23
Set

Le parole scritte e quelle da scrivere

Pubblicato lunedì 23 Settembre 2019 alle 21:26 da Francesco

Devo riprendere a scrivere su queste pagine con una certa costanza poiché il mio dialogo interiore ha bisogno di esprimersi anche in forma scritta. Ogni tanto turbe di dubbi mi attraversano la mente e si votano alla ricerca delle mie certezze più fragili, ma di norma riesco a cacciarle con un sonno riparatore e in tali circostanze di loro non resta che un tenue ricordo, evanescente anch’esso.
Non ho un’autorità a cui fare riferimento, non ho appigli endogeni e non ricevo conferme diverse da quelle che cerco di fabbricarmi con la massima onestà intellettuale. Non odo voci consolatorie né vaghi incoraggiamenti ai quali, comunque, non potrei credere neanche se lo volessi perché la mia lucidità non me lo consentirebbe. Un certo grado di libertà esige requisiti piuttosto stretti, ma riesco ancora a soddisfare cotali parametri e soprattutto continuo a capire, forse viepiù rispetto al passato, quanto ne valga la pena.
Le idee dei fatti talvolta incidono sulla realtà umana più dei fatti stessi, ma io cerco di contenere le prime, invero vorrei detronizzarle, per orientarmi solo in base agli esiti dei secondi. Anche la stanchezza è una pessima consigliera, subdola e mendace, ma ormai ho sviluppato una certa disciplina e non prendo mai decisioni in presenza di una siffatta serpe.

Categorie: Parole |

14
Set

Il Balletto Di Bronzo al Traffic Club di Roma

Pubblicato sabato 14 Settembre 2019 alle 23:21 da Francesco

Venerdì tredici, poco prima dell’imbrunire, ho guidato fino a una mesta periferia della capitale e là ho avuto il privilegio di vedere per la seconda volta un raro concerto de Il Balletto Di Bronzo, questa volta presentatosi con quella che lo stesso Gianni Leone ha definito la migliore formazione di sempre, sua conditio sine qua non per la registrazione di nuovo materiale di cui a tal guisa ho dedotto l’annuncio.

È difficile spiegare la portata di questo gruppo a chi non lo conosca, ma per me è nell’olimpo dei grandi anche se per merito di un solo disco, ormai uscito quasi cinque decadi fa e ancor oggi oggetto di culto tra gli appassionati di tutto il pianeta. Gianni Leone è uno dei miei tastieristi preferiti insieme a Wakeman ed Emerson (anche se per ovvi motivi ricorda più il secondo del primo). Con dieci euro d’ingresso ho potuto assistere a ciò per cui altri, a diverse latitudini, farebbero i salti mortali se venisse loro presentata la possibilità: nemo propheta in patria. 
”Ys” è un album imprescindibile per il progressive mondiale ed è incredibile come a quarantasette anni di distanza risulti ancora un’opera d’avanguardia; la mia copia in vinile adesso contiene anche una “leonina”, ossia una di quelle lettere (nel mio caso un’invettiva contro Chiesa e Stato) che Gianni Leone scrive in privato e poi lancia al pubblico: questa volta sono riuscito a prenderne una perché mi sono messo in prima fila con largo anticipo.
Era molto tempo che non mettevo piede al Traffic Club di Roma e l’ho trovato migliorato, perciò conto di vederci qualche altra band. Affievolitasi la passione per le gare, e non per mio dolo, riprendo la militanza sotto i palchi di mezza Italia, almeno laddove ritenga che valga la pena di avventurarmi. Ogni tanto condivido qualche trasferta, ma se dovessi sempre aspettare qualcun altro non farei mai una sega.

Categorie: Immagini, Musica, Parole, Video |

4
Set

La libertà non è libera

Pubblicato mercoledì 4 Settembre 2019 alle 02:36 da Francesco

Il nuovo governo di gaglioffi è formalmente legittimo e quindi non sussiste una penuria di democrazia, bensì quest’ultima abbonda come il vomito di un ubriaco che sia sul punto di soffocarcisi. Secondo me la repubblica parlamentare è una forma di governo abietta perché accentua la discrepanza di ciò che al contempo appare giusto in teoria e si dimostra sbagliato in pratica.
Non credo che la volontà del popolo (qualunque cosa sia) si possa rappresentare perché ogni sua espressione diventa obsoleta dopo le prime disillusioni, né più né meno di quanto accade a certi uxoricidi per i quali la legge italiana prevede una “pena” effettiva di dieci anni e una laurea in carcere.
Nella cosiddetta “libertà” io tutt’al più còlgo quella d’espressione, pura vanità che ricade in se stessa e di cui queste mie righe forniscono un buon esempio. Le dittature sono educate perché non ammettono i rumori molesti del contraddittorio. 
Nella mia idea di paese (mutuo quest’incipit da chi è nato vecchio) vorrei che ci dividessimo in due fazioni e ci scannassimo gli uni contro gli altri per attribuire ragione e torto una volta per tutte, o almeno fino al prossimo giro di cappio: per me la vera democrazia diretta si annida in una guerra civile che non risparmi nessuno. Se mi trovassi sul punto di essere ucciso penso che avrei molta paura e invero preferirei coltivare le mie potenzialità in un periodo di relativa pace, ma ho dalla mia questa suppellettile che si chiama libertà d’espressione e quindi volo con la fantasia (dalla quale decollano i B-52 coi ventri carichi di megatoni).
Sono venuto al mondo per cazzeggiare con il Logos. Le uniche cose da prendere sul serio sono quelle che non lasciano traccia di quanti o di quanto le reputino tali. Cacare figlioli, cacarne tanti per cacarne altri ancora: l’imperativo categorico d’ogni squatter cosmico. Prima di partorire le madri dovrebbero chiedere il permesso ai figli che esse pretendono di avere: ci vuole un ministero per i rapporti con la dimensione prenatale.
Darsi un governo, darsi pace, darsi la morte: io m’immagino cosa risponderebbe uno stoico vero se Gerry Scotti gli prospettasse queste tre opzioni. A seconda dell’identità che mi costruisco posso decidere se farmi misurare secondo la larghezza del reddito, la lunghezza dell’uccello o l’altezza degli ideali. Io me le invento di tutte i colori, ma da buon manicheo torno sempre al bianco e nero, come l’unico film di Kassovitz che conosco.

Categorie: Parole |

1
Set

Poco più d’un incipit

Pubblicato domenica 1 Settembre 2019 alle 22:24 da Francesco

Queste sono le prime e uniche pagine di un romanzo che presi a scrivere un po’ di tempo fa, ma di cui quasi subito mi pentii. Invero oggi trovo che lo stile sia apprezzabile, ma ne ho scritti quattro di romanzi brevi e non intendo aggiungerne un quinto alla mia opera omnia.

  
Anche le fronde degli alberi erano esposte a mezz’asta e in quella giornata invernale di grandi sconvolgimenti non sembrava che fosse la tramontana a piegarle, bensì il loro avvilimento dava l’idea di una spontanea e arborea compassione. Il pronto soccorso era gremito di malati immaginari e di pazienti gravi, però infermieri e medici riservavano a entrambi il distacco di chi ormai si era assuefatto alle sventure altrui. Da un ginepraio di priorità policromatiche e confuse emerse improvvisamente un ambasciatore in camice bianco: costui non proferì parola poiché aveva imparato a rinunciarci come in un voto di silenzio e, nondimeno, con un lieve cenno del capo, fece intendere ai diretti interessati l’ineluttabilità della situazione, la perdita d’ogni speranza, la resa della medicina. Guardai con la coda dell’occhio chi avevo accompagnato in quel luogo dove ogni dì si smistavano decessi e remissioni. Mi aspettai che all’improvviso il rumore di fondo fosse divelto da urla strazianti e da una scena madre di cui anche l’empatia più parca avrebbe dovuto dare conto, ma evidentemente il sipario era già calato su tutte le reazioni percepibili dall’esterno: il crollo del mondo finì per riguardare solamente quanti fossero tenuti a prendervi parte nelle rispettive coscienze. Alfredo e Monica si strinsero in un dolore di cui ignorai del tutto l’entità in quanto non ero un genitore e, soprattutto, non volevo diventarlo.

Non ci scambiammo manco una frase e a malapena i nostri sguardi s’incrociarono, tuttavia ci intendemmo sul daffarsi e quindi ci avviammo all’uscita, noi che ancora ne eravamo capaci sulle nostre gambe. Salimmo in macchina e mi misi al volante. Non appena inserii la chiave l’autoradio emise un successo di qualche decade prima, ma ebbi un attimo di esitazione a spegnerla poiché la melodia non mi dispiaceva affatto e avvertivo l’inopportuna voglia d’una certa leggerezza. Scrutavo la strada per non incombere in un’occhiata di troppo con i due e ascoltavo il silenzio imperfetto dell’utilitaria. Sorse in me una riflessione di poco conto quando notai alla mia sinistra delle persone allegre che socializzavano sotto il gazebo di un bar, al riparo dalla pioggia e probabilmente da altri aspetti ancor più precipitanti di quella loro quotidianità. Mi venne da pensare all’incommensurabile differenza che in quel preciso momento sussisteva tra il microcosmo là assiso e la struggente realtà di cui mi ero ritrovato traghettatore: la inconciliabilità di stati così opposti e prossimi l’uno all’altro. Per l’ennesima volta fui investito da una conclusione che mi trascinò via con la portata di un’alluvione ciclica in una zona della mia mente a rischio idrogeologico, con straripamenti di liquido rachidiano, frane esistenzialistiche e lampi di gnosi. Quel giorno io ero del tutto equidistante dal dolore di chi mi stava vicino e dalla gioia di quanti invece avevo còlto a breve distanza con lo sguardo mio, però in altri periodi, allora già sfociati nel delta d’un passato più remoto rispetto a quello della presente narrazione, anch’io a mio modo e con gradazioni diverse ero stato un interprete di quegli stati emotivi. Possibile mai che l’esistenza si risolvesse in una successione di umori e sentimenti, ognuno dei quali avanzava senza ritegno né posa il primato della sua caduca reggenza? E quale cattivo gusto persuadeva taluni a industriarsi in opere d’ingegno per celebrare quelle polarizzazioni, a loro volta incensate da quanti sapevano rispecchiarsi in tutta quella pece?

Mi atterriva l’idea di come io stesso in una certa misura fossi ancora in balìa delle fluttuazioni emozionali e al contempo mi consolava il grado di affrancamento al quale ero assurto in quell’àmbito, però ne ravvisavo il suo segno più evidente e gravoso proprio in quest’ultimo rilievo che così ripartivo. Non potevo liquidare i moti più profondi dei recessi altrui con un’aspirazione stoica e anacoretica, anche perché non ne sarei stato capace con i miei, però ne ero oltremodo tentato. Dopo un po’, assorto com’ero in ragionamenti di tale risma e ramingo lungo tortuosità mentali assai diverse dal rettilineo asfaltato sul quale stavo avanzando meccanicamente, mi resi conto che avevo superato la prima uscita utile per giungere a casa dei miei passeggeri; con maggiore prontezza invece mi accorsi di come costoro non mi avessero detto nulla in merito sebbene avessero notato sùbito lo sbaglio.

L’uscita successiva non distava molto e il tragitto si sarebbe allungato di poco se Alfredo non avesse cambiato i piani col mesto placet della moglie: ne assecondai le richieste perché rispettavo il suo lutto e non avevo niente di meglio da fare. «Non ci va di tornare a casa, è troppo presto, fa ancora troppo male. Andiamo a mangiare qualcosa, non importa dove, fai tu» disse l’ormai ex pater familias dopo che ebbe poggiato la sua mano sulla mia spalla per richiamare l’attenzione, anch’essa di mia proprietà.

Sentii il peso di cotanta libertà e fui incerto su quale luogo scegliere per desinare, difatti da quella decisione sarebbero poi dipese le successive cacate. Non tenni affatto conto delle preferenze di terzi benché le conoscessi e optai per una pizzeria poiché quel giorno non volevo avere a che fare con altri cadaveri. Da un po’ di tempo non riuscivo più a consumare carne né pesce e mi pentivo profondamente per averlo fatto in passato, tuttavia non infastidivo il mio prossimo con le scelte etiche a cui mi ero risolto e cercavo per me un gusto superiore, qualcosa che rendesse naturali le piccole rinunce. Invero la mia preferenza non fu dettata soltanto da codeste inezie di carattere personale e dalla prospettiva di assumere grandi quantità di carboidrati, bensì pensai sul serio che una margherita o una quattro formaggi potessero aiutare qualcuno a superare la morte d’un figlio e, cotale idea, mi costrinse ad allungare la lista dei caduti, difatti già dalle prime e sconvenienti avvisaglie fui costretto a soffocare una risata fragorosa che, celere, mi era cresciuta dentro in piena autonomia. Guardai il mondo attraverso il parabrezza per altri dieci chilometri e alla fine raggiunsi il centro desolato di un comune limitrofo. Quasi tutte le sparute anime che v’erano nei paraggi vestivano corpi avvizziti e crani canuti, ma era solamente una questione di tempo prima che i prodromi della bella stagione sottoponessero quell’isolamento e quella senescenza al salvifico vassallaggio dell’impero turistico.

Non fui costretto a lottare contro forze superiori per trovare un parcheggio e me ne rallegrai, ma ancora una volta fui attento a non lasciare che quella piccola frivolezza mi contaminasse il volto e si traducesse in un’espressione equivoca. Nel paese fantasma Alfredo e Monica sapevano confondersi meglio di me con gli evanescenti autoctoni, difatti negli ultimi mesi erano diventati le ombre di loro stessi; io invece mi sentivo come l’Alighieri nel suo viaggio agli inferi ancorché la mia catabasi somigliasse di più a una gita fuoriporta. M’incamminai lentamente verso il corso cittadino e appena vi misi piede fui rapito dai secoli che promanava, come se in qualche vita precedente avessi già respirato quell’aria antica. Non era la prima volta che in quel luogo o altrove qualcosa mi proiettasse verso un passato lontano, in erranza tra ricordi dalle nulle certezze e dal largo anticipo sulla mia nascita. Rallentai il passo e serrai gli occhi per consentire alla fantasia di riempire a piacimento i vuoti di memoria, autentici o apocrifi che fossero: non pretendevo verità né consolazioni. Mi fermai dopo pochi metri dall’inizio delle presunte reminiscenze e alle mie spalle percepii l’assenza della coppia in lutto. Alzai lo sguardo al cielo come per trovare una conferma a quella mia sensazione, tuttavia non ottenni aiuto dalla regia, qualunque essa fosse, così mi voltai per avere la certezza di quella mancanza.

La mia vista si perse oltre l’arco a tutto sesto che aggettava su un fosco orizzonte, ma non vi era traccia alcuna di terzi e forse costoro se le erano portate dietro in un repentino oblio.
Ripercorsi la brevissima andata, alla stregua di chi avverta l’imminenza della morte e rovisti tra i propri ricordi per trovarvi qualcosa da farle indossare a mo’ di senso apparente. Entrambi genuflessi, si consolavano a vicenda in un reciproco abbraccio e da tergo ne osservavo le schiene curve mentre udivo il di lei pianto: così pativano marito e moglie.
I due erano stati colpiti dalla vista di una targa che campeggiava all’ingresso del paese: le incisioni su quel marmo ingiallito commemoravano un ragazzo del posto, vittima di un incidente sul lavoro, ed erano state scritte nella lingua del lutto, la stessa in cui le avevano appena lette i tristi coniugi. Inavvertita e superflua, dalla mia comparsa trassi la prospettiva migliore per contemplare il grande struggimento della posa plastica nella quale ero incorso, una scena quasi scultorea che mi ricordò una pietà rinascimentale ed effettivamente i miei occhi vi si attardarono con quella chiave di lettura.

Categorie: Parole |

26
Ago

Un salto a Helsinki

Pubblicato lunedì 26 Agosto 2019 alle 23:06 da Francesco

È da un po’ di tempo che non mi soffermo su queste pagine e me ne dispiaccio perché ci tengo a tenere traccia della mia esistenza seppur con una frequenza variabile.
Giovedì sono volato a Helsinki per pochi giorni. Avevo un’iscrizione gratuita per la maratona e ne ho approfittato per rivedere quei luoghi in cui ero stato undici anni prima, in occasione del Tuska Festival.

Ho colto l’occasione per recarmi presso KVLT (l’acronimo sta per knowledge, victory, leadership, tradition), il negozio di dischi più oscuro in cui abbia mai messo piede e là ho acquistato qualche album degli Abigor, dei Drudkh, dei Lord Belial e uno dei Marduk, poi mi sono fatto consigliare un titolo da un tizio con una croce rovesciata tatuata sulla fronte, cioè il gestore, il quale mi ha proposto “His Tempting Ritual” degli Spell Of Torment ed è andato a cercare tra toppe naziste e antislamiche: con costui ho avuto una conversazione interessante con molteplici convergenze di natura politica.

La gara è andata male nonostante le gambe girassero bene, infatti un problema intestinale mi ha costretto al ritiro dopo diciotto chilometri: peccato, il terzo posto era nelle mie corde!
Sono cose che possono accadere e d’altro canto in passato sono riuscito a inanellare ottime prestazioni senza soluzione di continuità, quindi non mi posso lamentare dal momento che spesso le cose mi sono girate per il verso giusto.
La débâcle podistica non mi ha impedito di apprezzare il mio brevissimo ritorno a Helsinki. La capitale è come la ricordavo: curatissima, a misura d’uomo e contraddistinta da un’architettura che mi rasserena. Molti spazi verdi, chilometri e chilometri di ciclabile, attenzione all’ambiente e un diffuso senso civico. Per me sarebbe una città ideale in cui vivere se gli inverni fossero meno rigidi e bui. Mi pare che l’immigrazione di massa laggiù non abbia ancora raggiunto i livelli di altri paesi europei, o almeno io ho avuto questa piacevole percezione, quindi la società mi è apparsa omogenea.
Le finlandesi mi hanno ricordato quanto sanno essere belle e austere le donne: eburnee e bionde. Si notano di primo acchito le differenze tra una valchiria e una vaiassa.

 

Categorie: Correre, Diario di viaggio, Immagini, Musica, Parole |

4
Ago

Un altro episodio di sincronicità

Pubblicato domenica 4 Agosto 2019 alle 19:33 da Francesco

Alcune settimane or sono avevo in programma di assistere a un concerto per il quale mi ero procurato il biglietto mesi prima, ma alla fine mi sono presentato all’evento con un giorno di ritardo! Una leggerezza del genere per me è insolita, infatti sono molto scrupoloso e ho sempre organizzato da solo, senza intoppi né errori, i miei spostamenti in giro per il mondo!
Appena ho capito lo sbaglio mi sono messo a ridere e ho preso la gaffe con filosofia, però poco prima che realizzassi il tutto, quand’ancora ero convinto della mia puntualità, la mia attenzione era stata catturata da alcune parole. Mentre mi dirigevo presso il luogo del concerto avevo visto un annuncio funebre sul quale campeggiavano dei versi da cui ero stato attratto, quindi ne avevo cercato sul web l’autore e avevo scoperto che appartenevano allo stesso ragazzo di cui il manifesto commemorava la dipartita.
Subito dopo avevo compiuto un’ulteriore ricerca per sapere qualcos’altro di quel giovane che era morto in un incidente anni prima e avevo finito per stupirmi di fronte ai suoi molteplici talenti e interessi, tra cui la passione per la corsa, nonché alla sua visione del mondo.
Non so perché abbia avvertito l’esigenza di approfondire questa storia, ma se avessi assistito al concerto forse non le avrei dato quel peso che invece mi ci ha fatto riflettere nei giorni successivi e quindi ho vissuto il fatto in questione come un episodio di sincronicità, inoltre ho provato darne una interpretazione e ne ho ricavato un invito a mantenermi “centrato”, a rispettare l’ordine delle priorità interiori: mi auguro di riuscirci.

Categorie: Parole |

31
Lug

Due mesi di allenamenti

Pubblicato mercoledì 31 Luglio 2019 alle 21:31 da Francesco

Goodbye July. La Federal Reserve è stata clemente verso le mie posizioni ribassiste e di ciò le sono grato (per una volta preferisco Powell a Trump), invece io resto sempre caustico nei riguardi di quelle ontologiche.
Oggi pomeriggio ho provato a spingere 10 chilometri e mi sono venuti a una media di 3’29”: 34’54” è risultato il tempo finale secondo il mio GPS. Poi ne ho corsi altri 5,6 di defaticamento a 4’43”. Per me è stata una prova significativa in quanto l’ho svolta a ventiquattro ore di distanza da un lungo di 32 chilometri che ho corso ieri sera a 4’01” di media, con gli ultimi 5 chilometri più veloci dei precedenti: 3’45”, 3’48”, 3’52”, 3’50”, 3’39”:
https://www.strava.com/activities/2576694131
Negli ultimi 61 giorni ho corso 1235,9 chilometri (651,3 a giugno, 584,6 a luglio) in 91 ore e 18 minuti, quindi a un’andatura media di 4’26” al chilometro: il dislivello totale è stato di 7510 metri.
Alla fine la lontananza dalle gare mi ha fatto soltanto bene, ma voglio tornare a misurarmi sulla distanza regina al di fuori dei patri confini. In questi due mesi mi sono divertito parecchio, ho giocato con la mia velocità di punta e l’ho migliorata, ho anche capito che sono ancora lontano dal mio limite genetico, ma come sempre il responso finale spetta alla strada e le prestazioni (o le smargiassate) su Strava contano nella misura in cui portino a dei risultati omologati.
Probabilmente non riuscirò a raccogliere subito i frutti di questi volumi e intensità, anzi, non do neanche per scontato di farcela, ma di sicuro mi divertirò a provarci: vediamo questo figlio di puttana che riesce a fare.

Categorie: Correre, Parole |

28
Lug

La realtà dell’essere di Jeanne de Salzmann

Pubblicato domenica 28 Luglio 2019 alle 00:12 da Francesco

Agli insegnamenti di Gurdjieff ho sempre riservato un’attenzione particolare (e questa espressione può strappare un sorriso a chi conosca l’argomento), difatti ne ho sempre riconosciuto ed esperito la validità per quanto finora sia stato nelle mie corde.
Parecchi anni fa fui fortemente influenzato dalla lettura di ”Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, un libro di Ouspensky, anch’esso basato sul sistema del maestro armeno: quelle pagine di certo smossero qualcosa in me sebbene ancora a un livello grezzo e dozzinale.
Jeanne de Salzmann è stata una grande allieva di Gurdjieff e ho recepito il suo testo alla stregua di una interessante raccolta di appunti. Com’era giusto che fosse non vi ho trovato nulla di inedito poiché i concetti chiave rimangono sempre gli stessi: la legge del sette, in cui il lavoro su di sé è paragonato a un’ottava musicale con la difficoltà di superare i due intervalli tra mi e fa così come tra si e do, poi la legge del tre, secondo cui ogni fenomeno scaturisce dalla combinazione di una forza affermativa, una negativa e una neutralizzante; il ricordo di sé come pratica della presenza affinché automatismi e reazioni non tengano l’individuo addormentato, e lo sviluppo di un centro di gravità permanente (appannaggio dell’uomo cosiddetto numero quattro) con cui cominciare a separare quanto è reale da ciò che invece è immaginario.
La lotta contro l’identificazione, la sofferenza volontaria come unico principio attivo per una certa trasformazione (benché poi l’uomo cosciente non soffra più) e l’intensificazione dei centri inferiori quale via regia per un contatto con quelli superiori: queste idee importanti mi erano altresì già note, tanto quanto la necessità di una solitudine autentica e di una morte a quanto è conosciuto come precondizioni per un vuoto che non dev’essere riempito.
In realtà (si fa per dire, o per scrivere) non credo molto nella forza discorsiva di un tale approccio, difatti vedo quest’ultimo come un male necessario per consentire, a chi se ne dimostri in grado, di prendere l’abbrivio sul piano dell’esperienza; d’altro canto la stessa de Salzmann ricorda come l’attenzione arrivi quando sia chiamata da un sentimento di necessità e quanto la vita ordinaria remi contro la conoscenza di possibilità più alte.

Categorie: Immagini, Letture, Parole |

23
Lug

La costanza degli allenamenti

Pubblicato martedì 23 Luglio 2019 alle 01:22 da Francesco

Mi sto allenando a dovere, ma non sento il peso dei carichi né della loro intensità perché amo quello che faccio e in questa fase della mia vita ne sento forte il richiamo. Riesco a convogliare tutte le mie energie nelle prove verso cui la mia volontà si volge con tutta se stessa e traggo ulteriore forza dalla diretta testimonianza di cotale concentrazione.
La corsa mi permette di verificare sul piano della materia quanto in me si origina altrove, perciò sotto questo aspetto essa si presta a un impiego che trascende (in ogni senso) le sue caratteristiche ordinarie, quelle ludiche, salutistiche e agonistiche.
Non so come vivano gli altri né quali obblighi impongano a sé stessi oltre a quanto già esige la sciagura di ogni esistenza terrena, ma in buona sostanza credo che siano cazzi loro: io sono e resto un solipsista convinto.
Negli ultimi tre giorni ho messo in fila degli ottimi allenamenti, tuttavia non ne avevo programmato neanche uno: essi sono sbocciati spontaneamente, come i fiori di campo o le guerre civili.
Sabato ho corso 24 chilometri a 3’55” più altri 6 di recupero.
Domenica 22 chilometri a 3’54” più 3,5 di recupero.
Ieri 22 chilometri a 3’51” e ho tirato il nono (è venuto a 3’07”!)
Le tracce di queste sessioni sono sul mio profilo di Strava (sul quale condivido pubblicamente solo certi allenamenti).

Categorie: Correre, Parole |

16
Lug

E qualcosa ricadde sulla mia transitorietà

Pubblicato martedì 16 Luglio 2019 alle 03:09 da Francesco

Premo una mano contro il vuoto e così arresto il cuore pulsante della notte per fermarmi sulle sue pareti, incurante della giovinezza che gli attribuisce chiunque s’illuda di allungargliela con il ricorso a siffatte adulazioni.
Ho bisogno di conferire in privato con l’universo e posso farlo ovunque perché in questo periodo mi sento di nuovo tutt’uno con esso. Le mie parole, le mie azioni e i miei pensieri non hanno incertezze e si muovono con reciproco rispetto delle dovute precedenze. Non posso aspettarmi che questo stato duri per sempre, ma posso fare il possibile per continuare ad alimentarlo e sulla consapevolezza delle sue intermittenze devo coltivare l’abilità di affrontare i futuri scontri con le forze contrarie. Forse proprio il mio attaccamento verso questa condizione di grazia dimostra come io non sia ancora all’altezza di trattenerla o d’esserne trattenuto. Mi sento rapito da un principio superiore che si origina da me e in me ricade, ma non è una suggestione passeggera né un inganno dei sensi: ne conosco la natura in quanto essa ha già permeato le fasi migliori della mia esistenza e pare che adesso la ammanti di nuovo.
Non so come si conservi ciò che è intangibile e al contempo avulso dai processi mentali, ma compirei già una grande impresa se riuscissi a descriverlo con la povertà delle parole. Non c’è modo di condividere ciò che in potenza già appartiene a tutti e di cui ognuno può fare solo una personale esperienza, o almeno questo è quanto intuisco.
Gioia e commozione risuonano e prorompono dal plesso solare, infine si allargano come se fossero dischi planetari a misura d’uomo, ma cosa mai posso scriverne? Forse la durata di certi fenomeni ha importanza fintantoché sussiste il concetto stesso di durata. Non cerco artifizi nelle elucubrazioni e il mio vandalismo diaristico si è protratto sin troppo.

Categorie: Parole |