Le costituzioni assomigliano a testi sacri perché valgono soltanto per chi ci creda, difatti i loro princìpi vengono disattesi quotidianamente e sovente qualsiasi diritto di cui si fanno garanti resta all’indolente grado di proposito o buona intenzione: i doveri invece presentano un carattere facoltativo e non di rado mortificano chi s’impegni nella loro osservanza.
Ogni vanagloriosa rivendicazione di libertà e progresso ha una natura molto astratta poiché in troppo casi imperfetta, tardiva o talora inesistente risulta la sua applicazione concreta. La realtà è più aleatoria di quanto lascino trapelare le rassicurazioni d’ogni sistema giuridico del mondo sviluppato. Secondo me i miei simili non sanno governare i loro pari, o perlomeno in tale àmbito sono destinati a incontrare problemi insormontabili quando decidano di radunarsi in comunità grandi ed eterogenee. Io credo che le società umane possano avere una buona riuscita solo quando siano uniformi, di dimensioni ridotte e abbastanza isolate tra loro, ma questa è soltanto una mia intuizione alla quale non so conferire né tantomeno m’interessa dare prove con cui ammantarla d’oggettività, manco dovesse sfilare su un’inutile pretesa.
L’Occidente ha spesso dileggiato le superstizioni altrui o ne ha distorto il valore intrinseco per renderle compatibili alla sua assimilazione culturale, ma a mio modo di vedere non ha mai fatto sufficienti esercizi di autoironia nei riguardi delle proprie. I riti abbreviati nei processi penali per me non differiscono molto da certi rituali di purificazione. Ai miei occhi il festeggiamento d’un giorno caro alla democrazia non è diverso da quello di una ricorrenza teocratica o religiosa, ma differente è il peso specifico degli archetipi a cui ognuno di questi elementi si appoggia. Le realtà tribali esistono anche nelle città della moda e nei salotti dove taluni intavolano sofisticate conversazioni. Una eco profonda risuona dalla culla della specie e riduce la scritta che campeggia nei tribunali, “la legge è uguale per tutti”, a un buon lavoro d’intaglio, niente di più, almeno quand’essa sia ricavata dal legno.
Mi chiedo se gli inizi di maggio costituiscano il principio di una fine o la fine di un principio, ma come al solito il compito di rispondere a un simile interrogativo spetta al tempo: è la sua prerogativa cronologica. Provo a immaginare dove mi troverò tra un anno: forse resterò al mio posto, qualunque esso sia, o può darsi che gli eventi mi portino lontano da casa o addirittura fuori dal corpo. Al netto della gravità, mi sento sospeso tra cielo e terra.
Non ho progetti per l’avvenire, non voglio farne e non ne sento la mancanza. L’incertezza regna sovrana ovunque, è immanente a ogni livello, ma si tratta di un dominio che normalmente estende i suoi confini sottotraccia e di cui taluni si avvedono soltanto nei casi d’improvviso parossismo. Non so dove andare a sbattere la testa, ma anche se lo sapessi eviterei di farlo perché non amo le contusioni. La mia libertà è un fanale rotto che posso aggiustare in qualunque momento, ma talora amo esperire il buio e non mi piace ferirlo con la luce. Ogni periodo richiede un determinato equilibrio che io ricerco e adatto con regolarità, ma certe volte questo tipo di manutenzione subisce dei colpevoli ritardi per i quali dai miei recessi s’alzano forti rimostranze, vere e proprie contestazioni dal basso.
Le restrizioni in vigore non hanno intaccato la notte, difatti ella già prima si limitava a recapitare consigli a domicilio, laddove quest’ultimo s’intenda come il sonno. Sono curioso di conoscere la residenza dello spirito, ammesso che esso ne abbia una e non sia apolide. Al momento non ho bisogno di nulla che non possa trovare dentro di me, ma sono conscio di come repentine possano formarsi esigenze inedite e di quanto quelle inveterate possano venire meno con la stessa celerità.
Non so se dipenda dalla mia prolungata esposizione al cinema machista degli anni ottanta e novanta o se invece io possa ricondurne le origini a qualche archetipo della mia specie, ma sono sempre stato attratto dal rovesciamento dell’ordine costituito e dai colpi di stato. Invero credo che ogni rivoluzione o presunta tale presenti una specifica circolarità all’esaurimento della quale lo stato delle cose torna alla condizione di partenza: corsi e ricorsi storici nella ciclicità del genere umano.
Ho quindi appreso con vivo interesse il fallito sequestro del presedente del Venezuela Nicolas Maduro per mano di un manipolo di mercenari. Da quanto ho letto la manovra è stata diretta da un ex berretto verde di nome Jordan Goudreau che ha dichiarato di avere un contratto con il leader dell’opposizione venezuelana, Juan Guaido, ma a detta del primo la scarsità dei fondi ha permesso di mobilitare solo sessanta uomini tra cui due veterani statunitensi: Luke Denman e Aaron Berry. L’operazione è stata battezza Operation Gideon, Gideone in italiano: è il nome di un personaggio biblico il cui significato è “stroncatore”.
Non vorrei essere nei panni di uno yankee alla mercé di un dittatore socialista. Può darsi che il gioco valesse la candela, infatti sulla testa di Maduro pende una taglia da quindici milioni di dollari che il governo degli Stati Uniti gli ha affibbiato poiché lo accusa di narcotraffico. Non riesco a farmi un’idea precisa perché Guaido ha affermato di non avere nulla a che fare con Goudreau, ma trovo avvincente quest’incertezza: uno dei due mente. A quanto ho letto il fallimento di questo golpe è avvenuto nei pressi della citta portuale di La Guaira, dove sono caduti otto uomini, invece pare che i due statunitensi siano stati catturati su una barca assieme a sei venezuelani mentre erano a corto di carburante e Goudreau stava cercando un modo per recuperare l’unità fuori da Aruba. La DEA ha negato ogni coinvolgimento. A me sembra la trama di un film di spionaggio e chissà che qualcuno non colga l’occasione per realizzarne davvero una trasposizione cinematografica.
Stamane ho soppesato meglio quanto ho scritto ieri sera e ho finito per trovarci qualcosa di inautentico, ovvero delle astuzie sofistiche che ho rifilato a me stesso sotto le mentite spoglie di un fatalismo superficiale e pretestuoso. Paradossalmente m’infonde fiducia constatare come io riesca a riconoscere quando mento a me stesso: per me si tratta di una grande conquista introspettiva e ne vado molto fiero.
Non mi sono fermato all’ammissione di cui sopra e ho deciso subito di rimediare al mio passo falso, perciò ho vinto la pigrizia e ho corso ventidue chilometri sul tapis roulant in un’ora e ventitré minuti, ossia a un passo di 3’46” al chilometro. Con tale sforzo fisico ho rimediato le endorfine necessarie per fornire una controparte neurochimica alla mia correzione che per ventiduemila metri è stata davvero… in corso d’opera! I fatti devono seguire alle parole affinché esse acquisiscano un peso che non le faccia volare via, perlomeno quando sia possibile dotarle di una forma concreta e quello in esame è stato uno di quei casi, benché le stimolazioni cerebrali siano invisibili a occhio nudo e richiedano strumenti sofisticati per una bella foto di gruppo. Se non avessi avuto modo di correre in casa avrei fatto esercizi d’altro tipo per fornire ai recettori MU le chiavi di volta.
Continuo a dipingere quadri foschi e non intendo privarmene, ma con tonalità e proporzioni che rispettino il principio di realtà: non intendo darmi più libertà di quanta possa negarmene e viceversa.
Quest’episodio mi ha dimostrato come all’uopo io possa ricorrere a sane alterazioni del mio cerebro senza ricorrere a sostanza psicotrope di cui non ho mai fatto uso e verso le quali ho sempre nutrito una repulsione totale, vero e proprio disprezzo. Non devo permettermi di lasciarmi andare, foss’anche per poco. Devo contare sul mio comando e concedere solo opportuni spazi a quel fatalismo che si dimostri alleato della mia onestà intellettuale. Il resto è bieco vittimismo e non mi si addice.
Trovo precario l’equilibrio di qualunque cosa che poggi sul senso civico e quindi, per comodità, non conto mai su quest’ultimo. Da domani potrei riprendere ad allenarmi di fuori, ma non lo farò perché non nutro alcuna fiducia nei miei simili e quindi aspetterò che i tempi si dimostrino davvero maturi. Non temo il contagio, però non voglio diventarne veicolo.
Sotto altri aspetti mi sento un ragazzo sconfitto e non ho molta voglia di affrontare le difficoltà che mi si prospettano. Per un po’ di tempo ho bisogno di lasciarmi andare all’indolenza, anche se dovessi finire per scivolare verso qualcosa d’irreversibile. Non ho voglia di compiere sforzi vani e aspetto che certe cose si sistemino da sole, ma dubito che esse ne siano capaci e dunque credo che sia piuttosto probabile un esito infausto. Pazienza. Non ho un piano principale né uno di riserva e ho lasciato alla rinfusa alcune idee che avevo cominciato a sviluppare. L’esistenza non deve tediarmi più del dovuto, altrimenti le nostre strade rischiano di separarsi anzitempo e con esse ciò che lega le mie percezioni a questo mondo. La mia soglia di sopportazione oscilla tra valori molto diversi che rispecchiano il periodo di riferimento, ma gli scostamenti del mio umore sono di misura inferiore e quindi la mia persona non rientra nella categoria dei bipolari: insomma, non riesco proprio a trovare una squadra in cui giocare.
Negli ultimi tempi mi sento sopraffatto da pensieri sbagliati, a tratti sono sfiduciato e mi ritrovo privo di forze che comunque so di possedere e alle quali non ricorro per ragioni di accidia passeggera. Il tempo faccia di me ciò che vuole finché avrà se stesso o fino a quando mi lasci una parte di sé per riprendere il controllo della situazione.
Non risparmio a me stesso le sciocchezze e la superficialità, anzi, vi ricorro sovente per sfumare le mie giornate. Nel corso della quarantena non ho mai discusso con le pareti della mia stanza, perciò il nostro rapporto ha resistito alla convivenza: io carne, loro cemento.
In qualche attimo d’incertezza mi prendo troppo sul serio e solitamente per rimediare a tali esagerazioni sgonfio l’iperbole di turno, ma al contempo dentro di me si dispiegano spontanee l’esigenza e la ricerca di una coscienza più elevata. Sono sempre meno legato alla mie sembianze viventi, ma non le depreco e continuo a custodirle come se formassero un tempio sacro. Su questo mondo c’è ampio spazio per me, tuttavia non sono così convinto di volerlo occupare. A volte la migrazione spirituale mi tenta oltremodo, ammesso e non concesso che un’espressione del genere significhi qualcosa, ma non sono ancora pronto ad abbandonare questo pianeta e al momento neanche lo desidero. L’esistenza assomiglia a un limbo tra il nulla e il nulla o tra quest’ultimo e la sua vera antitesi, ma simili azzardi del pensiero sono destinati a restare astrazioni senza capo né coda, acefale per diritto di caducità. Areare prima di soggiornare: forse il buco dell’ozono andrebbe allargato di proposito prima dell’arrivo dei nuovi inquilini.
Mi rasserena l’ozio dei gatti e se fossi più saggio impiegherei tutte le mie risorse per adattarlo a quanto d’umano ancora porto in dote. Non voglio muovere un dito neanche per firmare la resa all’avvenire. Lascio che tutto o quasi accada, come se avessi organizzato le ferie cosmiche su una zattera alla deriva, ma ho come compagna di viaggio una forza sopita al cui risveglio non posso oppormi.
La festosa atmosfera di questi giorni mi ricorda quella altrettanto vivace del video di "Hurt" di Johnny Cash.
Può darsi che alla fase due segua la fase terminale, in senso medico. Oltre alle mascherine dev’essere distribuita la morfina. Secondo me l’economia può essere rilanciata (nel baratro) sottraendo il business dell’eutanasia all’Olanda e alla Svizzera. Le file dinanzi al monte dei pegni si sposteranno ai piedi del Golgotha e l’Imago Christi monopolizzerà il mondo del cosplay. Un accordo tra regioni può riproporre le crocefissioni di massa a cui ricorse Crasso lungo la via Appia. Credo che il modo migliore per assicurare un futuro ai figli si annidi nella sterilità congenita o in quell’atto di pietà che risponde al freddo nome di vasectomia.
Dal crollo degli idoli di Nietzsche alla caduta degli idolatri. È tutto in diretta senza interruzioni pubblicitarie, ma solo di gravidanza. L’aborto è un atto di clemenza in contumacia.
Non riesco a capire quale sia la natura fisiologica della coscienza, se essa si risolva nelle modeste conquiste della neocorteccia o se preceda la vita biologica. Comunque vada sarà un decesso. Se fossi accomodante farei parte del mobilio. Un, due tre, stella! Anzi, supernova.
Un’opportuna citazione di Manlio Sgalambro:
"Io, contemporaneo della fine del mondo
non vedo il bagliore,
né il buio che segue,
né lo schianto,
né il piagnisteo
ma la verità
da miliardi di anni
farsi lampo".
Hoka Hey, è un buon giorno per morire
Pubblicato mercoledì 29 Aprile 2020 alle 22:43 da FrancescoAdoro il silenzio dei giorni immobili, ma ne ho conosciuti di più intensi e rivelatori in altri angoli delle terre emerse. Mi sento sempre più affrancato dai vincoli dell’esistenza umana, come se fossi prossimo all’imbarco verso un viaggio ultraterreno. Forse la mia morte non è lontana, o forse è ancora distante e io ricavo la sensazione della sua vicinanza dalla possibilità di scorgerla meglio all’orizzonte: la diminuzione dello smog svela molte cose.
Sono affascinato dalla fine del mio tempo su questo pianeta, ma non la rincorro perché la mia indole non è autodistruttiva. I miei primi trentacinque anni sono trascorsi abbastanza bene. Ho viaggiato con il corpo e con la mente, sono andato allo scoperta di me stesso, sono stato il testimone oculare di immense meraviglie e ho vissuto piacevoli soddisfazioni.
Se domattina non mi svegliassi più non avrei nulla da rimpiangere per due ragioni: anzitutto perché ne sarei impossibilitato dal rigor mortis e poi per i motivi suddetti. Il suicidio è una scorciatoia verso la meta finale, la quale invero io credo che sia altrettanto temporanea, ma preferisco compiere il giro lungo e godermi il panorama, almeno finché mi andrà di farlo. Hoka Hey, è un buono giorno per morire! Accarezzo l’idea della morte, la frequento nelle mie astrazioni, la contemplo e medito su di essa perché solo la sua prossimità riesce a rendermi libero, ma non ne ho ancora una piena padronanza e devo continuare l’addestramento. Il dado è tratto, il destino è tracciato.
"Pull up, pull up", di solito è questo l’allarme che risuona in una cabina di pilotaggio prima dello schianto di un aereo: trovo che l’insistenza della sua ripetizione sia angosciante anche in differita. In più occasioni ho digitato "black box recordings" su YouTube.
Conosco quasi tutte le registrazioni di scatole nere che si trovano su Internet, infatti è mia abitudine ascoltarle alla vigilia d’ogni viaggio nella troposfera affinché corroborino il mio grottesco fatalismo.
Una volta mi sono trovato a volare con una piccola compagnia (la Mokulele Airlines) di cui poco prima avevo visto il filmato di un disastroso ammaraggio nell’Oceano Pacifico. Il colmo per un pilota è quello di schiantarsi dalle risate. Prego, la claque.
Se scrivessi per qualcuno mi prenderei la briga di spiegare l’allegoria, ma il mio carattere autoreferenziale mi esonera da questo compito e ci penseranno i prossimi mesi a illustrarla con icastica precisione. "Pull up, pull up".
Già prima dell’attuale pandemia ero abituato a mantenere una certa distanza dagli altri e da determinate situazioni, ovvero da contesti per me noiosi e nocivi. Mi reputo un individuo socievole, ma non vado di proposito alla ricerca di amicizie o conoscenze e questa mia mancanza d’iniziativa può restituire di me un’immagine misantropica, distorsione questa di cui non m’importa quasi nulla in quanto io non fornisco assistenza tecnica alle percezioni di terzi.
La quarantena non ha stravolto la mia esistenza perché sono abituato a prolungati periodi di isolamento e amo molto stare da solo. In passato, ad esempio, ho provato cosa significhi essere nei pensieri di una ragazza e l’inedito piacere di una risonante reciprocità, ma ho anche capito come io non abbia nulla o quasi da condividere seriamente con altri esseri umani.
Riesco a dare il meglio di me quando sto per i fatti miei e infatti le soddisfazioni più intense le ho sempre raccolte nel corso di attività solitarie, ma ciò non significa che in tono minore non conosca il gusto di intese sporadiche ed episodiche. Quando la pregressa quotidianità sarà ripristinata io ne riguadagnerò in libertà di movimento, la privazione della quale finora non mi ha pesato affatto, ma continuerò a mantenere un basso profilo in ambito sociale. Ci sono inoltre buone possibilità che io espatri a titolo definitivo in capo a qualche anno, perciò per il mio futuro intravedo un isolamento sempre più accentuato che spero sia seguito in parallelo da una tranquillità interiore di pari crescita. Le mie sono supposizioni figlie del momento e nipoti del passato, sono cosciente di come tutto possa rivoluzionarsi dalla mattina alla sera, ma al momento l’orizzonte degli anni venturi mi appare con queste forme e colori.