Dei ricercatori dell’Università di Stanford hanno svelato un nuovo tipo di neuroni che dimostra come vi sia una relazione diretta tra il ritmo del respiro e lo stato d’allerta. Gli studiosi hanno provato a sopprimere queste cellule nervose su alcuni topi e hanno constatato quanto una simile modifica abbia prodotto nei roditori un rallentamento della respirazione, nonché una maggiore rilassatezza nel loro comportamento.
Una delle conclusioni di questa ricerca conduce a un’ovvietà della conoscenza vedica, ovvero all’influenza del respiro sulla mente e nella fattispecie sui livelli di stress, ma se un’ipotesi simile (che nella pratica è una certezza millenaria) fosse l’unico prodotto di quest’esperimento, allora vi scorgerei una rivoluzione pari alla proverbiale scoperta dell’acqua calda: invero le possibili implicazioni sono altre. I neuroni in questione producono delle proteine peculiari, perciò, qualora gli scienziati ne conseguissero una conoscenza sufficiente, potrebbero puntare allo sviluppo di farmaci specifici per controllarne l’attività.
La notizia di questa scoperta mi ha ricordato quanto sia opportuno che io riprenda al più presto la pratica del pranayama, difatti ancorché da autodidatta avevo iniziato a esperirne i benefici ed è stata soltanto l’incostanza dei miei primi approcci che mi ha impedito di approfondire le tecniche respiratorie.
Qui v’è il comunicato stampa della facoltà di medicina dell’Università di Stanford.
Conduco una vita anomala che è caratterizzata da un forte isolamento e dalla ferma volontà di non contribuire alla continuazione della specie, perciò ogni tanto, per farmi coraggio, parlo a me stesso con più convinzione del solito. Sono sempre stato solo nei miei momenti migliori e anche con il senno di poi sono contento che non ci sia stata una diretta condivisione di quei picchi esistenziali, ma altrettanto sinceramente ammetto che in diverse occasioni avrei avuto bisogno di un abbraccio o d'una parola di conforto. Allorquando riesco a parlarmi saggiamente in me si risveglia un'immagine archetipica che mi infonde nuove energie: è come se mi trovassi di notte al centro di una radura e all'improvviso, uno o due alla volta, i membri della mia tribù uscissero dalla foresta con i volti dipinti per battere ritmicamente in terra i loro bastoni, così da incitarmi a una nuova ordalia. Per me quella dell'inconscio collettivo non è una semplice teoria, bensì un'esperienza diretta di cui Carl Gustav Jung prima e meglio di altri ha saputo dare conto.
Non ho ancora sviluppato un sincero disinteresse verso il futuro, ma vi è senza dubbio in me uno spontaneo e progressivo scollamento dall'avvenire per il quale, comunque, non posso escludere a priori un'eventuale inversione di tendenza. Talora attraverso dei periodi, come l'attuale, in cui sento la prossimità della fine, ma non sempre riesco a capire subito se nelle vicinanze aleggi l'ombra della morte o se invece, caso più probabile, si tratti della conclusione di una fase transitoria a cui inesorabilmente deve seguire un nuovo inizio.
Mi atterrisce la ciclicità dell'esistenza, la trovo addirittura demenziale, però l'eterno ritorno dell'uguale era un fatto assodato già prima che Nietzsche lo nobilitasse. Non mi attendo nulla di buono dai giorni che devono ancora venire, ma neanche alimento la trepida attesa per le peggiori catastrofi. Sono pronto a seguire la parabola discendente per giungere a quella che spero sia una dolce e tarda scomparsa, tuttavia non so cosa abbiano in serbo per me gli eventi e la mia unica certezza è che io non morirò di curiosità: forse di vecchiaia, per una malattia fulminante, in un incidente domestico o stradale, magari in un attentato di matrice islamica, ma non di curiosità, ne sono sicuro.
Ferrara è un piccolo gioiello con tutte le sue meraviglie estensi e ieri vi ho corso la mia nona maratona, anch’essa sotto il muro psicologico delle tre ore come le precedenti otto, ma dopo l’arrivo al traguardo mi sono fatto una bella doccia calda e poi ho macinato altri chilometri a piedi per fare un tuffo nel Rinascimento.
Per raggiungere la città ho avuto di nuovo quel problemino col navigatore della mia auto, difatti a tutta prima ho pensato che il TomTom mi avesse condotto ancora una volta laddove Mugabe è un eroe nazionale e il voodoo una scienza esatta. Chissà che ne sarà di città come Ferrara quando il suicidio etnico sarà completato.
La gara è andata bene e come ho già accennato anche questa volta sono sceso sotto le tre ore, difatti ho impiegato 2h56’32”: sono arrivato diciottesimo assoluto e terzo di categoria.
Non ho inseguito il mio record personale, ma fino al trentacinquesimo ho rischiato comunque di centrarlo, difatti viaggiavo attorno ai 4’02” al chilometro dopo una cauta partenza a 4’05”. L’organizzazione è stata perfetta e l’altimetria pressoché nulla.
Dall’inizio dell’anno ho corso appena 397 chilometri (più la maratona d’oggi), di cui 112,5 dal sei al tredici marzo per via di vari lunghi ad alta intensità, perciò non avevo nelle gambe l’allenamento necessario per fare di meglio. Ho faticato, certo, ma meno rispetto ad altre prestazioni dove il tempo finale è stato pressappoco quello d’oggi.
Questi i miei intertempi:
10KM: 40’46”
Mezza maratona: 1h25’14”
30KM: 2h01’08”
Arrivo: 2h56’32”
Dall'inizio dell'anno ho corso appena 397 chilometri, ma dal sei marzo al tredici ne ho fatti ben 112,5 a un ritmo medio di poco inferiore ai 4'10" al chilometro: per me questi numeri denotano una buona qualità a fronte di una quantità ridotta, almeno per i miei obiettivi.
Quest'oggi mi sono iscritto alla mia nona maratona e vorrei avere qualche chilometro in più nelle gambe per nutrire la certezza di concludere anch'essa sotto le tre ore, però questa volta mi attende un salto nel buio e può darsi che in fondo tale circostanza non mi sia del tutto sgradita. Mi piace la corsa perché mi restituisce ciò che io le do nella solitudine dei miei allenamenti e me ne avvalgo per affermarmi al cospetto di un tempo triplice: quello che m’è dato da vivere, quello col quale mi confronto e quello che forse non ha mai avuto inizio.
Ormai non credo manco più a chi mi dice la verità, ma solo all'asfalto, al sudore e alla fatica. Nell'arco di quest'ultimo lustro ho battagliato lealmente sulle strade di mezza Italia e in alcune occasioni la comunanza dello sforzo mi ha permesso di conoscere dei grandi uomini, mossi dalle ragioni più disparate. Invero talora ho avuto modo di contemplare alcuni culi di donne ai quali mancava solo il dono della parola, ma il più delle volte ho còlto negli occhi e nelle frasi di altri atleti una grande voglia di riscatto, come un fuoco sacro da custodire nel silenzio di quelle notti che durano anche di giorno.
La corsa è quasi una scienza esatta, il margine per l'improvvisazione è pressoché nullo, ma non di rado il cuore e la testa possono decidere le sorti di una gara.
Lunedì ho fatto l'ultimo allenamento importante, 32 chilometri in quel di Grosseto, e conto di metterne altri in cascina benché il tempo stringa e quest'idea possa non essere la migliore.
Come altri prima di me, anch’io considero il corpo un tempio, perciò cerco di tenere allenate le mie capacità motorie e psichiche senza l’illusione che possano evitare il decadimento naturale a cui ogni cosa è soggetta: c’è modo e modo di arrivare alla fine, malgrado la sua vicinanza.
Per quanto concerne la memoria procedurale, oltre a suonare un po’ la chitarra elettrica mi avvalgo più che altro del palleggio calcistico, come già esemplificai anni fa nel seguente video: https://www.youtube.com/watch?v=-4aXG4yUAz0
Un altro modesto contributo alla mia neurogenesi lo do con l’esercizio della memoria semantica. Da incostante autodidatta ho ripreso più volte lo studio degli ideogrammi giapponesi, ma in realtà questi sforzi irregolari hanno giovato più alle mie capacità mnemoniche che a una vera padronanza della lingua (pressoché nulla). Al momento conosco circa cinquecento kanji e trovo incredibile come a distanza di tempo mi risulti sempre più facile il recupero completo delle mie conoscenze pregresse. La mente offre piccole meraviglie a chiunque la nutra e non la ottunda.
Non credo che l’evoluzione umana sia un processo lineare benché il resoconto delle puntate precedenti dia quest’impressione. Nell’epoca attuale mi sembra che l’Occidente stia pagando le utopie che cominciò a coltivare dopo la perestrojka. La folle idea che tutti gli esseri umani siano uguali si scontra oggi con le loro differenze e d’altro canto non può essere altrimenti.
Il disagio della civiltà è stato descritto bene da Freud ed è per questo motivo che il costo di certi ideali si traduce in nevrosi di massa: il ritorno del revanscismo in tutto l’Occidente è il chiaro segno del contrasto che sussiste tra un minoritario desiderio di integrare altri popoli e il netto rifiuto per questo melting pot da parte di maggioranze inascoltate. È come se i governi buonisti fossero la coscienza e i popoli, fedeli all’istinto di conservazione, rappresentassero l’inconscio con tutti gli inderogabili segnali che quest’ultimo impone per propria natura.
In tutto ciò io vedo il risveglio di quello che Jung chiamava inconscio collettivo, ovvero un celere ritorno a quell’aspetto tribale delle società antiche che si ripresenta allorché la minaccia è sotto gli occhi di chiunque. V’è una regola aurea che vale tanto nel microcosmo d’ognuno quanto nel macrocosmo: tutti i contenuti che vengono rimossi dalla coscienza sono destinati a riaffiorarvi in seguito con ancor più forza. L’accoglienza indiscriminata, l’assalto al welfare, la costante idea d’ingiustizia che, mutatis mutandis, ricorda quella di un bambino al quale venga imposto un fratello dai genitori, ebbene questo e molto altro concorre a prospettare reazioni sempre più efferate e frequenti da quanti si vedono estorta la cosiddetta solidarietà.
Conosco persone che un tempo non avrebbero fatto manco per scherzo una battuta razzista, oggi invece sembrano dei ferventi nazionalsocialisti, tanto che talora persino nei loro sorrisi si possono intravedere croci uncinate. La storia dell’uomo non inizia nel secondo dopoguerra ed è inutile chiedere a qualcheduno di rinunciare ai suoi archetipi, difatti non potrebbe distaccarsene neanche se lo volesse. Vi sono fieri comunisti d’un tempo che oggi riconoscono tranquillamente l’esistenza non solo di un problema, ma di un vero vulnus legato ai flussi migratori; d’altro canto le categorie novecentesche non hanno più attinenza con la realtà, sono superate, ed è questa la vera uguaglianza degli esseri umani: la loro inclinazione alla sopraffazione di cui anche l’istinto di conservazione è una forma attenuata.
Può darsi che un giorno grazie ai progressi della tecnica le utopie saranno a portata di mano, ma ciò di certo non avverrà mai grazie a quanti, come nel gioco delle tre carte, pretendono di dare dei diritti alle minoranze allogene sottraendoli a chi li ha resi possibili.
È assurto agli onori delle cronache il caso di un trentanovenne che colto da cecità e tetraplegia (a seguito di un incidente) reclamava da tempo il diritto all’eutanasia. In realtà la faccenda era già nota a chiunque come me segua le iniziative per sostenere il diritto a una morte dignitosa.
Alla fine costui è stato costretto a raggiungere le terre elvetiche per trovare là una via di fuga dalle sua prigione di carne. L’attuale parlamento (al pari di altri, d’altronde) ha rinviato più volte la questione dell’eutanasia, come in un bieco tentativo di rimandare al più tardi possibile il problema, cosicché il Vaticano non se ne abbia a male. Orde di pingui maiali legiferano su molte inezie e perdono tempo nei dibattiti interni ai loro partiti merdosi, però non riescono a dare la priorità ad alcune faccende che sono lasciate in sospeso di proposito per una calcolata ignavia. Oggigiorno soltanto chi ha certe risorse economiche può concedersi il lusso di porre fine al suo inutile calvario, ma tutti gli altri sono costretti a protrarre il proprio strazio fino a quand’esso non ne consumi l’ultima goccia di energia: così pretendono alcuni luridi bastardi in nome del loro altrettanto lurido credo e in ragione di una papesca cortigianeria.
L’ho già scritto e detto più volte, tuttavia, poiché repetita iuvant, colgo l’occasione per ribadirlo ancora: qualora mi accadesse qualcosa d’irreparabile io non vorrei nessun tipo di accanimento terapeutico e se avessi ancora un briciolo di coscienza chiederei un celere ricorso all’eutanasia. Invero, per quanto nella piena clandestinità di un vuoto normativo, ma in forza di un’umanità che a taluni è del tutto sconosciuta, già da tempo l’eutanasia trova una sua applicazione nelle zone grigie della pratica medica.
Nei saggi di Manlio Sgalambro ho trovato più volte delle caustiche certezze, piccole opere che sono state create per via di levare e ai piedi delle quali ho notato sempre lo stesso materiale di risulta: la consolazione. Pagina sessantatré del “Trattato dell’età” si conclude così: “La specie non è niente, alcuni uomini sono tutto”. Ciò è innegabile. Io stesso sono parte di coloro che fanno soltanto volume e non lo affermo in un accesso di stucchevole modestia, ma è quanto decreta la realtà: il mio pregio tutt’al più è quello di averne contezza.
C’è un altro bel passaggio dieci pagine dopo; l’apertura di una chance in relazione al divenire che ha tutta l’onestà di una visione avulsa da qualsiasi forzatura: “Colui che ha accolto in sé il Tempo (la maiuscola è voluta), pur nello spavento, si sottrae al giochino del ricordo, al balbettio della durata morente che mescola il cammino percorso con la strada smarrita. Concetti, non ricordi sono il suo pane. Questi ultimi provengono dal calore malsano del letto e del dormiveglia. I concetti, invece, dall’esperienza adulta, dai traffici della vita, dall’invecchiamento di cose e fatti, da un’ultima occhiata al cielo”.
Ci sono dei giorni in cui mi sento alla deriva, del tutto perso in quest’oceano privo di senso che è la vita mortale. Non ho aspirazioni ultraterrene e non mi aspetto una promozione celeste sul campo, ma tutt’al più nei campi elisi. A volte penso a come il tempo riesca a passare in sordina per molti anni, senza destare stupore alcuno prima che, improvvisamente, scateni dei dubbi ferocissimi su come sia stato impiegato fino a quel momento.
Invero sono molte di più le giornate in cui sono in sintonia con la realtà che mi circonda e di cui faccio parte, perciò non presto troppa attenzione alle ciarle di una saltuaria stanchezza e ne rido sguaiatamente ogni volta che torno in forze. La mente è un congegno miracoloso, però è anche capace di tiri mancini ed è per questa ragione che una volontà tenace deve contenerne l’esuberanza, o almeno questo è quanto presuppongo per me stesso.
Al di là delle prassi quotidiana, comprensiva di tutte le sue bizzarrie ed efferatezze, v’è di certo una porzione della realtà che è del tutto inedita per i sensi, ma di cui è difficile scandagliare già la sola superficie: non è solo la Luna che possiede una faccia nascosta. Sempre più di sovente avverto in me la forte necessità di avvicinarmi a una dimensione che sia altra da quella che mi è dato d’esperire ogni dì, ma al contempo mi guardo bene dalle trappole dall’autosuggestione e dal facile fascino di certi esotismi. Nutro la convinzione che sia possibile produrre in sé stessi dei temporanei cambiamenti organici per fare un uso insolito delle proprie funzioni cerebrali, però senza l’ausilio di sostanze psicotrope e quindi con un protocollo privo di effetti collaterali.
Mi auguro che prima o poi da una mia esperienza inedita io possa raccogliere qualcosa di cui scrivere con cognizione di causa, ma non è escluso che tutto finisca in un nulla di fatto, come forse l’esistenza stessa.
Negli ultimi giorni ho notato un certo e comprensibile clamore attorno alla lettera di un ragazzo suicida. Ho letto il testo integrale dello scritto e vi ho ravvisato un malessere che a mio modesto avviso non era ascrivibile soltanto alle questioni lavorative, ma certa stampa ne ha sintetizzato il contenuto come un semplice j’accuse alla politica. Nelle ultime parole del ragazzo friulano ho scorto una profonda lucidità e una punta di stoicismo: ciò che egli ha affermato in merito all’esistenza e alla soggettività dei limiti di sopportazione non può che trovarmi concorde, perciò gli auguro che la terra gli sia lieve.
Io stesso in passato ho preso in considerazione la possibilità di uccidermi, ma alla fine le mie riflessioni sono sfociate in una semplice meditatio mortis che ha asservito quel processo d’individuazione di cui ancora mi occupo. Non so chi fosse quel ragazzo né quante ne avesse passate, mi era del tutto sconosciuto così come certe volte lo sono anche le persone più vicine a un individuo, però mi chiedo come sarebbe andata se egli avesse resistito ancora un po’: si sarebbe ucciso ugualmente tra un anno o due? Gli eventi sono passibili di rivoluzioni copernicane in ogni momento e a qualsiasi livello, ma nessuno può pretendere da un altro che egli vi creda davvero: chi è ancora vivo come me può tutt’al più giocare col senno di poi al cospetto dell’altrui scelta di morte. Non si può salvare nessuno da se stesso: homo faber fortunae suae.
Un suicidio è una sconfitta per tutti, anche per chi s’illude di potersene fregare: in qualche modo quel gesto di libertà echeggia tra i vivi. È mia convinzione che ognuno abbia dentro di sé una forza sopita e vorrei che le persone in difficoltà potessero risvegliarla all’uopo con il concorso del fato, ma il mio auspicio è una mera utopia. Per conto mio auguro ogni bene a chi sta lottando contro i propri demoni.