Di certo ho vissuto tempi migliori e più stimolanti, ma il tenore dell’esistenza non può essere sempre il medesimo ed è fisiologico che si alternino periodi di segno opposto. Sto cercando di recuperare un’ottima forma nella corsa e mi sto impegnando per finire alcune cose che invero ho quasi ultimato. Non sono poi così male in arnese, ma devo pazientare un po’ per chiudere un ciclo: per fortuna la mia non è un’indole autodistruttiva.
Non ho legami profondi né affetti sinceri, perciò se dovessi venirmi meno per me sarebbe finita e una brutta caduta potrebbe rivelarsi definitiva: in realtà questa mia condizione non mi dispiace e non soltanto per l’assenza di una sua concreta alternativa. Ho una buona stella sebbene io non brilli granché e la considero un grande privilegio, un’egida preclusa ai più e di cui non do per scontato la luce. Non mi fido di nessuno e spero che nessuno si fidi di me, come a rendere equa e speculare la reciproca diffidenza, però tutto questo non implica da parte mia la mobilitazione della fanteria. Credo che io non abbia nulla da condividere in un contesto che oltrepassi la cordialità o la goliardia, quindi sospetto sempre di chi mostri il pur minimo entusiasmo nei miei confronti: sì, sto anche sul chi vive oltre a stare per i fatti miei. Per me cambierebbe poco se i tempi correnti fossero diversi dagli attuali: seguo un calendario che si segue da solo, in piena autonomia. Non so quante primavere mi restino e neanche azzardo un pronostico, però sento ancora in me un forte slancio e questa spinta mi rasserena.
Per me l’anno si appresta a una conclusione anonima e incolore giacché non ho fatto ricorso a pastello alcuno: ho trascurato i cromatismi e le loro dirette implicazioni sul corso degli eventi. Negli ultimi dodici mesi non ho acceso nuovi fuochi né interessi, bensì ho provato a custodire l’antica e modesta fiamma della mia individualità. Non ho dei buoni propositi da lanciare davanti a me, come se dovessi approntare bastone e carota per pedinare l’incedere del tempo: il mio rapporto con gli eventi va da sé come quello con tutto il resto.
Potrei cercare d’invertire la tendenza se in primo luogo ve ne fosse una, ma invero è tutto più aleatorio di quanto già non sia e io non pongo in essere il benché minimo sforzo per dare altra impronta al divenire. Forse la mia libertà di scegliere si risolve anzitutto nell’assenza di una scelta, quasi che le opzioni disponibili mi fossero tutte invise. Poco male, poco bene, insomma poco di tutto, come in una dieta equilibrata. Faccio la differenziata ma non getto basi solide per alcunché e così finisco per vivacchiare nei giorni di cui testimonio l’avvicendamento. Non mi sopravvaluto, infatti non penso che le mie iniziative possano produrre grandi stravolgimenti per la mia realtà immediata: evito sforzi inutili e non accendo entusiasmi effimeri con i fiammiferi altrui. Mi piacerebbe avere un piano da seguire o avere chiaro l’orizzonte migliore da scorgere, ma sono informazioni segrete e non ho gole profonde con cui barattarle nella piena tradizione del do ut des.
Non sono in grado di descrivere il mio stato d’animo, perciò attendo che ne subentri uno più deciso. A volte ho la sensazione che le giornate mi sfuggano, quasi che non riesca a coglierne la parte essenziale e finisca per ritrovarmi spesso in perdita (di tempo). Non posso badare a tutti i malfunzionamenti della realtà né sono titolato a metterci mano: è così che va.
L’esistenza segue regole e curvature di cui non sempre riesco a farmi interprete, perciò non mi fisso su certe idee né pianto paletti nei cuori per accamparmici. Se avessi qualcosa d’importante da dire o da scrivere immagino che mi scapperebbe dalla faringe o dalla tastiera, ma il mio è più l’atteggiamento di chi non deve dare conto a nessuno, spesso compiaciuto nel suo arresto a un passo dallo spleen. Forse non so nemmeno io cosa tutto questo significhi di preciso, però mi va di girarci intorno, come se dovessi portare il cane invisibile a pisciare. Non ho un problema vero e proprio, una questioncina autentica, un’opera prima, ma se ne avessi davvero bisogno potrei contraffarne uno e mettermelo come fermo sul pneuma.
Se avessi qualcosa da obiettare non saprei a quale indirizzo farlo presente. Non ho arte né parte perché mi piace viaggiare leggero. Ogni tanto mi domando a quanto ammonti il tempo restante, intendendo con ciò il mio saldo residuale. Almeno a volte dovrei dare un’altra impronta alle mie ore, come se potessi appicciarci sopra un significato che non mi sia noto o abituale, un colpo di spugna o di coda, l’inopinata caduta di ragioni incidentali. Non ho esami né sguardi da sostenere, tuttavia anche se mi venisse data una pagella non saprei a chi mostrarla né a chi nasconderla: tutt’al più potrebbe diventare un sottobicchiere per le mie tazze di ginseng.
Mi piacciono le temperature miti di questo tardo autunno e spero che l’inverno propriamente detto si mantenga su anomalie simili. Io non indosso soprabiti da circa sedici anni e la felpa è il capo più protettivo che sia disposto a mettere, tuttavia come mia consuetudine insisto ancora a girare in t-shirt. Per me tutt’al più il cambio di stagione può riferirsi a una serie televisiva, ma non implica alcunché né al di là né al di qua delle ante del mio armadio.
Il valore nominale di un mese e il modo in cui è inteso dai più non hanno ripercussioni concrete sulle mie decisioni, bensì mi affido more solito a un sano pragmatismo e sono pronto a coprirmi allorché le circostanze lo rendano necessario, ammesso poi che queste si verifichino davvero. Quando ero piccolo avevo in orrore l’idea di appesantire le mie vesti per le altrui e infondate preoccupazioni, perciò appena ho potuto me ne sono affrancato. Non mi piace che la mia libertà di movimento venga limitata troppo, quindi non prediligo gli abiti pesanti né tanto meno le restrizioni dovute alle cosiddette emergenze sanitarie. Credo che le luci natalizie diano sempre da scrivere e da pensare, come se le loro emissioni avessero una terza natura oltre a quella corpuscolare e ondulatoria: forse quella delle banalità ridondanti? La migliore celebrazione del Sol Invictus l’ho trascorsa esattamente nove anni fa alle Hawaii, senza il benché minimo indizio d’inverno. Alla feste comandate preferisco quello che io comando a me stesso, perciò anche quest’anno non avrò parte in causa a convivio alcuno e me ne compiaccio.
Da lungo tempo è giunto il momento di appiedare le didascalie, ma talora mi trovo a condurle sulle parole che prendo in prestito dalla mia lingua madre: scrivere è un atto di successione e parlarsi addosso è un modo come un altro per prendere le distanze, qualunque esse siano.
Comprendermi mi preme più che farmi comprendere a meno che non debba farmi comprendere da me stesso. Il monologo è il dialogo capitale, intendendo con ciò quello tra le varie istanze dell’individuo: non vedo altri soggetti oltre il soggetto medesimo. La forza dell’abitudine rende tutto a misura della misura scelta più o meno consciamente.
Secondo me il fascino della connessione con altre entità risiede proprio nella sua incompiutezza annunciata, nella ricercata lucidità che tutto abbaglia. Sono presente a tempo determinato e mi muovo nel recinto delle mie rappresentazioni, però queste non sono i limiti ultimi della realtà propriamente detta: è scontato, è banale e proprio per questo si tratta di una verità subdola, capace di sottrarsi all’attenzione in ragione della sua ovvietà.
Si può discettare su ogni tema, tanto è remoto il pericolo che le parole muovano qualcosa oltre all’immaginazione, ma già se questo fosse il caso non sarebbe poco. A me resta quanto ho seminato e basta per me solo, tuttavia se avanzasse qualcosa lo tirerei fuori l’indomani o nella prossima vita. Sarebbe bello se qualcosa fosse diverso e lo sarebbe altrettanto se qualcosa di già diverso lo fosse di nuovo in rispetto a se stesso: c’è il ghiribizzo del cambiamento.
La pena di morte è una misura di civiltà
Pubblicato lunedì 20 Novembre 2023 alle 22:29 da FrancescoLe statistiche comprovano la violenza di genere, ma secondo me il fenomeno dev’essere inteso come violenza tout court qualora se ne legiferi in maniera efficace. Oggi in Italia un omicida ha buone probabilità di rifarsi una vita, difatti le conseguenze per un carnefice non sono irreversibili come quelle della vittima. Nella mia nazione immaginaria certi reati sono puniti con la condanna a morte, ma a patto che non sussista dubbio alcuno sulla colpevolezza dell’imputato.
Alle pene severe va riconosciuta la funzione di deterrente senza la pretesa che la svolgano sempre, in qualunque caso, giacché non è possibile prevenire tutti gli eventi delittuosi, ma la prospettiva di una morte per fucilazione secondo me farebbe desistere taluni da certe iniziative: il gioco varrebbe la candela anche se finisse per salvare una sola vita innocente. Hegel credeva fermamente nella pena di morte a differenza di quella sciagura chiamata Beccaria, perciò a chi non la considera utile io rispondo che l’assenza della stessa risulta persino più inutile. Non riesco davvero a capacitarmi di come le leggi italiane siano così garantiste e umane contro chi, di propria sponte, abbandona la propria umanità: è un’istigazione a delinquere.
L’educazione può svolgere un ruolo preventivo, ma la repressione e la pena retributiva secondo me sono gli strumenti principali per contenere le violenze, inoltre alcune persone hanno un’indole malvagia e per costoro non v’è processo pedagogico o percorso formativo che regga. I legislatori italiani vogliono mantenere il garantismo per gli assassini, ma pretendono anche che Abele motu proprio si astenga da certe condotte: la loro inazione e la mancanza di coraggio delegano a terzi (gli assassini, appunto) quella violenza che inevitabilmente pervade il mondo e di cui lo Stato, nella mia visione di società, dovrebbe gestire la portata (facendosene interprete con pene violente) poiché non è possibile eradicarla del tutto.
Iersera mi sono recato alle porte di Roma per vedere Frank Gambale al Crossorads Club, lo stesso locale in cui tredici anni fa lo ascoltai per la prima volta dal vivo: è stato uno dei migliori concerti a cui abbia mai assistito. Oltre al buon Frank ho avuto modo di apprezzare anche Dominique Di Piazza al basso, ma tutto il quartetto è stato stellare!
Due virtuosi in una settimana (Malmsteen lo scorso venerdì): quando mi ricapiterà? Questa volta al buon Frank ho fatto firmare un suo album in CD, Coming to your senses che acquistai quasi vent’anni or sono: fu il mio battesimo di fuoco nel mondo della fusion!
Venerdì pomeriggio mi sono messo alla guida del mio catorcio per raggiungere la culla del Rinascimento con il fine precipuo d’assistere al concerto del leggendario Yngwie Malmsteen, un chitarrista divisivo che io ho sempre venerato e per il quale non mi aspettavo che vi fosse ancora una così grande attenzione in Italia, difatti avrei dovuto vederlo nella data del giorno prima in quel di Ciampino se, con mia somma sorpresa, le prevendite per la tappa laziale del tour non si fossero concluse con il tutto esaurito: sold out!
Poco male giacché da anni mi ripromettevo di mettere piede nel Viper Club, un locale fiorentino che non di rado ospita artisti di mio gradimento ma nel quale non avevo mai avuto occasione né voglia di recarmi prima: c’è voluto uno stato di necessità per vincere la pigrizia e la convenienza. Ne è valsa la pena!
La serata è stata fantastica ed esaltante: Malmsteen si è fatto trovare in forma strepitosa, come sua abitudine ha lanciato molti plettri verso i questuanti e ha proposto alcuni tra i brani più celebri della propria discografia. Ho avuto la fortuna e la tenacia di guadagnarmi un posto in prima fila ancorché un po’ defilato: ripeto, concerto eccelso, già inciso su pietra e nella mia materia grigia come uno dei migliori ricordi della mia carriera da spettatore.
Aggiungi un posto al patibolo che c’è un nemico in più
Pubblicato domenica 5 Novembre 2023 alle 01:36 da FrancescoC’è chi compie levate di scudi per chi ricorre agli scudi umani nelle proprie tattiche di guerriglia: i secondi, terroristi, sono osannati dai primi, ossia dai cosiddetti utili idioti. Le opinioni devono abbinarsi con l’immagine che ogni individuo s’è fatto di sé, perciò la realtà dei fatti diventa accessoria nel duplice senso della scarsa rilevanza e in quello di oggetto per l’identificazione di cui sopra. Prendere posizione è un po’ come prendere posto laddove questo sia stato riservato con largo anticipo: nulla di sorprendente.
Nelle feste in maschera ognuno sceglie il costume che preferisce, ma farlo su base quotidiana risulta persino più comodo e offre al soggetto un grado maggiore d’immedesimazione: ognuno si vede per come si sente, con tutte le conseguenze del caso e del caos: giacché mancano i presupposti per l’essenza, resta alle apparenze l’ingrato compito di tracciare i contorni di una personalità, o almeno suppongo che le cose funzionino così. In linea di massima non vedo ragioni per fare più del minimo indispensabile, laddove tutti sono utili e nessuno insostituibile. Si vocia di quello, si vocia di questo, come d’altro canto è stato sempre fatto nei secoli dei secoli e non vedo ragioni valide né volontà stoiche per invertire la tendenza: la vita stessa è tutto un pour parler, così come la parola è un pour vivre.
A breve, nell’ordine dei decenni o dei decimi di secondo (dipende dalla fisiologia d’ognuno), tutto finirà, poiché caduche sono queste irrisorie quote di tempo rispetto ai cicli cosmici. Qualche ora fa ho comprato e mangiato dell’ottima pizza napoletana, la mia preferita, ma tra qualche ora faticherò a riconoscerla nelle mie defecazioni.
Scrivo nel giorno dei santi mentre incombe quello dei morti, però io non parteggio né per gli uni né per gli altri. Sono preda di un ritrovato entusiasmo giacché il mio sesto libro si appresta alla conclusione, ma invero questo mio stato emotivo è dovuto in larga parte a una rinnovata voglia di coltivare le mie abituali e solipsistiche passioni.
Dopo una naturale fase di stallo mi sento in procinto di ribadire a me stesso quello che mi sono sempre detto nelle fasi apicali dell’attuale incarnazione. Non ho né cerco alleati di sorta e credo di non poterne avere, non stabilisco patti, non ho più debiti di riconoscenza, non rispondo alle chiamate anonime e spesso ignoro anche quelle note. Se vestissi in maniera elegante potrei ricamarmi addosso un po’ di retorica, ma sotto certi aspetti il mio stile è asettico ed essenziale. Per mia fortuna non mi sento parte all’epoca corrente, così come non sono mai appartenuto a quelle di cui sono stato coevo, perciò continua a non fottermene una sega di quanto vada per la maggiore: la mia tendenza non dipende da ciò che sia di tendenza.
Non mi reputo poi così diverso da com’ero dieci o vent’anni fa e questa persistenza di certi miei tratti, reale o illusoria che sia, mi piace e mi rassicura sebbene io al momento non abbia bisogno di conforto: certo, non posso escludere la necessità di consolazione qualora mi dimentichi di tirare lo sciacquone dopo una sostanziosa cacata. Non sono clandestino nell’altrui attenzione e vivo sottotraccia ancorché non mi nasconda: non mi reputo uccel di bosco in quanto preferisco i felini ai volatili e in particolare i gatti: il salto con grande slancio rispetto al volo a bassa quota.