Con lo pseudonimo di Izdubar (l’errata traslitterazione di Gilgamesh) sto cercando di traslare sul piano sonoro la tecnica dell’immaginazione attiva di Carl Gustav Jung.
Non si tratta di un discorso musicale poiché le regole vengono infrante senza che a monte ve ne sia una piena padronanza, conditio sine qua non per una sperimentazione che non risulti la parodia di se stessa.
Cerco i rumori di fondo dell’inconscio e senza volerlo (cioè, al di fuori della giurisdizione della coscienza) lo faccio con un linguaggio che ricorda certe cose a cavallo del noise e dell’ambient, con qualche inciampo nel post-rock: insomma, un grande casino. La scelta delle immagini segue lo stesso procedimento. Questa cosa di tre minuti si chiama “Italian Poetry”. In tempo per il due giugno.
L’altra sera ho passato in rassegna le foto dei miei viaggi e ne ho trovata una che ho deciso di mettere in calce a queste righe. L’immagine risale a circa tredici mesi fa, quando sono mi sono recato in Giappone per correre la maratona di Tokyo. Appena l’ho rivista mi è venuto subito in mente il tema del distanziamento sociale, il quale ha preso piede con la quarantena e sempre nella medesima ha iniziato a sfuggire di mano: forse il Leviatano ha un problema ai motoneuroni.
Mi piacciono gli spazi aperti, le superfici estese e vuote, il risalto di cui può godere l’orizzonte e la sensazione della distanza: sono elementi suggestivi che si prestano a meravigliose contemplazioni. Ho visto molti giardini zen nelle mie camminate solitarie in Estremo Oriente e mi piacerebbe frequentarne uno assiduamente o addirittura possederlo se un domani decidessi di trasferirmi per sempre in Asia.
Si rinnovano nella mia interiorità le esortazioni a lasciare anzitempo il corpo, eppure queste suadenti offerte non mi convincono affatto e con pari pervicacia continuo a rigettarle. La morte è un’allettante prospettiva, anzi, io la considero proprio un’esigenza metafisica, ma al momento trovo che un’adesione volontaria al suo carattere irreversibile non sia affatto in accordo né con la mia età né con la situazione in cui verso. Tali ragionamenti in me non scaturiscono dalla mestizia o da tumulti emotivi che rispondono ad aggettivi analoghi, ma sono i getti piroclastici di una profonda e prolungata ricerca interiore.
L’introspezione ha un certo margine di errore e soprattutto può esporre a rischi elevati chi la pratichi, nondimeno io non potrei prescindervi neanche se volessi in quanto da tempo immemore mi sono sbarazzato di tutte quelle illusioni che consentano di bloccarne i lavori. Paradossalmente questo periodo di pensieri mortiferi è molto fecondo in quanto mi offre angoli di lettura e prospettive che in altri momenti mi sono preclusi o di cui, tutt’al più, posso azzardare una simulazione. Tali riflessioni si agitano come in un mare di Dirac e condizionano i miei ritmi circadiani, così talora mi trovo a dormire pochissimo per vari giorni di seguito fino a quando non recupero forze e lucidità con una dormita da ore in doppia cifra. Il mio mondo onirico risente di simili oscillazioni e mi offre visioni inedite, intense, angoscianti o di difficile interpretazione, ma comunque ricche di informazioni e di indizi sulle regioni più remote della mia personalità. Non devo morire per mia mano, non ancora, la mia indole non è autodistruttiva, ma seguo la sottile linea che divide l’ultima volontà dalla sua volizione. A mo’ di Ulisse mi lego all’albero maestro per udire richiami pericolosi.
In passato, a mia totale insaputa, ho cercato per lungo tempo delle forme di raccoglimento e concentrazione, ma solo a un certo punto della mia giovane esistenza mi sono reso conto che svolgevo certe attività per il surrettizio perseguimento di quegli scopi. Ho corso migliaia di chilometri nell’illusione che il podismo fosse per me un passatempo spontaneo, ma in realtà già dai primi passi costituiva un metodo meditativo e uno strumento introspettivo. Solo dopo anni alcune cose hanno cominciato a prendere forma ai miei occhi in maniera progressiva, un pezzo alla volta, fino a quando mi hanno restituito una visione d’insieme che mi è apparsa coerente. Avrei un bel vantaggio sugli eventi se riuscissi a comprenderne la natura primeva sulla scorta delle loro immediate manifestazioni, ma forse i miei limiti cognitivi mi costringono ad attendere una certa latenza: io compirei un’opera meritoria per me stesso se cercassi di capire come ovviare a tale ritardo o se almeno trovassi un modo per ridurne la portata.
In questo quadro di considerazioni la lettura è un’altra delle forme di meditazione a cui ricorro. Leggo sempre ad alta voce e ultimamente lo faccio in piedi con l’ausilio di un vecchio leggìo il quale mi piace pensare che non abiti per caso nella mia magione. La scansione delle parole mi ricorda una giaculatoria o un mantra e l’apprendimento che ne deriva mi offre un appagamento di cui mi piacerebbe monitorare i correlati neurochimici. Con questo procedimento provo un senso di rilassatezza e concentrazione, come se lambissi o esperissi in modo passeggero ciò che in un altro linguaggio è chiamato “centro di gravità permanente”. La postura, l’impostazione della voce, la mia attenzione e il contesto ambientale concorrono a creare quelle circostanze in forza delle quali il mio cerebro secerne sostanze endogene a cui sono riconducibili gli effetti anzidetti.
Ho notato come io avverta un profondo senso di soddisfazione quando mi riesca di leggere molteplici paragrafi senza alcuna esitazione, con la voce ferma e una postura corretta ma al contempo rilassata. Queste sensazioni sono diverse da quelle che mi cagiona l’allenamento fisico, ma hanno un comune denominatore che non sono in grado di specificare e di cui riesco solo ad avvertire il fil rouge. Per allungare il brodo potrei lanciarmi in ipotesi speculative senza capo né coda, le quali potrebbero risultare valide soltanto con la complicità delle coincidenze, ma preferisco che quest’appunto mantenga un carattere descrittivo.
Tira una brutta aria in Italia. Leggo, odo e percepisco la comune insofferenza di persone molto diverse tra loro per estrazione sociale, bagaglio culturale e contesto ambientale. Mi stupisce e al tempo stesso giustifico sotto ogni aspetto l’aggressività di certi individui i quali si sono sempre contraddistinti per la loro pacatezza. Le condizioni economiche stanno precipitando e le esitazioni del governo allungano le ombre sul futuro. La confusione regna sovrana, i termini burocratici ornano la realtà imprenditoriale a mo’ di filo spinato e l’esasperazione procede a piè sospinto con la semina di gesti inconsulti che forse darà i suoi amari frutti in autunno.
Le sperequazioni aumentano a ogni decreto e le disparità di trattamento si allargano come se le acque del Mar Rosso fossero delle porte automatiche. La frustrazione di taluni cresce in maniera esponenziale e se ne può avere il polso con un po’ di zapping da social network.
Mi aspetto tumulti, stragi, gesti singoli e isolati in un mosaico di violente pazzie. Persino io che di rado mi sgomento, apprendo con un certo trasporto come i sacrifici di alcune persone vengano sacrificati per colpe altrui. A quale legge deve obbedire chi vede venire meno lo Stato nel cosiddetto contratto sociale? Per quale ragione un individuo è tenuto a rispettare ciò che intima il codice penale quando si ritrovi senza nulla da perdere? D’altro canto già in tempi normali non vi sono grandi deterrenti contro crimini efferati e spesso la prevenzione dei delitti è delegata quasi in toto all’etica individuale, ma allo stato attuale non mi sorprenderei se si allentassero i freni inibitori di molti individui. Per qualcuno la salute mentale è fortemente a rischio e la portata degli attuali eventi può innescare il debutto di tragedie annunciate.
Secondo me certe storture possono meravigliare soltanto chi creda davvero che la legge sia uguale per tutti. Le persone oneste, o quelle che provano a vivere come tali, sono mortificate ogni giorno e il cosiddetto stato di diritto spesso lo è solo per i criminali. La sfiducia sta per diventare l’unica moneta di scambio e anch’essa presenta un forte rischio di contraffazione. Non ci si può sfidare neanche del proprio disincanto. È una lotta tra persone e in ogni persona tra le sue molteplici personalità: faide intestine in seno a una guerra civile a mo’ di scatola cinese.
Il mio primo videogioco risale al 2000 e lo realizzai con un programma che si chiamava The Games Factory, la mia modesta creazione invece la intitolai Space Killer e comparve su un Silver Disk, ovvero un CD-ROM che all’epoca usciva come allegato a una celebre rivista per PC, The Games Machine, mensile di cui ero avido lettore. Non ho mai creato nulla di complesso perché non mi sono mai applicato più di tanto, ma l’informatica mi è sempre piaciuta a tutto tondo. Anni fa avevo acquisito da autodidatta una certa dimestichezza con qualche linguaggio di programmazione, ma l’incostanza mi ha fatto perdere per strada buona parte di quelle nozioni e oggi mi rimane poco più dello stretto necessario. Restio a programmare alcunché, ho scoperto un WYSIWYG (what you see is what you get) nuovo e gratuito con cui realizzare videogiochi, Gdevelop, così ho deciso di… giocarci! Mi sono anche divertito a realizzare tutta la grafica.
Non ho il tratto né il senso della prospettiva di Piero della Francesca, ma ho fatto il possibile per celebrare la grande pandemia del Venti. Sputi di gloria è un breve platform che ho realizzato in una settimana con l’inconscio scopo di omaggiare i peggiori videogiochi per Commodore 64, però mi ha anche dato la scusa per chiedere a un amico di registrare qualche breve pezzo da mettere in sottofondo e lui come al solito non mi ha deluso: il suo contributo è stato eccelso.
Per evitare la scure della censura mi limito a scrivere che nel gioco bisogna raccogliere tutte le autocertificazioni e sconfiggere una sardina gigante.
Può essere giocato dal browser a questo indirizzo: https://www.team84.info/sputidigloria/
Le mascherine chirurgiche vanno a ruba come le anime e mi chiedo quanto siano quotate le seconde sul mercato nero. La povertà e il disagio sociale crescono sani e forti, orgoglio di mamma e papà, di economia e Stato. Nell’aere si propagano i suoni delle campane, i rumori intermittenti degli orologi biologici che annunciano la menopausa, le ciarle delle vajasse e le sirene delle ambulanze.
La mia esistenza è combattuta tra un’inclinazione verticale e le prosaiche questioni che si dispiegano sulla linea delle ascisse, ma la mia traiettoria non ha ancora un angolo fisso. Mi trovo in una terra di nessuno per la quale mi sento eponimo: vago incerto con il carico delle mie considerazioni. Non riesco a capire cosa io debba fare né se sia davvero necessario che io faccia qualcosa, perciò attualmente mi attengo al principio dell’inazione ottimale. D’altro canto mi sono reso conto come in svariate situazioni l’opzione migliore sia quella di non agire, ma allo stesso tempo ho anche capito quanto sia difficile ricorrervi poiché mi pare che la natura dell’essere umano tolleri poco l’immobilità. Non credo che una scelta debba sempre essere presa e talora si può scaricare su costei l’onere della propria concretizzazione, tuttavia sono consapevole dell’irresistibile fascino di cui è portatrice ogni volizione. Non mi lascio scorrere le cose addosso perché non voglio macchiarmi, perciò le guardo fluire a debita distanza e ne odo il cacofonico sciabordio. Non mi pesa l’assenza di pesi, ma troppa leggerezza rischia di strapparmi anzitempo alla gravità terrestre e ogni tanto anche in me si affaccia la tentazione di esistere. Le cose sono più semplici di come io le dipinga e talvolta persino un estremo riduzionismo dà conto della loro bicromia, con buona pace degli altri pastelli e dei loro pasticci.
Ho la costante impressione che il mio tempo sulla Terra stia per finire e mi chiedo se io sia pronto al salto quantico, ma può darsi che la mia esistenza biologica continui a lungo e nel migliore dei modi. Sono sospeso in un comodo limbo dove volteggiano prospettive differenti a velocità variabili. Ripeto quasi sempre le stesse cose perché quasi sempre le stesse cose si ripetono.
Non è mai stata alta come in quest’ultimo periodo la qualità delle mie meditazioni sulla morte ed evoco di continuo quest’ultima poiché in certi momenti la sento molto prossima. Devo capire quale sia il mio percorso più autentico. Ho il polso della situazione e un certo grado di manovrabilità, perciò spetta al mio libero arbitrio la scelta definitiva. Il mio stato attuale mi fa sentire come se mi fossi elevato spiritualmente, ma può darsi che la mia sia una pia illusione. Avverto ancora e in maniera distinta un richiamo metafisico, però non escludo che la sua consistenza sia pari a quella di un fuoco fatuo. Non so quanto io ritenga davvero imminente la fine, ma al momento non ne sono affatto intimorito e non ho idea di quale sia la radice di questo mio atteggiamento quasi atarassico, ovvero se esso scaturisca da una percezione moderata della mia eventuale e prematura scomparsa o se, invece, sia il frutto maturo di tutte le riflessioni sulla caducità a cui mi sono prestato per oltre una decade.
Rispetto a qualche settimana fa avverto in me una lucidità accresciuta e un controllo ancora maggiore della mia persona. La mia disciplina sta lambendo i suoi punti massimi e una delle sue espressioni la ritrovo nei pasti frugali che mi preparo. Sarebbe davvero buffo se io campassi fino a cent’anni e, raggiunto quel traguardo, mi ritrovassi a leggere codeste righe.
Ho letto una notizia dell’ultima ora che annuncia la liberazione di Silvia Romano, una giovane cooperante che era stata rapita in Kenya nel novembre del 2018. Immaginavo una simile conclusione poiché l’Italia è adusa al pagamento dei riscatti, ma certi accordi hanno dei tempi tecnici. La ragazza è stata portata in Somalia da quelle simpatiche personcine che si radunano sotto il nome di Al-Shabaab, traducibile come “la gioventù”, un’organizzazione somala che primeggia nel terrorismo islamico e la quale forse s’ispira un po’ a Jack Sparrow, difatti tra le sue molteplici attività è particolarmente nota per la pirateria: in merito a quest’ultima ricordo un simpatico episodio di South Park, precisamente il settimo della tredicesima stagione, intitolato Fatbeard in inglese, Barbagrassa in italiano.
Ho letto che l’ostaggio di cui sopra è stato nelle mani dell’Amniyat, ovvero l’unità d’élite di Al-Shabaab che taluni ritengono la sua spina dorsale, infatti in un articolo presente sul sito della BBC un ex consulente di sicurezza, tale Hussein Sheikh Ali, ritiene che la seconda sparirebbe se venisse distrutta la prima.
Ammiro quegli stati che di norma non negoziano con le organizzazioni terroristiche per evitare che esse possano finanziarsi e procurare danni maggiori, perciò mi chiedo come mai l’Italia sia incline a pagare i riscatti nonostante abbia firmato un accordo con altri paesi del G8 con cui s’è impegnata a non farlo. Nel caso in questione pare che la trattativa abbia coinvolto i servizi segreti dell’Italia, della Somalia e della Turchia, una faticosa triangolazione per cedere alle richieste di gente senza scrupoli e dall’alto profilo criminale. Mi domando quale cifra il governo italiano abbia sborsato per l’ennesima volta e soprattutto quanto male riuscirà a fare Al-Shabaab grazie a quei fondi, quante vite meno tutelate interromperà, persone per le quali non vi sarà interesse alcuno, omicidi di cui forse leggeranno qualcosa gli appassionati di politica estera o di geopolitica in un trafiletto di qualche testata anglofona. Così va il mondo.
Le giornate si allungano mentre le speranze di taluni si accorciano e altre finiscono per pendere dai piedi di chi nel frattempo s’impicca. Nulla sembra più lo stesso perché non lo è mai a causa della costante trasformazione di cui è oggetto ogni aspetto della realtà tangibile.
Il mio pensiero si disperde nell’etere e io vorrei seguirlo per planare a mia discrezione su ogni angolo del pianeta, però riesco a concedermi qualche uscita fuori porta con la mente e ne sono contento: la meditazione è un ottimo tour operator. La mia esistenza sta decelerando e così mi sembra che tutto il resto mi passi vicino rapidamente, ma io spero di rallentarla ancora di più. La frenesia non mi giova né sono in grado di fornirle un permesso di soggiorno. Anche se non parlo con nessuno avverto le vibrazioni delle altrui angosce e immagino che esse siano destinate ad aumentare tanto in frequenza quanto in intensità. Se avessi la panacea di tutti i mali la stapperei per l’occasione, ma io tutt’al più posso provvedere a me stesso e solo per il tempo di cui dispongo: per quanto m’è dato sapere la partita con la morte non prevede i supplementari e concede solo il rigor mortis; mi chiedo piuttosto chi designi la terna arbitrale e se essa non sia trina per una mera questione di risparmio.
A me basta poco per liberare la mente dalle zavorre che le affido in maniera irragionevole, ma sarebbe opportuno che io prima di tutto imparassi a non gravarla affatto senza un giusto motivo. Da grande foglio fare il doganiere presso il confine tra la realtà e la mia interiorità per regolare il traffico di merci e soprattutto quello dei pensieri.