Ieri sulle umbre e umbratili sponde del lago Trasimeno avrei dovuto completare la mia trentesima maratona, invece ho finito per celebrare il primo ritiro sulla distanza regina: sono saltato in aria senza che siano intervenuti gli amici dello Stato Islamico. Ho stravolto le mie abitudini e ho commesso un errore alimentare, quindi mi cospargo il capo di cenere e m’iscrivo al Partito Democratico.
Mi sono alzato alle quattro di notte per partire alle cinque verso il luogo della gara e come mio costume non ho mangiato nulla, perciò mi sono presentato al via delle nove e un quarto con quasi quattordici ore di digiuno, infatti l’ultimo pasto risaliva alle sette e mezza della sera precedente.
Avevo messo in conto l’evenienza di un ritiro in quest’occasione perché a marzo ho corso poco a causa della trasferta nipponica, appena centoventisette chilometri compresi i ventinove di ieri, quindi temevo fastidi muscolari e invece il mio ritiro è stato dovuto a una fame nera che ha iniziato a presentarmisi al diciottesimo chilometro.
Quando sbaglio lo ammetto senza problemi e a ‘sto giro non ci ho capito proprio nulla, ma d’altro canto in ventitré mesi ho completato con buoni tempi diciannove maratone e una cento chilometri oltre a tante gare minori, quindi un ritiro lo inquadro nell’ordine delle cose e non escludo che a breve possa persino essercene un secondo. In ogni caso mi presento alla partenza e cerco di divertirmi, poi vada come deve andare. Non ho pressioni né ansie da prestazione.
Sono riuscito a recuperare il filmato integrale della strage in Nuova Zelanda: è la cosa più allucinante che abbia mai visto.
In certe parti del mondo è troppo facile accumulare degli arsenali e produrre massacri.
L’attentatore guida verso la zona della moschea mentre ascolta il motivetto allegro di "British Grenadier". Una volta giunto a destinazione apre il bagagliaio e prende un secondo fucile semiautomatico oltre a quello che già porta a tracolla: entrambe le armi sono ricoperte di scritte bianche che non sono riuscito a leggere.
È tutto trasmesso in streaming e la visuale dà l’idea di un videogioco in prima persona. Il tizio si avvia in tenuta d’assalto verso i suoi obiettivi e una volta all’ingresso della moschea apre il fuoco contro le prime persone che incontra: ne uccide alcune e getta a terra il primo fucile. Imbraccia la seconda arma e riprende a sparare colpi singoli. È freddo e preciso. Avanza ancora e a un certo punto cambia modalità di fuoco passando alla raffica. È impressionante il momento in cui un ragazzo tenta di scappare e finisce per andargli incontro: lui gli spara a bruciapelo.
Cambia diversi caricatori. I corpi a terra sono molti e non essendoci più bersagli mobili i proiettili sono indirizzati ai cadaveri o a chi tenta di salvarsi fingendosi morto.
Esce così com’è entrato dirigendosi verso l’auto e sulla via del ritorno spara in testa a una donna riversa sul marciapiede che chiede aiuto: "Help me, help me". Si rimette alla guida e se ne va mentre dall’autoradio esce "Fire" di Arthur Brown.
Prima di fuggire effettua qualche drive-by e uccide almeno un altro paio di persone. Alla fine del filmato, che dura quasi diciassette minuti, commenta la strage e in lontananza si sentono delle sirene.
Mi sento sospeso su un’ulteriore fase di transizione, ma non riesco ancora a capire quale piega stiano per prendere gli eventi. Non temo il futuro e me ne curo solo nella misura in cui la mia premura mostri un’attendibile efficacia. Nella mia mente è vietato l’ingresso alle fisime e in effetti almeno a livello conscio non ve ne transita alcuna, però non è sempre stato così e quindi so apprezzare l’attuale ordine in cui versa la suddetta.
Ricordo come anni fa già attraversai alterni periodi di tranquillità interiore e di come essi si rivelarono l’humus ideale su cui mi fu dato di sviluppare vari aspetti della mia persona in una beata solitudine, ma all’epoca tale condizione non ebbe modo di assumere una piena stabilità poiché in quanto individuo non ero risolto in un certo grado e presentavo difetti strutturali: ero ancora un prototipo.
Oggi la mia visione d’insieme è più completa e la mia esistenza ha un baricentro più saldo benché la sua matrice sia strettamente endogena. Spesso mi addormento bene e la mattina scendo dal letto col piede giusto, qualunque esso sia. Ho quasi trentacinque anni, però non so cosa significhi quest’età né cosa comporti: non le appartengo così come il mio nome non appartiene a me.
A volte incontro al mio interno la latente e naturale inclinazione di riscoprirmi nella reciprocità con una ragazza, però mi limito a osservare l’occasionale passaggio di questa istanza e non faccio nulla per darle seguito poiché le premesse sono insufficienti persino per la più innocua delle fantasie. Anche la mia inazione è cambiata col tempo ed è divenuta più autentica sebbene i suoi effetti distanziatori siano gli stessi di sempre, come in una sorta di prossemica relazionale. Avanti, march.
È giunto il momento di tornare a Zante, ma prima di rimpatriare ho preso un omikuji dal tempio di Asakusa per intuire cosa il futuro abbia in serbo per me da una prospettiva scintoista. Ne è scaturito un momento di incontro tra culture, quella oracolare nipponica e quella apotropaica italiana, infatti appena ho letto il responso mi sono toccato i coglioni.
Io penso che ogni sventura sia figlia di ciò con cui Emil Cioran titolò una sua silloge aforistica, “L’inconveniente di essere nati”, ma questo è un altro discorso, vacuo e trascurabile come sa essere ogni parto.
Non idealizzo il Giappone, non potrei mai viverci per molteplici ragioni, e posso immaginare quali motivi concorsero ad acuire la depressione di Tiziano Terzani quand’egli soggiornò a lungo da queste parti, però a me piace tornarci dopo che sia intercorso un congruo lasso di tempo dall’ultima volta.
Ho avuto il privilegio di nascere e ho ancor oggi quello di vivere in un posto magnifico, al quale di certo non appartengo in ragione di vincoli umani poiché “come uno straniero non sento legami di sentimento”, per usare le parole di Camisasca, ma la mia fortuna più grande è stata quella di rendermene conto presto e di non rinunciarci.
Invero non credo al caso. Qualche giorno fa in metropolitana mi è caduto l’occhio su un libro inglese di un autoctono dove ho scorto i nomi di Derrida e Heidegger: nei giorni precedenti il secondo era stato oggetto di mie riflessioni itineranti.
Ammetto le coincidenze solo quando si possano dire significative: questa non è stata la prima volta in cui ho esperito sincronicità junghiane.
Racchiudo la sintesi perfetta in una sola parola: gambarimashita! Ieri ho provato a dare il massimo per le strade di Tokyo e ho corso con un piacere immenso sebbene il mio tempo finale sia stato un po’ alto: 2h45’55”, ossia 3’55” al chilometro.
Quella dell’antica Edo è stata la mia ventinovesima maratona, la diciannovesima sotto le 2h50′.
Ho osato perché avevo l’obbligo morale di provarci e quando ho visto che non era la giornata giusta ho atteso più del solito prima di rallentare: anche per questo motivo sono arrivato al traguardo sull’orlo dell’ipoglicemia.
Non ho gestito bene l’andatura, mea culpa, e sul finale ho accusato molto il vento e la pioggia: di solito la seconda non mi dispiace, però insieme al primo produce un mix letale.
Questi i miei intertempi:
5K: 18’55”
10K: 37’30”
15K: 56’04”
Half: 1h18’36”
30K: 1h52’04”
35K: 2h11’32”
Si è rivelata la maratona più fredda che abbia mai corso, peggio di Firenze nel 2017, una di quelle in cui ho sofferto maggiormente, ma è stata anche una delle più intense sotto l’aspetto emotivo. Da rifare per tante ragioni, persino con le stesse condizioni: stupenda la gara e grandioso il contesto. Mi è sembrato di correre dentro Blade Runner. Sono contento e appagato.
Il GPS ha avuto qualche problema e la traccia Strava risulta sfasata e inattendibile.
Definisco Tokyo con un ossimoro piuttosto inflazionato: una lucida follia.
Non potrei mai vivere in una megalopoli del genere, ma ogni tanto amo tornarci perché mi ci trovo a mio agio: chissà, forse sono echi di vite passate.
Durante il volo di dodici ore ho approfittato del cinema d’essai offerto da Alitalia e mi sono riguardato “Troppo forte”. Oggi Oscar Pettinari sarebbe papabile come vicepremier.
Qualcuno pensa che il Giappone costi molto, ma d’altro canto c’è anche chi nega lo sbarco dell’uomo sulla Luna.
Facendo tutto da solo ho trovato un biglietto a 556 euro con Alitalia, poi una sistemazione spartana per dodici notti nella zona di Asakusa a 445€. Altri 98 euro per l’iscrizione alla maratona e 26€ per un’assicurazione medica poiché, come sanno bene i più ferrati in geopolitica, il Giappone non fa parte della comunità europea. Quindi 1125 euro più altri 500/600 per cibo, spostamenti, varie ed eventuali. Un totale di 1700 euro: poco di più di quanto spenda in un anno un tabagista che consumi un pacchetto al giorno.
Sarebbe troppo facile e impietoso fare il confronto con chi dona i soldi alla criminalità organizzata tramite l’acquisto di droga o con chi si sfonda di alcolici nel weekend. A ognuno il suo.
Prossimo a una grande partenza, mi sento investito da forze superiori al netto delle cose fatte e di quelle incompiute. Ho una grande voglia di solcare i cieli dentro una fusoliera mentre due ali possenti fendono l’aria. Il volo dà un’idea perfetta di come possa essere sublime e determinato ogni fenomeno transitorio. Il cambiamento di stato, il passaggio da una forma a un’altra, la caducità e l’eterno ritorno. So di essere in un viaggio cosmico di cui la mia esperienza terrestre è una tappa, ma non riesco a spiegare questa consapevolezza in quanto immagino che la sua comprensione risulti alla sola portata di chi la sviluppi da sé in maniera spontanea o se la ritrovi nel proprio intimo dal momento della nascita.
Se tentassi di definire certe realtà farei un torto a quegli stessi tentativi e nel migliore dei casi scadrei in parodie metafisiche, perciò mi guardo bene da chiunque operi in questo senso, come se cercasse di convincere terzi col subdolo scopo di persuadere se stesso per credere a quanto non è un atto di fede e somiglia invece, almeno io suppongo, a una particolare forma di gnosi.
Mi mantengo entro i confini di quello che è nelle mie corde e posso fare soltanto una stima approssimativa di quanto si snodi al di là dei miei limiti, tuttavia mi ritengo già fortunato per ciò a cui sono andato incontro più o meno consciamente e per quanto forse mi è caduto in testa dal cielo. Non mi rimane che assistere alle scene restanti mentre io ne preparo e ne sovrappongo delle altre in base alle possibilità permesse dalle leggi immanenti della mia attuale dimensione. Qui l’ermetismo non è voluto, ma fa parte dell’impasto, quello primigenio.
Ci sono dinamiche e cose a cui non riesco ad attribuire nomi e contorni, ma con l’avanzare dell’età a volte sento sempre meno il bisogno di scendere in troppi e inutili dettagli.
Mi accingo a chiudere un cerchio di cui in seguito scriverò anche su queste pagine e sono pervaso da sensazioni che ancora non riesco a distinguere nettamente, però m’è dato di mettere insieme i pezzi degli anni passati per ricavarne una visione generale il cui risultato non mi dispiace affatto. A volte un senso si forma a posteriori o forse per qualcuno come me è possibile coglierlo soltanto con un certo ritardo, ma questa sfumatura non la reputo un problema. Ultimamente sto prendendo in considerazione la possibilità di trascorrere il resto della mia vita terrena in un continente diverso, tuttavia devo fare ancora le dovute valutazioni. Non avrei problemi a trapiantarmi altrove se le circostanze si rivelassero propizie. C’è molto di superfluo a cui posso rinunciare, e di ciò in parte ho già dato prova a me stesso, ma il gioco deve valere la candela. Sono contento che gli anni della mia gioventù stiano scemando inesorabilmente e spero di lasciarmi alle spalle ancora molte primavere. Non ho nostalgie e non uso il passato come pietra di paragone.
Non cado vittima come coloro che s’identificano con l’anagrafe o con le aspettative altrui e per questo motivo sono già più libero di tanti altri individui. Forse le mie catene sono semplicemente più lunghe della media e quindi m’illudo che io goda di un autentico arbitrio, ma prima o poi conto di appurare il reale stato delle cose e di giungere preparato all’abbandono del corpo.
Devo fare mia la buona abitudine di rispondere all’entusiasmo biologico con un’osservazione ontologica di Cioran: "L’essere è sospetto. Che dire allora della vita che ne è la deviazione e l’avvilimento?".
Domenica a Terni ho corso la Maratona di San Valentino e mi sono classificato al quarto posto assoluto con il tempo di 2h43’55". Purtroppo il podio non era nelle mie corde e un po’ mi è dispiaciuto perché quest’oggi nel mio cambio pulito figurava la t-shirt di Rommel.
A proposito, secondo il regolamento avrei dovuto ricevere 150€, ma poiché non ho una squadra (né la voglio) le regole della FIDAL m’impediscono d’incassare la pecunia. Finora ho rinunciato a 410€ di premi in denaro per la ragione anzidetta, ma spero che almeno vengano devoluti a favore di qualche nobile causa, tipo una modesta decalcomania da applicare su un Eurofighter.
Fino al 12° chilometro sono stato insieme ad alcuni atleti della mezza, ma quando loro hanno girato mi sono ritrovato senza punti di riferimento e ho corso da solo per trenta chilometri: non vedevo nessuno davanti a me né alle mie spalle. Poco male, per me non è stato un problema.
Ho osato sin dalla partenza e ho avuto un calo negli ultimi undicimila metri perché ho accusato il dislivello pregresso, però sono riuscito a conservare il quarto posto: dall’inizio alla fine non ho superato nessuno e nessuno ha superato me.
Ho impiegato un minuto in più rispetto alla scorsa edizione per raggiungere il traguardo, tuttavia la prestazione di quest’anno per me è risultata più allenante. Ho avuto il piacere di rivedere qualche faccia nota e ancora una volta mi sono trovato benissimo con l’organizzazione della gara!
Il quarto posto l’ho pagato con delle emorroidi da sforzo che per fortuna sono rientrate due giorni dopo. Per la prima volta nella vita ho visto le mie feci macchiate di sangue e non ho interpretato l’oracolo del mio culo come un segno di buon auspicio, ma una sgradevole e necessaria ispezione anale da parte del mio medico ha escluso qualcosa di grave.
Mi sono ritrovato nella rara circostanza di assumere un farmaco per qualche giorno e ho avuto cura di farmene prescrivere uno che non fosse cortisonico, ossia il Daflon: quest’ultimo punto ci tengo a sottolinearlo per ridicolizzare ancora di più tutti quei dopati di merda (e gli imbecilli che credono alle loro cazzate) che fanno finta di cadere dalle nuvole ogniqualvolta venga contestato loro l’uso improprio di medicinali.
Qui la classifica: https://www.icron.it/services/classifica/icron.php…
Qui la traccia Strava: https://www.strava.com/activities/2155979280
Ho letto “Origini” con lo scopo di procurarmi una visione d’insieme su quant’è successo dall’inizio dell’universo fino all’Olocene, un altro riepilogo delle puntate precedenti, ma non ho affrontato questa lettura con l’ansia di comprenderne ogni passaggio poiché quello di Baggott è un testo interdisciplinare.
Nelle prime pagine è ribadito il carattere relativo di spazio e tempo, ma anche la possibile assolutezza dello spaziotempo e la relazione di quest’ultimo con la materia così come è stata sintetizzata da un’acuta osservazione di John Wheeler: “Lo spaziotempo dice alla materia come muoversi, la materia dice allo spaziotempo come curvarsi”.
V’è poi tutta la carrellata dell’inventario atomico e subatomico con le relative proprietà: i leptoni, i vari tipi di quark, lo spin, il campo di Higgs e la massa delle particelle che deriva dall’interazione delle seconde col primo. Altresì immancabili l’esperimento della doppia fenditura, con tutto ciò che ne conseguì da una prospettiva quantistica, e il corpo nero quale oggetto teorico il cui studio fu propedeutico alla scoperta dei fotoni.
In buona sostanza, dalle prime fasi dell’universo il focus si sposta verso la formazione del sistema solare con ipotesi da me già incontrate in letture votate alla sola cosmologia: il testimone passa poi alla chimica, sezione che mi è risultata come al solito tanto ostica quanto interessante, alla biologia, alla genetica e infine all’antropologia, con doverose integrazioni paleontologiche e tassonomiche.
Quattrocento pagine piuttosto scorrevoli, scritte bene e nelle quali mi è parso centrato l’obiettivo di trovare un equilibro tra dovizia di particolari e proprietà di sintesi, tuttavia letture di questo tipo mi lasciano sempre un senso d’incompiutezza a causa degli attuali limiti epistemologici della mia specie. Secondo me la divulgazione rischia di diventare fine a se stessa qualora non si evolva in approfondimenti specifici che comunque non rientrano nelle mie corde, ragion per cui d’ora in poi virerò verso altre tematiche dello scibile.
La lettura de ”I vagabondi del Dharma” ha costituito invece un’eccezione narrativa alla mia predilezione saggistica. Nulla da eccepire su Kerouac: è uno dei pochi autori per cui sono ancora disposto a prendere un romanzo in mano, un fratello cosmico, un visionario, e infatti mi sono procurato anche una copia di “Big Sur”, mentre quella di “Sulla strada” campeggia ancora nella mia libreria e non c’è polvere che riesca a offuscarne la portata letteraria. Penso che la prosa di Kerouac sappia risollevare lo spirito di chiunque sia in grado d’immergercisi e questa peculiarità ai miei occhi ha sempre reso Jack qualcosa di più d’un semplice romanziere.