passo del quarto invece ha risentito dei primi tratti in salita ed è stato di 4'05". I mille metri del quinto chilometro sono riuscito a farli in 3'58", quelli del sesto a 3'41. Gli ultimi duemila metri li ho fatti in 4'08" e 4'23" per l'arrivo in salita. Mi sono aiutato con un mio compagno di squadra che mi ha preceduto di pochi secondi. Ho spinto molto e ho sofferto parecchio su un percorso tutt'altro che facile in cui si alternavano salite e discese, ma sono contento per la tenuta psicofisica che ho dimostrato.
Mi attendono distanze decisamente più importanti e fatiche non meno intense, però mi sento bene e voglio fare il possibile per dare il meglio di me. Poiché ho ricominciato a mangiare carne posso anche godermi da solo la coscia di suino che ho vinto con il secondo posto di categoria. L'atletica è una madre severa ma giusta e intendo trarne ancora tutte quelle sensazioni che non riesco a trovare altrove.
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Pubblicato domenica 24 Aprile 2016 alle 15:35 da
Francesco
Da alcune settimane ho ripreso ad allenarmi con una certa intensità. Ho messo molti chilometri nelle gambe e non mi sono fatto mancare le salite. La corsa mi ha dato molte gioie e mi ha fatto creare ricordi stupendi, ma non voglio relegarla al passato e spero che per molto tempo ancora faccia parte del mio presente: il futuro è un'astrazione che voglio ingombrare il meno possibile.
Sto ritrovando dentro di me le giuste motivazioni per costringere il mio corpo a soffrire di nuovo e sono esaltato dalle sfide che mi si prospettano. Ho cercato per un po' qualcosa che fosse al di fuori di me, però ho trovato soltanto della sabbia di cui le mie dita non hanno trattenuto manco un granello e così m’è parso di capire ciò che ho udito più volte: "L'unica via d'uscita è dentro".
Non so dove mi porterà questo ritorno all'agonismo e in fondo non me importa nulla poiché il senso è nel transito, non nella destinazione: trovo questa considerazione tanto banale quanto valida e non l'avrei mai scritta se mi fossi votato all'infruttuosa ricerca di un'ostinata originalità.
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Pubblicato mercoledì 20 Aprile 2016 alle 02:13 da
Francesco
Per l'ennesima volta mi ritrovo a scrivere a notte fonda. Credo che il buio avvolga quello che il giorno nasconde e viceversa. Devo ancora comprendere bene se io sia il residuo di ciò che ero o se invece la mia attuale presenza abbia un carattere embrionale; forse sbaglio a incentrare la questione sul dualismo e così pago lo scotto della cultura occidentale in cui sono cresciuto.
Non mi considero esterofilo, non rincorro l'utopia di una pensione e invece di qualche certezza previdenziale preferirei che a me venissero concesse verità insondabili, inalienabili, ultraterrene. Riesco a mantenere le debite distanze senza che io debba compiere lo sforzo di allontanarmi da qualcosa o da qualcuno. Il futuro riserva quello che il passato getta nel suo calderone, però a volte non mi sembra proprio così. Vorrei seminare vento non per raccogliere tempesta, bensì le correnti ascensionali con cui accompagnare il volo liberatorio di un aliante celeste.
Gravito nella prosaicità dei bisogni primari, in mezzo ai detriti dei giorni che si adoperano per un senso comune, ma preferirei che la mia esistenza non avesse più a che fare col tempo, anche a costo di se stessa. Cosa c'è mai da capire che non si possa fraintendere? Mi sento lieve, però sono sempre troppo pesante: zavorra di carne, cellule nervose e, soprattutto, di elucubrazioni.
Non voglio cambiare il mondo perché quest'ultimo va bene così com'è e neanche mi preoccupo di precisare ciò che voglio dire davvero; d'altronde se ci provassi dovrei ammettere la possibilità di interloquire e, soprattutto, l'esistenza di un interlocutore: la metafisica mi affascina proprio per la sua impraticabilità e non mi pesa la sua insostenibile leggerezza.
"Dobbiamo parlare" è un imperativo che equivale a dire l'indicibile senza che di fatto sia udito e dunque si pone su un piano ontologico in netti termini di aseità: un plurale maiestatis nel quale manca persino il soggetto e, sia chiaro, questa sua mancanza è quella per antonomasia.
Posso anche concedermi il lusso di prendere una posizione per rimanere di fatto in quella da cui non mi sono mai mosso: se fossi il Sole l'eliocentrismo smentirebbe se stesso e se l'esistenza di Luigi XIV si fosse protrattra per altri ottant'anni anch'egli se ne sarebbe reso conto.
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Pubblicato venerdì 15 Aprile 2016 alle 14:56 da
Francesco
Circa due settimane or sono ho fatto un sogno che già nell'immediatezza del primo ricordo mi è parso molto indicativo e di conseguenza l'ho inteso come un monito dell'inconscio.
Nelle molteplici e pressoché identiche sequenze di quest'attività onirica mi trovavo seduto in auto come passeggero, accanto al guidatore di cui non riuscivo mai a scorgere il viso, e alla fine si verificava sempre un incidente. Nell'ultima scena di questo sogno ripetitivo ho esternato il mio fastidio dicendo qualcosa del genere: "Ancora? Basta!".
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Mi sembra piuttosto evidente come l'inconscio mi comunichi la propria insofferenza che, volente o nolente, è anche la mia. L'auto è l'esistenza che scorre e io ne sono il passeggero perché al momento mi trovo in una situazione che non posso cambiare. Gli incidenti che si susseguono mi paiono un chiaro segno di ciò che in psicoanalisi si chiama "coazione a ripetere".
Purtroppo conosco le frustranti scaturigini di questo sogno e non mi resta che abdicare a una certa possibilità, forse una delle ultime per certi versi, ma d'altro canto non c'è altro da fare. Ancora una volta mi vedo costretto a ripiegare su me stesso, però a onor del vero devo anche felicitarmi con me medesimo in quanto sono ancora in grado di farlo.
Questo corso degli eventi mi ha inoltre fatto capire con largo ritardo come in passato una certa persona abbia fatto bene ad allontanarsi dall'immagine che si era creata di me (e non da me in quanto me, poiché non mi ha mai conosciuto): l'uroboro mangia di nuovo la sua coda.
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Pubblicato mercoledì 6 Aprile 2016 alle 16:01 da
Francesco
Ho terminato la lettura di un saggio di Erich Neumann sull'interpretazione de La favola di Eros e Psiche di Apuleio. Ho trovato piuttosto interessanti le conclusioni dell'autore e dunque cerco di sintetizzare ulteriormente i già coincisi appunti che ho avuto cura di produrre. Urge premettere che nell'analisi della favola ricorre spesso la terminologia junghiana perché il modus operandi stesso è chiaramente sulla scia di quanto teorizzava lo psichiatra elvetico.
Prime fra tutte alla mia attenzione sono assurte le sorelle di Psiche che sono considerate parte dell'aspetto ombra di quest'ultima nonché figure transpersonali, ma in termini più generali devo evidenziare come Neumann ritenga le peripezie della protagonista quali tappe del processo di individuazione. All'inizio v'è un conflitto tra la componente matriarcale di Psiche e la situazione in cui si trova pressoché prigioniera di Eros, ma costei è spinta ad agire dalle sorelle di cui sopra. In altre parole Psiche si desta ed "emerge per la prima volta dalle tenebre del suo inconscio e dalla severità del vincolo matrimoniale", come scrive Neumann, perciò lei comincia a riconoscere Eros in quanto diventa consapevole, ovvero ama e deve l'impulso di questo cambiamento a chi invece intendeva nuocerla; allo stesso tempo Psiche fa suo lo spirito guerriero del matriarcato e uccide chi l'ha strappata alla terra: tutto ciò rappresenta l'evoluzione del femminile.
Per comprendere meglio quest'ultimo punto occorre ricordare che all'inizio della favola Psiche è destinata alle cosiddette nozze di morte, un'esperienza violenta, ma nei passaggi suddetti ella va incontro a una seconda deflorazione, quella che compie in se stessa. Credo che sia davvero importante ricordare che per Neumann Psiche ama davvero solo quando conosce Eros e questa circostanza si verifica quando la protagonista cessa di vederlo nella sua veste oscura.
Psiche costituisce un'eccezione nelle relazioni tra mortali e divinità, infatti i secondi amano i primi per mero piacere e una volta paghi lasciano che i destini di quelli incontrino esiti fatali, ma per lei le cose sono diverse in quanto si comporta attivamente.
È con Psiche che nasce un nuovo principio d'amore tra l'elemento maschile e quello femminile il cui incontro si fa capitale per il processo d'individuazione. Neumann pone inoltre l'accento sulla contrapposizione tra ciò che rappresenta la mortale e il principio collettivo del piacere che invece è attribuito alla dea Afrodite, però a questo punto, e paradossalmente, la rivale della dea deve ancora conquistare Eros. Tengo a precisare che Neumann nel suo saggio si attiene ai nomi greci benché Apuleio nella propria opera mischi le carte con gli equivalenti del pantheon romano; si tratta di una precisa scelta per rimarcare i significati mitici dell'opera in esame: io la condivido.
Psiche diventa più forte ogni volta che supera le imprese che Afrodite le impone, così prende coscienza tanto di sé quanto di Eros in modo graduale ed è proprio questa gradualità che le evita di finire sopraffatta dalle potenze numinose. Nelle prove che ella è chiamata a sostenere agisce anche un elemento maschile, ovvero lei esprime questo suo lato, ma al contempo rimane fedele alla propria femminilità.
Dopo l’ultimo compito, lasciati gli inferi, Psiche fallisce perché apre il vasetto dell’unguento di bellezza di Persefone che era tenuta a consegnare ad Afrodite, tuttavia è il fallimento stesso che ristabilisce quanto lei aveva distrutto mettendo in fuga Eros: all’inizio lei fa luce spinta dall’odio e alla fine è pronta a fare buio (quindi il sogno mortale in cui cade dopo l’apertura del vasetto) per conquistare il proprio amato.
Vi sarebbe qualcos’altro da aggiungere, dei particolari da approfondire, ma in queste righe non mi sono riproposto d’operare una sintesi del libro e preferisco concludere con una riflessione personale. Il testo consente di comprendere meglio la propria parte femminile e i meccanismi che la regolano, perciò io credo che dia modo a chiunque ne compia un’attenta lettura di capire un po’ più di sé, ma dubito che possa dare dei frutti qualora lo si approcci senza possedere un po’ di familiarità con l’ambito in cui si staglia, ovvero quello della psicologia del profondo sull’impalcatura di Carl Gustav Jung.
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