Mi viene da ridere nei momenti meno indicati e per i motivi più inopportuni, ma d’altro canto non provo mai a trattenermi di fronte a certe pretese di serietà e quindi mi domando se ci riuscirei davvero qualora mi applicassi: mistero, come ripeteva Enrico Ruggeri negli anni novanta.
Posso vantare un alto grado di libertà perché sono abituato a stare bene da solo, perciò non temo che qualcuno si allontani da me, mi eviti o mi conceda così tanta importanza da farmi oggetto della sue antipatie. Non ho alcuna giurisdizione sulle opinioni altrui e anche se l’avessi non saprei quale vantaggio trarne. Non conosco la pressione di terzi, ma la mia è buona, tanto la minima quanto la massima. A volte nutro il dubbio che in questa mia tarda gioventù io mi stia perdendo qualcosa, ma puntualmente mi viene in mente la fila per l’ingresso di un cinema chiuso; e comunque non voglio vedere il film di qualcun altro, ma preferisco essere il regista di quello in cui recito. Lascio passare il tempo perché mi considero piuttosto educato, però non mi abbasso a riverirlo e neanche lo prego di portare i miei saluti a qualche conoscente comune.
Conduco una vita anomala a cui manca qualcosa, però mi chiedo quale esistenza possa dirsi completa fino a quando non chiuda i propri conti col divenire. Non mi preoccupo troppo di farmi comprendere quando scrivo o parlo, inoltre mi piace portare le mie rare conversazioni a un punto morto per non discriminarle da quelle che le hanno precedute. Gli interessi e le passioni individuali mi permettono di coltivare piante rigogliose da cui traggo frutti nutrienti per il mio spirito, perciò sto attento alle spine e tolgo le erbacce.
Non avverso i rapporti umani e di tanto in tanto m’intrattengo a parlare con taluni, ma non ho mai ragioni valide per allungare il brodo. Non ho granché in comune con i miei conoscenti e vivo in una realtà troppo piccola per attendermi che qualcuno o qualcosa mi folgori sulla via del supermercato, ma al contempo le dimensioni ridotte del mio contesto mi risparmiano la lotta con una certa alienazione contro cui mi troverei di certo a combattere se vivessi in una metropoli.
Rivendico la mia individualità perché ne sono affascinato e non la riduco a mero narcisismo, bensì la incenso quale appagante certezza secondo cui nessuno possa volermi più bene di quanto io ne voglia a me stesso. L’amor proprio è la mia opera maggiore e negli ultimi tempi le ho apportato ulteriori migliorie, difatti non mi sono mai sentito tanto in sintonia con me stesso quanto lo sono da alcuni mesi a questa parte. Seggo da solo sul trono, ma può darsi che un domani me ne faccia fare uno a due posti per stare ancora più largo.
White Marble Marathon e Maratona di San Valentino: 4°e 6°
Pubblicato mercoledì 21 Febbraio 2018 alle 22:51 da FrancescoHo corso due maratone in una settimana. La prima a Marina di Carrara, ossia la seconda edizione della White Marble Marathon. Con un ritmo di 3’49” al chilometro mi sono classificato al quarto posto in 2h41’26” e sono stato il primo bianco caucasico all’arrivo.
Non ho potuto ricevere l’astronomica cifra di settantacinque euro perché non faccio parte di alcuna squadra e la FIDAL, forse ispirata dal codice di Hammurabi, non consente il ritiro dei premi in denaro ai lupi solitari come me, ma forse le cose andrebbero diversamente se mi presentassi alla partenza in qualità di foreign fighter: non conosco le vere ragioni di siffatte regole e immagino che vadano cercate in qualche testo alchemico del Basso Medioevo. Lascio volentieri ai sepolcri imbiancati l’aurum vulgi, tanto io cerco altro che non posso trovare al di fuori di me.
Mi sono iscritto all’evento pochi giorni prima dello stesso e non avevo aspettative così come non ne nutro verso l’esistenza in generale.
Ho assecondato le mie buone sensazioni e sono partito con un ritmo di circa 3’53” al chilometro, passo che ho mantenuto per buona parte della gara con variazioni minime. Ho raggiunto la mezza maratona in 1h22’ e quindi ho corso più velocemente la seconda parte con conseguente negative split, ma è all’altezza del venticinquesimo chilometro che mi sono esaltato, poco dopo l’inizio della salita verso Massa, difatti là ho azzardato un bel cambio di passo e ho staccato un atleta per inseguirne un altro.
La scorsa domenica invece ho varcato i confini umbri per prendere parte alla maratona di San Valentino in quel di Terni, a una settimana esatta da quella di cui ho già dato conto. Sono giunto al traguardo in 2h42’43” (real time) e mi sono classificato al sesto posto, secondo di categoria, riuscendo di nuovo ad aumentare l’andatura nella seconda parte: un altro negative split!
Anche a ottobre corsi due maratone in una settimana (Parma in 2h44’22” e Lucca in 2h45’26”), ma questa volta ho fatto registrare dei tempi migliori su percorsi più difficili, difatti i primi ventiquattro chilometri della maratona di San Valentino sono contraddistinti da continui tratti in salita. Non sono arrivato al traguardo particolarmente provato e due giorni dopo la gara, ovvero ieri, ho corso 27 chilometri a 4’25” di media!
Mi diverto e non pianifico nulla, non ho ossessioni cronometriche, però mi piace analizzare i dati che produco. Se prendessi sul serio l’atletica leggera probabilmente mi cercherei un allenatore, seguirei una certa dieta e soprattutto non mi presenterei alla partenza di due maratone nell’arco di sette giorni, ma io me ne frego e faccio quello che più mi piace.
Con le due gare succitate ho portato a nove le maratone corse negli ultimi cinque mesi e mezzo: la più lenta conclusa in 2h47’22”, la più veloce in 2h39’54”. Niente male per me.
Converto ogni giornata in autostima così come le stelle fondono l’idrogeno in elio e mi espongo a determinate influenze per eludere le forze contrarie della mediocrità, ma prendo atto di tutto questo in virtù di riscontri concreti e non sulla mendace base di uno stolto convincimento.
Avverto dentro di me una grande forza, ne sono pervaso e già ne posso prevedere gli ulteriori accrescimenti: rasento vette a cui non ero mai assurto prima.
Forse non faccio altro che raccogliere quanto ho seminato in anni di fruttuosa solitudine e intanto semino gli altrui fantasmi perché essi non riescono a tenere il mio passo, infatti si perdono nella scia altrettanto evanescente delle mie progressioni. Posso rovesciare gli eventi che mi riguardano, ma non tutte le tartarughe che si capovolgono lungo la mia strada: ognuno deve imparare a badare a se stesso. Da solo valgo moltissimo, mi sento una legione e al contempo non m’illudo che la mia condizione solipsistica sia la migliore possibile, tuttavia usufruisco dei suoi vantaggi strategici e sostanziali.
A distanza di tempo riesco a dare un senso compiuto al passato e unendone i frammenti posso ricavarne un utile mosaico. Non ho una sola virgola da cambiare in ciò che il fato ha scritto per me finora e spero che anche il mio DNA non abbia mai bisogno di correzione alcuna né di altri aggiustamenti. Il mio equilibrio si è attestato da quasi un anno su una linea avanzata e tutto procede come avevo previsto. Guardo l’orizzonte solo per intimidirlo e invito gli eventi a farsi avanti, ma d’altro canto essi non possono fare altrimenti. Non ho energie da recuperare e ormai posso soltanto espanderle, perciò non temo eventuali contrazioni delle medesime in un futuro che sia prossimo o remoto. Devo fare tesoro della nuova età dell’oro che ho cercato al mio interno, verso zone insondabili. Gli sforzi da me profusi sono stati ripagati lautamente e ne godo i risultati in un pacifico isolamento, dunque non ho pendenze con il divenire e non ho nulla di cui lamentarmi.
Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung
Pubblicato giovedì 1 Febbraio 2018 alle 23:52 da FrancescoDurante gli ultimi anni ho letto più parti della produzione saggistica di Carl Gustav Jung ed era dunque una mera questione di tempo prima che approdassi alle pagine della sua autobiografia.
In realtà ”Ricordi, sogni, riflessioni” travalica gli angusti confini di una silloge aneddotica e fornisce una parziale sintesi dei concetti di cui il pensiero junghiano è portatore, difatti alcuni di essi emergono dal testo tramite la rievocazione degli eventi che portarono al loro sviluppo.
Sotto l’aspetto nozionistico non vi ho trovato quasi nulla che già non conoscessi, tuttavia si è rivelata comunque una lettura interessante e l’occasione per un utile ripasso, inoltre vi ho respirato la tensione interiore (non mediata da un linguaggio simbolico, come ne “Il libro rosso”) che accompagnò Jung per l’intero corso delle sue ineludibili ricerche.
A questo proposito sono incorso nuovamente in un paragone che già mi rimase impresso quando lo lessi per la prima volta altrove, ossia quello tra Jung e Nietzsche: il primo riuscì a controbilanciare l’impeto della sua vita interiore grazie all’esercizio della sua professione medica e alla presenza della propria famiglia, a differenza del secondo che nella propria vita ebbe soltanto i suoi pensieri e di questi finì per essere l’insana vittima.
Gli appunti che ho vergato a mano su un mio caro quaderno hanno tirato fuori elementi per me nient’affatto inediti e in particolare i seguenti: l’importanza degli archetipi, il ruolo di anima e animus come mediatori con l’inconscio a seconda del genere sessuale, le posizioni sui sogni e la libido di Jung in contrasto con quelle di Freud, il Sé quale scopo dello sviluppo psichico e il carattere non lineare della sua (possibile) evoluzione, la definizione di psichiatria come una “espressione articolata della reazione biologica di cui lo spirito cosiddetto sano fa esperienza alla vista della malattia mentale”, le forti variabilità di psicoterapia e analisi che sono pari alle variabilità degli individui, l’importanza della storia quale ausilio della psicologia dell’inconscio affinché essa riesca ad aggirarsi tra gli archetipi e, inoltre, le proiezioni di cui soffrono i legami affettivi che ostacolano la realizzazione di sé e di una certa oggettività.
C’è tuttavia una prospettiva che non ho còlto in altri testi di Jung o di cui forse, colpevolmente, non ho serbato memoria, ovvero l’ipotesi secondo la quale sia lecito supporre che uno sviluppo della coscienza possa agire sull’inconscio così come quest’ultimo agisce sulla prima.
Guthrie Govan a Roma e Fates Warning a Ciampino
Pubblicato venerdì 26 Gennaio 2018 alle 16:28 da FrancescoIn quattro giorni ho assistito a due grandi concerti, entrambi svoltisi a sud delle mie attuali coordinate. Mercoledì sera ho visto per la terza volta uno dei più grandi chitarristi di sempre, Guthrie Govan, che in quest’occasione ha suonato con il gruppo fusion di Yiorgos Fakanas.
Ogni tanto invidio chi ha avuto modo di presenziare a qualche leggendario live degli anni settanta che a me è stato precluso per ragioni anagrafiche e per l’apparente unidirezionalità del tempo, ma non baratterei le esibizioni di Govan con nessuna capatina nel passato, neanche se nell’offerta fosse compreso il servizio di navetta con una DeLorean.
Domenica invece in quel di Ciampino ho preso parte al concerto dei Fates Warning, una band progressive metal che seguo dall’inizio di questo millennio e di cui non avevo mai visto una performance dal vivo. V’è stata poca affluenza di pubblico e infatti sono riuscito a stare sotto il palco per tutta la durata del live, ma quest’ultimo si è comunque protratto per quasi due ore e ha coperto buona parte della discografia del gruppo. Temevo che la tenuta vocale di Ray Alder potesse deludermi, ma è stata buona fino alla fine, ossia con l’esecuzione della sesta traccia di “Parallels”, album del 1991.
La foto ritrae me e Guthrie Govan nel 2016, quando lo vidi con gli Aristocrats: per questo scatto devo ringraziare S. V. e la memoria interna del suo smartphone.
Per un’altra maratona sotto le due ore e quaranta minuti
Pubblicato martedì 23 Gennaio 2018 alle 15:55 da FrancescoMi alleno intensamente con la consueta costanza e il mio fisico reagisce bene agli sforzi a cui lo sottopongo. In sette giorni ho corso 128km e di questi 104 a un ritmo medio di 3’51” in cinque sessioni da 20,8km ciascuna. Sto provando a velocizzarmi mantenendo però un buon carico settimanale e ho intenzione di eseguire molteplici sedute di ripetute sui mille metri. Non so ancora se il modo in cui mi sto allenando possa cagionare dei miglioramenti sensibili sulle mie prestazioni, ma per scoprirlo sono costretto a fare dei tentativi perché non ho un coach che m’istruisca né altri atleti con cui possa collaborare attivamente. Leggo, studio, m’informo ed eseguo un controllo sperimentale della previsione, un po’ com’era costume per Galileo Galilei.
Dopo un anno ricco di soddisfazioni, nel quale i miei risultati sono andati ben al di là delle mie più rosee aspettative, ho maturato una maggiore consapevolezza dei miei mezzi, però non ho alzato troppo l’asticella degli obiettivi e di fatti per i mesi venturi me ne sono posto soltanto uno, ossia quello di correre nuovamente una maratona sotto le due ore e quaranta minuti.
Non so quanto io sia vicino ai miei limiti genetici e presumo (a torto o a ragione) di avere ancora un ampio margine di miglioramento, ma per me la corsa svolge anzitutto un ruolo importante a livello esistenziale e l’aspetto agonistico ne risulta dunque una simpatica appendice.
Nel corso degli anni questo disco è diventato uno dei miei preferiti, infatti l’ho ascoltato durante dei periodi di merda in cui s’è rivelato un potente rimedio, ma ha fatto da sfondo anche a momenti di tutt’altro tenore, quando ogni cosa ha girato per il verso giusto e gli eventi hanno reclamato le dovute celebrazioni. La mia copia in vinile è una modesta stampa del 1976.
In poco più di mezz’ora è condensato un capolavoro a cavallo tra prog e hard rock che secondo me ha una portata emotiva senza pari, anche grazie alla voce di David Surkamp.
La prima volta che ascoltai Theme From Subway Sue, la sesta traccia, dissi tra me e me: “Non c’è Robert Plant che tenga!”. Non so perché me ne uscii con quel paragone tanto improprio quanto spontaneo, ma non posso negare come tra le statistiche dei miei ascolti i Pavlov’s Dog primeggino sui Led Zeppelin da almeno un paio d’anni.
Escludo che io sia affetto da melomania, però ci sono dei dischi che nei momenti giusti riescono a sortire determinati effetti su di me: è come se avessi a disposizione una farmacopea e fossi capace, entro certi limiti, d’influire sul mio umore.
Tra le faglie prosaiche e intimi recessi
Pubblicato lunedì 15 Gennaio 2018 alle 18:07 da FrancescoContinuo a fendere il tempo mentre attorno a me certe vite si comprimono come se si stessero avvicinando sempre di più alla superficie di Giove. Gli organi d’informazione emettono rigurgiti con cui dànno conto di accadimenti vomitevoli e i loro conati non sembrano mai contati, perciò le esagerazioni sono dazi che la realtà paga per la sua pallida rappresentazione.
Non sono trascinato dalla corrente degli eventi, bensì talora contemplo il suo scorrimento in uno scoramento per cui non v’è soccorrimento. Mi sono guadagnato un posto d’onore in una tribuna vuota per uno spettacolo che non c’è, ma non intendo cedere la mia poltrona per trasferirmi in una qualche messinscena. Rifuggo sempre di più dagli altrui latrati e le sporadiche aperture della mia persona sono fini a loro stesse, difatti non v’è nessuno a cui debba conferire i riguardi che siano propri di una degna accoglienza. L’isolamento mi giova oltremodo e mi consente di perorare i miei interessi in un ambiente controllato, senza troppi disturbi elettromagnetici, nella calma stagna di un modesto divenire. Mi chiedo dove si siano persi gli accorati appelli di un Io che fu e oggi capisco bene quale sia il grado di caducità che contraddistingue talune istanze di un individuo. L’inconsistenza di certi aneliti non appare sempre chiaramente benché di fatto ricopra le richieste a cui la volontà è chiamata a dare seguito, ma d’altro canto non v’è peggior cieco di chi non voglia vedere. In pochi secondi dei lampi di genio possono indurre gli occhi a voltarsi verso quanto invece brilli di luce propria. Accorro laddove gli squarci profondi di una realtà insondabile mi invitano a gettare lo sguardo, ma non riesco a presenziare a tutte le chiamate dell’ignoto e un po’ mi vergogno per l’assenza di una mia maggiore creanza.
Da otto giorni i venti spirano intensamente sulla terra a cui appartengo e complicano un po’ i miei allenamenti solitari, ma non mi lascio turbare da quest’ostacolo eolico. Non sento affatto la pressione del futuro e non chiedo al presente più di quanto mi dia. Ho un salubre distacco da molte dinamiche di cui non desidero il giogo, ma tale lontananza rende la mia esistenza del tutto anonima e secondaria agli occhi di chiunque possa accordarmi la sua considerazione: per fortuna di codesta circostanza m’è dato di non curarmi.
Talvolta mi chiedo cosa porti in dote la più profonda empatia, il reciproco riconoscimento di sé, la complice risonanza a cui possono partecipare due soggettività che siano in grado di stabilire un ponte tra loro, ma con il tempo ho capito quanto sia ardua e pericolosa l’indagine di simili e rare forze. Ribadisco a me stesso le ragioni di rinunce inevitabili e vedo in una spiegazione cosciente il migliore antidoto contro gli aspetti venefici dello spirito di gravità, ma devo anche mettere in conto l’eventualità di un cambiamento totale dell’assetto di cui sopra.
Non mi cristallizzo nell’ingenua illusione di intenti irreversibili perché so quanto il concorso degli eventi sia in grado di annullarne la pregressa certezza. La cautela di ieri e d’oggi, un domani potrebbe giustificatamente vestirsi come un’inedita audacia, ma secondo me per dare seguito a un cambiamento del genere la volontà non basta e soprattutto le occorre la capacità di cogliere certi segnali di cui la realtà sa essere prodiga.
Una corretta lettura dei fatti e dei loro prodromi costituisce la mia massima priorità: cerco di essere presente e non riduco tale sforzo alle sole parole con cui lo descrivo. Avverto sempre più forte in me l’esigenza di versare in uno stato di consapevolezza e devo ammettere che a tale scopo la corsa mi aiuta molto, come se fosse una sorta di meditazione in movimento. Dispongo dei rudimenti per individuarmi, ma conto di affinare le mie tecniche con i responsi insindacabili che ricavo dal processo di causa ed effetto. Le parole sono azioniste di minoranza.
Sono assiso nella mia stanza dove pareti rosse mi proteggono dalle intemperie, ma per fortuna al mio interno non ho bisogno di trovare un riparo. Ricerco con attenzione le influenze a cui espormi e non condivido nulla di profondo con nessuno, tuttavia d’un tale stato di cose non faccio né un vanto né un rammarico. Vivo un periodo della mia esistenza nel quale detengo il pieno controllo di quest’ultima, e a tal proposito le riprove sono molteplici in quanto spesso pretendo di esibirmele, però non m’illudo che d’un simile controllo io possa conservare sempre il monopolio e dunque mi attendo frangenti meno rosei: sono pronto a eventuali impatti.
Tendo ad aspettarmi il peggio dal futuro (o quanto si candidi per avvicinarvisi) e il mio, non lo nego, è un atteggiamento di comodo, ma a onor del vero non posso escludere che prospettive del tutto diverse riescano a solidificarsi in gioie tanto tangibili quanto inopinate. Non mi chiudo in me stesso in quanto non ne ho bisogno e ormai non riuscirei a farlo neppure se lo volessi, bensì mi sento come un pianeta inesplorato, vergine, quale in effetti io sono, ma al contempo in preda di anni rigogliosi e di intuizioni sempreverdi che mantengono vivibile il mio ecosistema. Non ho lune e non mi sento al centro dell’universo, ma ne faccio parte e a questa constatazione non vedo cos’altro possa aggiungere per arricchirne la banalità.
I tumulti sociali e i cambiamenti dei singoli soggetti mi passano davanti come se fossero i sottotitoli di un vecchio film: tanto per me certe rappresentazioni sono comunque mute al pari di ciò che si prefiggono di rappresentare. I miei desideri sono un po’ arrugginiti, ma può darsi che un domani io decida di prepararne qualcuno per un nuovo collaudo: vi sono meccanismi rodati su cui l’azione erosiva del tempo è lenta, talora impercettibile.