Mi sintonizzo sulle basse frequenze di questioni terra terra e sulle stesse potrei cominciare a scavare la fossa altrui prima di pensare alla mia, ma tenendo a mente che anche i becchini verrano seppelliti. Le guerre sono un po’ come le ciliegie, una tira l’altra mentre tutti si tirano addosso, però dei morti si fa una fredda conta a meno che non contino davvero per chi ne giudichi l’importanza.
L’ingresso nell’empatia degli altri è a numero chiuso, come in certe facoltà universitarie, quindi le vittime devono presentare determinati requisiti: è richiesta loro la patente di perseguitati, hanno sempre l’obbligo delle catene e non solo d’inverno, devono essere munite di tratti in cui la giuria si possa rispecchiare e poi, affinché venga sposata, la loro causa deve portare in dote un senso di eroismo che sia fruibile a parole.
Le guerre combattono tra loro per decidere quali siano le più gettonate e per gettare le altre nel dimenticatoio geopolitico. I conflitti minori, dove comunque i minori crepano, finiscono in un cesto delle offerte per i collezionisti d’ossa. Il pacifismo è sempre la moda del momento, il gran galà con le buone intenzioni al guinzaglio, ma la pace è una questione di convenienza anche se viene spacciata per convinzione: la vaga assonanza della seconda imbelletta la prima, proprio come accade nell’import-export della democrazia.
In ogni conflitto bellico posso simpatizzare per una parte in ragione di criteri arbitrari, una scelta à la carte di convenienza, tuttavia coloro che io sostengo davvero sono i disertori di ambo le fazioni. La prospettiva di una guerra su larga scala ha fatto tornare in auge l’articolo 52 della Costituzione con il suo roboante incipit: "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino". Secondo te, signor Stato, vado a farmi ammazzare per te e per il tuo concetto anacronistico di patria? Nel 2024, la patria? Dov’è? Non ho mai avuto il milite ignoto come beniamino.
Ti vedo male in arnese signor Stato e se fossi in te non farei troppo affidamento sui coscritti, me compreso. Rifatti i conti. Le cose cambiano, le cartine geografiche si aggiornano, le lingue si evolvono, gli imperi cadono. L’Europa non si chiamerà così per sempre, nell’attuale Italia non si parlerà italiano fino alla fine dei tempi e l’egemonia mondiale, prima o poi, penderà da un’altra parte. Stacce, signor Stato.
Non so come le persone si rapportino tra loro giacché ne frequento poche e di rado, perciò non mi pongo certi problemi né posso identificarmici. Penso che certuni condurrebbero un’esistenza migliore se riuscissero a fare a meno delle loro relazioni umane, o almeno di quelle che vadano oltre la cordialità e la burocrazia. Mi chiedo: come mai individui incompatibili tra loro decidono di unirsi in vincoli di vario tipo, fosse anche solo una semplice amicizia? Mi rispondo: forse i più non riescono a definirsi che tramite quegli altri per i quali, a loro volta, anch’essi diventano altri; ne conseguono legami forzati tra gli associati di un circolo vizioso per i quali, tuttavia, risultano più tollerabili i problemi scaturenti da tutto questo rispetto all’assenza altrui e a quella propria in funzione di terzi. Simili dinamiche a me interessano solo nella misura in cui possa guardarmene e, in seconda battuta, anche come ulteriore tassello d’una mia vana polimatia.
Il più delle volte credo che io faccia bene a stare per i fatti miei, quindi rinuncio di buon grado a certe occasioni di cui sono l’involontario destinatario, ma può darsi che questa mia inclinazione sia dovuta in parte anche alla forza dell’abitudine. Talora mi sono chiesto come sarei diventato se fossi stato uno zoon politikon propriamente detto, insomma, più calato nella parte sociale: a mio parere ci avrei perso molto. È inevitabile che la prolungata permanenza in consessi di vario tipo levi qualcosa all’individuo sebbene quest’ultimo, al contempo, qualcosa riceva in cambio, quasi come indennizzo per la trasferta lontano da se stesso. Mi chiedo se il rapporto tra opera d’arte e fruitore sia da considerarsi una relazione umana tra l’autore e il pubblico, ma anche se lo fosse di certo non potrebbe essere equiparata al vago e, in sparuti casi, piacevole ciarlare de visu su questioni spesso più grandi di chi ne dibatta, convinto di qualcosa, come me.
Mi reputo quasi pronto per partecipare a una nuova maratona e quindi approfitto di questa lieta circostanza per compiacermi di me stesso: non sia mai che io sprechi l’occasione! Dall’inizio di gennaio (e quindi dell’anno) ho corso 356 chilometri a un ritmo medio di 4’07”/km, inoltre negli ultimi undici giorni ho inanellato quattro sessioni produttive: il quindici gennaio una da trenta chilometri al ritmo di 4’14”/km, il diciassette una da trentadue chilometri al ritmo di 4’11”/km, il ventitré una di trenta chilometri al ritmo di 4’02”/km e quest’oggi, venticinque gennaio, un’altra di trenta chilometri al ritmo di 3’59”/km: ovviamente ho fatto anche delle uscite più brevi e più intense al fine di variare le andature per sottopormi ai giusti condizionamenti.
Non mi trovo nella migliore forma atletica di sempre, ma sto molto bene e mi piace la prospettiva di cimentarmi per l’ennesima volta sulla distanza regina. Per me la corsa è una forma di amor proprio e continua a darmi più di quanto io dia a lei, perciò la mia intenzione è di continuare a praticarla finché il corpo me lo consentirà, a prescindere dalle gare, ma la mia età biologica mi consente ancora di migliorare i miei record personali e io voglio provarci perché è un gioco divertente. Forse alla corsa potrei affiancare altre attività non così solipsistiche, ma il mondo è molto complesso e, laddove mi sia possibile, opto per le cose più semplici e autoreferenziali.
È domenica notte, non se fuori tutto taccia, ma le mie casse diffondono a basso volume il ritmo giusto al cospetto di neuroni unificati. Mi trovo in piacevole compagnia di me stesso e ratifico alcuni pensieri che affiorano di loro sponte alla coscienza.
Rischio di riscrivere cose che nel corso degli anni ho già vergato a più riprese, ma non temo le ridondanze né i ritorni d’ogni genere. La ciclicità è fattuale e io mi limito a prenderne atto com’è consuetudine che faccia. Non voglio che le cose mi scivolino addosso perché lo trovo poco igienico, bensì preferisco stare a debita distanza dal loro passaggio e, laddove risulti possibile, ridurne a zero o al minimo il coinvolgimento con la mia caduca persona.
Non ho una grande voglia d’immergermi laddove l’oggettività non tocchi sul fondo e non riesca a ergersi con le proprie gambe, quindi tendono a farmi cacare tutte quelle situazioni e circostanze site all’ombra d’ogni doxa: per carità di Dio o di chiunque ne faccia le veci, vi sono anche delle rare eccezioni a conferma di questa mia tendenza. Il tempo che passa non lascia dietro di sé l’amaro retrogusto delle occasioni perse? Io non ne ho idea perché probabilmente ho mancato anche quello e non me ne importa nulla: preferisco i dolci, le cose zuccherate, i saltuari (ma non salutari) picchi glicemici. La malinconia altrui forse è un po’ di tutti, una sorta di fondo comune, ma con una punta di altruismo lascio la mia quota a chi abbia demoni d’affezione e fatichi ad arrivare alla fine del mese senza rattristarsene a sufficienza: io prediligo i gatti.
L’Ecuador e l’insurrezione dei cartelli
Pubblicato mercoledì 10 Gennaio 2024 alle 21:55 da FrancescoL’attuale crisi ecuadoregna comprova una volta ancora quanto di buono e miracoloso abbia fatto Nayib Bukele in El Salvador, risultati che ai più continuano a restare ignoti, ma da cui io traggo indefessa ammirazione per questo giovane leader.
Se Bukele avesse ceduto alle pressioni internazionali e alle organizzazioni non governative allora il suo paese avrebbe fatto la fine dell’Ecuador, dove l’annuncio di misure simili a quelle salvadoregne ha scatenato la furia dei narcotrafficanti e questa, a sua volta, ha fatto evadere figure di spicco dei cartelli. Uno stato smarrisce la sua ragion d’essere e la sua esse maiuscola appena una forza eversiva riesca a subentrargli o a comprometterne i presupposti.
Il potere può ricamare su di se belle parole e retorica, ma in ultima istanza si fonda e preserva se stesso soltanto con la capacità di reprimere, prevenire o annullare i suoi nemici: il resto non è altro che grammatica istituzionale, salamelecchi da cerimonieri e simboli inutili a cui immolare parole vuote. Ogni dominio è destinato a fiaccarsi e perire, la storia dell’uomo sociale è fatta di un costante avvicendamento ai vertici di schemi piramidali e qualunque equilibrio ha una data di scadenza, perciò la realtà si articola nella piena osservanza di queste dinamiche.
Nella mia nazione immaginaria i narcos vengono messi a morte e vige un forte proibizionismo, inoltre i tossici non sono considerati delle vittime e vengono trattati come complici di un sistema criminale: fantasticare non costa nulla ed è anche un’innocua valvola di sfogo.
Non ho una grande propensione a fidarmi del prossimo e mi aspetto lo stesso approccio nei miei confronti. Ovunque io mi volti subodoro faziosità e forse, malgrado la scomparsa delle cabine telefoniche, è più facile incontrare Superman intento a cambiarsi d’abito che una persona super partes avulsa da favoritismi d’ogni risma.
Dubito che io riesca a essere sempre imparziale, però mi pongo il problema e talora lo aggiro rendendo esplicito il mio atteggiamento interessato. Provo a evitare quanti si presentino come fedeli alla terzietà quando invece non posso né vogliono esserlo, però a mio parere tra costoro i più pericolosi sono coloro che, non rendendosene conto, finiscono per credere alle loro stesse menzogne. Per non confondere le acque basta confondersi poco con gli altri, ma non è detto che quest’opera di prevenzione sia sufficiente: beh, per una copertura completa sarebbe meglio non nascere proprio. A me diverte prendere scelte in maniera autonoma, così in caso d’errore posso consegnarmi subito tutte le bestemmie del caso: blasfemia a chilometro zero.
Talora le consulenze sono inevitabili giacché l’onniscienza non è possibile, ma in quei mesti casi la differenza viene fatta da un certo talento, ossia quello di capire quali opinioni siano affidabili, cosa nient’affatto semplice poiché v’è da pesarle senza tara: per questo fine, nottetempo, col favore delle tenebre, andrebbe sottratta la bilancia alla giustizia per uso personale.
Non so cosa resti in me di quest’anno ormai prossimo alla fine né ho idea di cosa io gli lasci, ma suppongo che il più finisca tra gli oggetti smarriti, negli sconfinati spazi della dimenticanza o in qualche oblio limitrofo. Voglio forse attribuire dei propositi al prossimo futuro affinché debba renderne conto a me stesso? Diamine, no! L’avvenire non è mio figlio, perciò non sono tenuto a crescerlo né ad accudirlo. Tutto va come deve andare e dunque liquido la faccenda così, con un determinismo di cui io per primo mi dichiaro poco convinto, ma lo chiamo in causa per fornire una spiegazione di comodo che serve perlopiù a dare aria alla bocca.
Irroro quest’ultimo mercoledì con una ricercata selezione di pezzi soul e reggae roots sebbene i miei generi d’elezione siano altri. Sono rilassato e soddisfatto per i miei allenamenti in solitaria: sento ancora le endorfine in circolo che ho prodotto quest’oggi con una corsa vespertina di ventuno chilometri in un’ora e ventitré minuti. Se devo rivolgermi a qualcuno mi porto davanti a uno specchio o a una qualunque superficie riflettente che possa farne le veci. Imparo molto da me stesso, tanto che a volte mi chiedo se io sia davvero io. Tutto passa e ci mancherebbe altro che non fosse così: questa è una di quelle banalità a cui non nego mai un po’ di ridondanza.
Al momento non c’è nulla che mi faccia stare sulle spine e non intendo usarle in una simpatica corona con cui farmi trovare pronto per un’eventuale crocifissione: la mia indole è un’altra e preferisco altri ruoli rispetto a quello della vittima o di un suo estimatore. Mi piace bere l’acqua per ragioni che vanno al di là del suo carattere indispensabile ai fini della vita: ora ne sorseggio un po’ con dell’anidride carbonica e chiudo.
Di certo ho vissuto tempi migliori e più stimolanti, ma il tenore dell’esistenza non può essere sempre il medesimo ed è fisiologico che si alternino periodi di segno opposto. Sto cercando di recuperare un’ottima forma nella corsa e mi sto impegnando per finire alcune cose che invero ho quasi ultimato. Non sono poi così male in arnese, ma devo pazientare un po’ per chiudere un ciclo: per fortuna la mia non è un’indole autodistruttiva.
Non ho legami profondi né affetti sinceri, perciò se dovessi venirmi meno per me sarebbe finita e una brutta caduta potrebbe rivelarsi definitiva: in realtà questa mia condizione non mi dispiace e non soltanto per l’assenza di una sua concreta alternativa. Ho una buona stella sebbene io non brilli granché e la considero un grande privilegio, un’egida preclusa ai più e di cui non do per scontato la luce. Non mi fido di nessuno e spero che nessuno si fidi di me, come a rendere equa e speculare la reciproca diffidenza, però tutto questo non implica da parte mia la mobilitazione della fanteria. Credo che io non abbia nulla da condividere in un contesto che oltrepassi la cordialità o la goliardia, quindi sospetto sempre di chi mostri il pur minimo entusiasmo nei miei confronti: sì, sto anche sul chi vive oltre a stare per i fatti miei. Per me cambierebbe poco se i tempi correnti fossero diversi dagli attuali: seguo un calendario che si segue da solo, in piena autonomia. Non so quante primavere mi restino e neanche azzardo un pronostico, però sento ancora in me un forte slancio e questa spinta mi rasserena.
Per me l’anno si appresta a una conclusione anonima e incolore giacché non ho fatto ricorso a pastello alcuno: ho trascurato i cromatismi e le loro dirette implicazioni sul corso degli eventi. Negli ultimi dodici mesi non ho acceso nuovi fuochi né interessi, bensì ho provato a custodire l’antica e modesta fiamma della mia individualità. Non ho dei buoni propositi da lanciare davanti a me, come se dovessi approntare bastone e carota per pedinare l’incedere del tempo: il mio rapporto con gli eventi va da sé come quello con tutto il resto.
Potrei cercare d’invertire la tendenza se in primo luogo ve ne fosse una, ma invero è tutto più aleatorio di quanto già non sia e io non pongo in essere il benché minimo sforzo per dare altra impronta al divenire. Forse la mia libertà di scegliere si risolve anzitutto nell’assenza di una scelta, quasi che le opzioni disponibili mi fossero tutte invise. Poco male, poco bene, insomma poco di tutto, come in una dieta equilibrata. Faccio la differenziata ma non getto basi solide per alcunché e così finisco per vivacchiare nei giorni di cui testimonio l’avvicendamento. Non mi sopravvaluto, infatti non penso che le mie iniziative possano produrre grandi stravolgimenti per la mia realtà immediata: evito sforzi inutili e non accendo entusiasmi effimeri con i fiammiferi altrui. Mi piacerebbe avere un piano da seguire o avere chiaro l’orizzonte migliore da scorgere, ma sono informazioni segrete e non ho gole profonde con cui barattarle nella piena tradizione del do ut des.
Non sono in grado di descrivere il mio stato d’animo, perciò attendo che ne subentri uno più deciso. A volte ho la sensazione che le giornate mi sfuggano, quasi che non riesca a coglierne la parte essenziale e finisca per ritrovarmi spesso in perdita (di tempo). Non posso badare a tutti i malfunzionamenti della realtà né sono titolato a metterci mano: è così che va.
L’esistenza segue regole e curvature di cui non sempre riesco a farmi interprete, perciò non mi fisso su certe idee né pianto paletti nei cuori per accamparmici. Se avessi qualcosa d’importante da dire o da scrivere immagino che mi scapperebbe dalla faringe o dalla tastiera, ma il mio è più l’atteggiamento di chi non deve dare conto a nessuno, spesso compiaciuto nel suo arresto a un passo dallo spleen. Forse non so nemmeno io cosa tutto questo significhi di preciso, però mi va di girarci intorno, come se dovessi portare il cane invisibile a pisciare. Non ho un problema vero e proprio, una questioncina autentica, un’opera prima, ma se ne avessi davvero bisogno potrei contraffarne uno e mettermelo come fermo sul pneuma.
Se avessi qualcosa da obiettare non saprei a quale indirizzo farlo presente. Non ho arte né parte perché mi piace viaggiare leggero. Ogni tanto mi domando a quanto ammonti il tempo restante, intendendo con ciò il mio saldo residuale. Almeno a volte dovrei dare un’altra impronta alle mie ore, come se potessi appicciarci sopra un significato che non mi sia noto o abituale, un colpo di spugna o di coda, l’inopinata caduta di ragioni incidentali. Non ho esami né sguardi da sostenere, tuttavia anche se mi venisse data una pagella non saprei a chi mostrarla né a chi nasconderla: tutt’al più potrebbe diventare un sottobicchiere per le mie tazze di ginseng.