L’incendio che è prorotto da Notre Dame mi ha ricordato ancora una volta la caducità di tutte le cose umane. La breve storia della mia specie si annida in simboli, edifici e opere di vario genere su cui il tempo sedimenta i significati del passato.
In un lontano futuro anche la Terra verrà avvolta dalle fiamme e non rimarrà nulla di codesto proscenio dal nucleo di ferro, tuttavia mi chiedo se quello spettacolo d’estinzione avrà degli spettatori come in queste ore se ne adunano sulle rive della Senna, magari a bordo di navi spaziali approntate all’uopo con vista sul disastro o, per i meno facoltosi, con gli occhi incollati a potenti telescopi.
Anche il dispiacere e lo struggimento sono passeggeri, proprio come lo sono le loro controparti, ma è comprensibile che tanto gli uni quanto le altre si avvicendino in testa (anch’essa effimera nella sua duplice accezione) in pieno accordo con le circostanze: il presente non fa altro che consegnare corone d’alloro agli stati emotivi. Tutto ciò mi porta alla mente un passaggio de “Il libro tibetano dei morti”, secondo il quale l’acqua si estingue nel fuoco e quest’ultimo nel vento, ma la mia immaginazione mi propone anche le pire sul Gange e le loro volute di fumo.
Caduta una guglia se ne innalza un’altra
Pubblicato lunedì 15 Aprile 2019 alle 23:09 da FrancescoNon ho ragioni valide per sporgermi oltre il solipsismo, ma talvolta mi piacerebbe valutarne alcune e se non lo ammettessi farei un brutto torto alla verità. Vivo con me stesso e per me stesso, perciò mi ritengo abile e fortunato. C’è molto al di fuori del mio microcosmo, di ciò sono consapevole, però in quel mare magnum si trovano anche acque pericolose.
Non so se io abbia fatto una precisa scelta di vita, tuttavia nel corso degli ultimi anni la mia esistenza ha tracciato i contorni di qualcosa che le assomiglia molto. Quello attuale per me è un periodo tranquillo e in parte anche prolifico, quindi non ho nulla di cui lamentarmi e mi godo la quotidianità delle mie buone abitudini. Anche l’inconscio non mi manda più certi segnali con la stessa frequenza di prima, come se anch’egli avesse compreso l’impraticabilità di una profonda consonanza. Un’autentica reciprocità è difficile da stabilire e allo stesso tempo, secondo la mia modesta opinione, la sua assenza va salutata con gaudio qualora si riveli la salubre alternativa a qualcosa di autodistruttivo. In certi ambiti non mi piacciono le forzature perché non portano nulla di buono, ma capisco come esse possano costituire una tentazione irresistibile per taluni. Comprendo anche il bisogno dell’identificazione con una realtà endogena, ma per me il gioco non vale necessariamente la candela e trovo che in alcune circostanze sia preferibile un placido buio, altrettanto gravido di possibilità inesplorate e meno tetro di quanto lasci intendere il suo nero dominio.
Credo che la presenza di spirito faccia la differenza tra l’accettazione di compromessi nocivi e il loro netto rifiuto, però in tutto ciò un po’ di lungimiranza si presenta quale condito sine qua non. Avvisi chiari ne ho visti negli esiti delle vite altrui e a me già quelli sono bastati per assumere la dovuta circospezione. È vero, intanto il tempo passa, ma d’altro canto mi viene da scrivere: ci manca solo che si fermasse a guardare come un voyeur!
Negli ultimi sette giorni ho corso molto, quasi centocinquanta chilometri, e mi sono divertito altrettanto. L’attività fisica in solitudine mi espone sempre a un flusso spontaneo di pensieri verso i quali non avanzo mai pretese.
L’attività mentale durante certi sforzi, anche nel corso dei più blandi, mi appare sempre a una certa distanza, come se io la mantenessi davanti a me di alcuni metri, e dunque in questa condizione posso esserne al contempo lo spettatore oltre che il proiettore. Ne concludo che ancor oggi la corsa costituisca la mia forma privilegiata di meditazione e ho ragione di credere che sia destinata a rimanere tale per molto tempo: con tutta probabilità risiede in questo il motivo maggiore dietro cui mi risulta possibile coprire determinate distanze senza sviluppare noia né insofferenza. Gli effetti positivi dell’attività psicomotoria alimentano la mia costanza e ne consegue un ciclo virtuoso che può avere dei rallentamenti o degli adattamenti alle circostanze, ma mai un arresto volontario.
Complice la giovane primavera e forse una militanza di lunga data presso me stesso, quest’oggi non mi si è presentata una prima visione tra le mie riflessioni itineranti, bensì la replica di considerazioni a cui già innumerevoli volte ho dato libero corso: un po’ come i film trasmessi d’estate sulle emittenti più diffuse. Non mi va di scendere in dettagli perché ho già fatto le scale e poi sono sempre gli stessi delle puntate precedenti, però mi riservo di farlo alla prossima riproposizione. Ho molte cose da dire e da scrivere, tuttavia aspetto che si alzi il vento per riferirgliele.
Questi sono alcuni dei dischi usati che ho rimediato nel Sol Levante. “Ishoku-Sokuhatsu” degli Yonin Bayashi l’ho trovato a poco perché la copertina si presenta un po’ rovinata, ma il vinile è intonso e suona benissimo: anno 1974, si tratta di uno dei capolavori del progressive nipponico e ci tenevo a prenderlo nella sua patria.
Fatte le debite eccezioni, Dead Kennedys su tutti, non sono un grande appassionato di punk, ma desideravo da tempo una copia di “Zen Arcade” degli Hüsker Dü e me la sono procurata nell’ultimo giorno utile in Giappone, al settimo piano di uno dei punti vendita di Disk Union a Shinjuku. Per me è un album spettacolare e penso che risulterebbe la mia prima scelta se una ditta di demolizioni mi chiedesse di sfondare tutte le porte di un palazzo diroccato.
”Space Ritual” degli Hawkwind è un grande classico che non ho mai avuto occasione di comprare per pochi copechi e quando l’ho trovato a meno di 1000¥ non me lo sono fatto scappare: preferisco la prima metà alla seconda.
Klaus Schulze per me è una garanzia e finora mi è sempre piaciuto tutto quello che ho ascoltato della sua produzione, ma non conoscevo “Dune” e l’ho preso sulla fiducia un po’ per il prezzo economico, un po’ per la copertina tratta da “Solaris”: le due lunghe tracce del disco non mi hanno fatto rimpiangere l’acquisto.
Alcune mesi fa mi sono ritrovato in una libreria emiliana e in mancanza di meglio ho acquistato “Il Tao della fisica” di Fritjof Capra, attratto anche dal proposito del libro, ossia quello di esporre delle analogie tra la fisica moderna e alcune forme di esoterismo orientale, come se le seconde a loro modo fossero antesignane della prima, specialmente nei suoi sviluppi quantistici.
Si tratta di un libro ormai datato, pubblicato alla metà degli anni settanta, ma offre ancora qualche suggestione. Una prima e corposa parte è costituita da concetti che già m’erano noti in termini divulgativi, gli stessi impiegati dal testo, e di cui invece ignoro il formalismo matematico perché non ho i mezzi culturali né intellettuali per approcciarmici.
Lettura scorrevole, ma per me deludente dal momento in cui mi attendevo dei parallelismi approfonditi tra le frontiere della fisica e le esperienze mistiche: tutto troppo vago a mio avviso, un po’ tirato per i capelli e forzato sotto tale aspetto, inoltre, almeno per i miei gusti, manco avvincente in questa parte dell’esposizione. Come ho letto altrove, forse questo libro è stato anche un po’ figlio del suo tempo e come tale va inquadrato. Si è dimostrata l’ennesima occasione per rileggere cose che avevo già affrontato molteplici volte, però non si è rivelata un’opportunità per assimilarne di nuove.
Non ho mai investito molto tempo né energie nei rapporti interpersonali poiché ho capito presto come il loro andamento dipenda solo in parte da me. Il tempo mi ha dato ragione o forse io ho fatto in modo che me l’accordasse in virtù delle suddette premesse.
Il solipsismo è l’unica risposta sensata che abbia trovato all’assenza di una mutua risonanza, ma d’altro canto anch’io sono parte di un’assenza per qualcun altro in qualità di occasione mancata o mancante: ecco dunque l’unica, vera e vicendevole reciprocità possibile, quella del distacco dopo una conoscenza pregressa o l’autentica, inedita e totale estraneità delle parti.
Non ho mai sciolto certe questioni né i capelli di una ragazza, perciò ho lasciato insoluto l’enigma femmineo. La mia attrazione verso certe donne, quasi sempre scaturita a seguito di un loro primo passo, si è puntualmente risolta in silenzi inespugnabili, ma quegli esiti sterili hanno corroborato la mia individualità e dunque non so quale lettura darne. Ho avuto dei confronti, ancorché soltanto sul piano intellettuale ed emotivo, ma paradossalmente i loro effetti migliori non sono stati di matrice relazionale. Al netto di tutto e in virtù del senno di poi devo altresì ammettere come sia stata indifferente l’identità di quelle ragazze con cui ho avuto dei contatti platonici, siano essi stati epistolari o vìs-a-vìs: a rischio di piegarmi dalle risate mi chiedo se non sarebbe stato meglio se avessi optato per qualche test di Turing in luogo di tutto quel ciarlare. Il quadro è meno complicato di quanto possa sembrarmi, però devo ancora trovargli una bella cornice e non so davvero quando capiterò a un mercatino dell’usato.
Talora avverto in me una mancanza primigenia, ma non ho idea di come possa colmarla né se sia opportuno farlo. Nell’ultima decade la mia esistenza non è cambiata granché esteriormente, ma al mio interno si sono susseguiti degli sviluppi epocali.
Ho imparato ad andare al di là di certe dicotomie e ne ho preservate altre che secondo me hanno superato il vaglio del tempo. Tra dieci anni non mi vedo molto differente, ma non escludo che possa morire prima per le ragioni più disparate. Rispetto al passato riesco a godermi molti più momenti perché sono in grado di rallentare i pensieri. Non ho coltivato legami umani e mi sento equidistante da ogni cosa, ma non so ancora dire con certezza se abbia fatto bene a trascurare questo aspetto: il futuro me lo rivelerà. La mia natura non è solitaria, ma l’ho dovuta sviluppare e allenare in tal senso per questioni di forza maggiore: un po’ come un mancino che dopo un grande e costante esercizio sia diventato un abile destrimano. Immagino che anche molti oltre me abbiano fatto altrettanto con maggiore o minore riuscita.
Rispetto a qualche anno fa sono più forte, equilibrato e sicuro sotto ogni profilo, quindi ho speso bene il mio tempo, però non sono invulnerabile né tanto meno invincibile. Quello attuale lo reputo un periodo di spaesamento, tuttavia non mi fa né caldo né freddo. Gli eventi cambiano pelle. Non soffro di nostalgia e non mi domando cosa sarebbe accaduto in certi casi se io avessi preso scelte differenti, ma ogni tanto mi piacerebbe tornare al cospetto di certi situazioni per concedermi un altro giro di giostra.
Quattro giorni fa ho chiuso la mia carriera agonistica con un terzo posto in una gara locale.
Domenica potrei partecipare alla maratona di Rimini dove mi attende il pettorale numero sei nella griglia top runner, invece me ne sbatterò altamente i coglioni. Per la maratona di Roma ho addirittura l’iscrizione gratuita, però mi manca la fantasia di andare incontro a quella che reputo un’organizzazione pessima.
Ci ho ragionato un po’ e mi sono chiesto per quale cazzo di motivo io continui a foraggiare nel mio piccolo un sistema che disprezzo, dove agli occhi della FIDAL il mio sudore non vale quanto quello di chi fa parte di una squadra, dove i dopati di merda subiscono pene ridicole e tornano a gareggiare dopo poco come se non fosse successo nulla, quasi fossero delle vittime, dove certi “atleti” disattendono puntualmente le regole e si fanno assistere da amici, parenti o da altri stronzi in bicicletta, dove non di rado le griglie di partenza sono organizzate ad mentula canis o non vengono fatte rispettare, dove ogni cazzo di anno devo pagare per un certificato medico che non serve a nulla e per una tessera che di fatto è soltanto una tassa. E tutto per cosa? Per vedere il mio nome su una classifica di merda? Per avere un riconoscimento da enti ed entità di cui non mi fotte una minchia? Fuck this shit. Ci ho provato a farne parte, ma è un mondo che non riesco più a tollerare. Continuerò ad allenarmi, a tratti anche più di prima, e magari farò qualche maratona all’estero.
Intanto fondo una mia federazione, la CCCV, ossia “Corro come cazzo voglio” e ne faccio presidente il gatto Heidegger, con l’auspicio che quest’ultimo un domani possa avere un doppio incarico in un governo fasciofelino. Ritorno davvero al puer che è in me: organizzerò delle gare in solitaria, sulla falsariga di quando, ancora imberbe, mi facevo la telecronaca mentre giocavo a pallone in giardino.
Ho aggiunto un altro pezzo da novanta al novero dei grandi chitarristi che ho visto dal vivo, ma per me il concerto di ieri sera non è stato del tutto memorabile.
In quel di Ciampino ho assistito a un’esibizione acustica di Al Di Meola (in trio) che a tratti mi ha proprio frantumato le palle.
La colpa in parte è stata mia perché non mi sono assicurato che egli proponesse il repertorio elettrico, però non posso negare quanto la sola esecuzione di "Mediterranean Sundance" sia valsa il costo del biglietto: quella è storia.
Di Al Di Meola possiedo, adoro e ascolto regolarmente i primi cinque dischi, da "Land Of The Midnight Sun" (il mio prediletto di cui ho sia il CD che il vinile) a "Electric Rendezvous", oltre al leggendario "Friday Night In San Francisco" con McLaughlin e Paco De Lucia, però non riesco proprio a digerire le sue cose più orientate verso la world music: probabilmente è un mio limite e non cerco di superarlo fingendomi un intenditore.
Cosa fatta capo ha. Lo andrei a rivedere soltanto se si presentasse come quando suonava "The Wizard", ma gli anni passano e beata fusion che si fugge tuttavia.
Il multiculturalismo non può funzionare a meno che non sia sottoposto a regole certe e a numeri contenuti, ma tali paletti fanno stringere il cuore a quanti lo vivano da lontano e lo reputino un valore imprescindibile. Credo che tutti gli esseri umani siano davvero uguali solo al cospetto della morte e nella riverenza verso l’istinto di sopraffazione, perciò nutro un realistico disincanto verso ogni utopia di fratellanza. Il razzismo non c’entra nulla, tuttavia lo si può imboscare in questa grande festa dell’equivoco dove i pesi e le misure si moltiplicano all’uopo come i pani e i pesci nel cenacolo. Non si possono cancellare per decreto secoli e millenni di archetipi, però nulla vieta a qualcuno d’illudersi in merito a quest’impresa.
Ieri l’autista di un bus ha dato fuoco al mezzo che guidava, ma prima d’incendiarlo è stato così didascalico da minacciare una strage. Il protagonista di questa vicenda risponde al nome di Ousseynou Sy, un senegalese con cittadinanza italiana e un paio di precedenti che non gli hanno comunque impedito di svolgere per lungo tempo un lavoro di cotale responsabilità, ma d’altro canto ciò è stato possibile perché in Italia, malgrado la selva di leggi e norme inutili, vi sono lo stesso lacune legislative come in altri paesi in via di sviluppo suoi parigrado. Il tizio di cui sopra pare che abbia motivato le sue azioni con la vendetta per i morti in mare, ma non ho capito se nel novero vadano inclusi anche coloro che non sono mai più tornati dalla pesca in apnea.
Che sia il limes romano o una frontiera europea poco importa: qualunque popolo che non sappia difendere i suoi confini è votato all’estinzione e non è detto che quest’ultima evenienza sia da rifuggire. Ho ragione di pensare che l’appuntamento con l’orrore in Italia sia soltanto rimandato in attesa di attentatori più scaltri e fortunati. È davvero un peccato che i processi di combustione e l’energia cinetica delle pallottole non sappiano riconoscere l’innocenza, ma talora mi sembra che anche gli esseri umani difettino in codesto discernimento.