14
Dic

Editori a pagamento

Pubblicato lunedì 14 Dicembre 2020 alle 22:43 da Francesco

Circa quattro settimane fa sono stato contattato da una casa editrice benché non sia stato io a sollecitarne l’interesse. Un’addetta della società in oggetto, forse mentre cercava istruzioni su come fabbricare ordigni artigianali, s’era imbattuta in un mio libercolo di qualche anno fa, Nuovo nichilismo solidale, e così, illico et immediate, mi aveva chiesto di inviarle il testo completo affinché un presunto comitato di lettura potesse valutarne un’eventuale pubblicazione.
Dopo una rapida ricerca sulla sua casa editrice avevo capito che si trattava di un editore a pagamento, ovvero un’entità verso cui nutro la stessa simpatia che gli azeri riservano agli armeni e viceversa. Per gentilezza e invero anche per curiosità avevo risposto quasi subito alla collaboratrice di cui sopra, avendo cura di specificarle come non fossi affatto interessato a condividere il rischio d’impresa con la sua azienda, ma a seguito di questa mia precisazione lei mi aveva invitato a spedirle comunque il PDF dello scritto poiché il presunto comitato di lettura ne avrebbe valutato una pubblicazione che non avesse richiesto contributi di sorta da parte mia.
Qualche giorno addietro, ormai quasi del tutto dimentico della circostanza testé raccontata, mi è giunta una telefonata da un tizio a cui la collega aveva passato la palla. La conversazione è stata rapida e indolore, ho persino reso edotto il mio interlocutore di come a mio avviso sia meglio spendere del denaro per la promozione di un’opera piuttosto che usarlo per l’acquisto di eroina, ma ho ribadito come non sia interessato alla faccenda poiché detesto tanto le illusioni quanto le droghe. Non pago di questa mia risposta, costui ha sottoposto alla mia attenzione una “proposta di contratto” tramite posta elettronica, perciò mi sono sentito in dovere di rispondergli a mia volta con un’epistola digitale che riporto di seguito.

Per me si tratta di una proposta irricevibile poiché sono contrario a qualunque forma di editoria a pagamento, ma questa mia posizione era già emersa nel corso della nostra telefonata.
Se il mio scritto fosse davvero valido e presentasse realmente una potenziale commerciabilità allora non sussisterebbe l’esigenza di condividere il rischio d’impresa.
Il vostro modus operandi è adottato anche da altri, tuttavia non è la prassi e posso affermarlo senza tema di smentita poiché conosco realtà editoriali, piccole e grandi, che non chiedono contributi agli autori. Comprenderei e accetterei finanche la proposta di un editore che mi chiedesse di rinunciare per sempre a qualunque diritto per lo sfruttamento commerciale dell’opera, ma per principio non sborserei mai del denaro di tasca mia a meno che non decidessi di investire su me stesso in piena autonomia.
Dieci anni fa, per il mio secondo libro, rifiutai l’offerta di un piccolo editore che mi chiese soltanto un modesto contributo per i bollini SIAE, ergo su questo punto sono inamovibile. Inoltre non ho mai avuto velleità da scrittore proprio perché conosco lo stato dell’arte (in senso lato e letterale) e difatti consiglio a chiunque di preferire la pratica dell’atletica leggera all’esercizio della cultura, giacché quest’ultima ormai s’è fatta asettico numero e solo in rari casi assurge allo stesso grado del bilancio aziendale.
Vi ringrazio comunque per l’interesse, vi porgo cordiali saluti e vi auguro un buon Sol Invictus.



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9
Dic

Partitura per silenzi di tomba

Pubblicato mercoledì 9 Dicembre 2020 alle 01:09 da Francesco

Finalmente ho risolto un problemino fisico che per un paio di mesi mi ha impedito di allenarmi bene e così, da alcuni giorni, ho ripreso a sostenere delle buone andature nelle mie uscite podistiche. Per superare quel fastidio non mi sono rivolto a un medico né mi sono prestato a una ridda di esami: ci ho convissuto fino a quando non si è estinto e immagino che lo stesso modus operandi si possa applicare alla vita tout court, laddove essa si configuri o venga intesa come un infortunio cosmico.
Vivo in un’epoca del cazzo che straripa di giovani idioti e vetusti incapaci, ma io sto per i fatti miei, coltivo le mie passioni in un giardino d’amor proprio e frequento perlopiù gatti castrati dall’indole atarassica. Sto cercando di scrivere il mio sesto libro, ma al momento non ho molte idee e forse è venuta meno o è diminuita parecchio quell’esigenza interiore che mi ha spinto a redigerne cinque. Nel mio caso la mancanza d’ispirazione deriva da una certa tranquillità d’animo, perciò non la reputo un problema e invero non me ne frega nulla. Mi sento in pace con me stesso e non vedo cosa possa chiedere di più dalle circostanze. Non rimbombo nella testa di nessuno e nessuno tuona nella mia, in una reciprocità che non può risultare altrettanto equa nelle asimmetriche forme del desiderio o nei rapporti di coppia.
Di tanto in tanto scorgo in me un tenue invaghimento, ma lo lascio sempre dove lo trovo, così ho più tempo per correre. Non ho mai appurato se sulle etichette delle persone campeggino avvertimenti quali “maneggiare con cura”, “materiale fragile” o, nel caso dei piromani, “liquido infiammabile”, ma io non mi occupo di resi e non ho niente da vendere, perciò la mia è destinata a rimanere una semplice curiosità. Non posso mercanteggiare le croci altrui perché non ne ho di mie da barattare, ma potrei ordinarne una online da personalizzare all’uopo. Ci penserò. In fede, mio Francesco.

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2
Dic

Fuori pioggia, dentro sereno

Pubblicato mercoledì 2 Dicembre 2020 alle 20:48 da Francesco

Sono oberato di noie passeggere a cui devo dedicare più tempo di quanto voglia distrarre dalla mia disponibilità, però la mia mente non risente di questa seccante fase e io me ne rallegro. È come se la mia realtà interiore godesse di una crescente indipendenza rispetto a una certa quota dei fenomeni esogeni, tuttavia non m’illudo che l’intima enclave di cui sono reggente sia davvero un’opera compiuta. Non mi reputo un cercatore d’oro né di guai, ma talora i secondi s’imbattono in me e cercano di trattenermi nella loro pochezza. Di norma non mi attardo per le vie maestre della mediocrità e anche per questa ragione delego alla mia assenza molte ambasciate sociali, ma di tanto in tanto i gangli del potere e la stupidità umana mi obbligano a presenziare dinanzi alle spoglie offese del buonsenso.
La legge degli esseri umani non mi trasmette alcuna fiducia e provo una forte diffidenza nei confronti dei suoi molteplici interpreti. Nelle divise di ogni ordine e grado io vedo sempre dei potenziali nemici, perciò non riesco a illudermi che il loro operato possa tutelarmi. Forse non credo neanche alla verità, qualunque essa sia, ma di certo quest’ultima non ha bisogno della mia approvazione affinché la sua essenza possa godere d’una certa autonomia. Le diatribe, le controversie, le guerre tribali, le liti di condominio, le battaglie per diritti più o meno civili, le rivoluzioni violente e i bombardamenti a tappetto sono degli svaghi diffusi a cui io, tuttavia, ne preferisco altri, quindi rinuncio volentieri al ruolo di comparsa in quei giochi senza frontiere e non temo d’offendere qualcuno con il mio fermo rifiuto. Non voglio essere al di sopra bensì al di là delle parti, compresa la mia, e chissà che un giorno non riesca in cotale opera; nel frattempo costeggio la mediocrità di cui sono ospite e non mi faccio scrupoli a pisciarci contro.

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28
Nov

Alla fine di novembre

Pubblicato sabato 28 Novembre 2020 alle 20:32 da Francesco

I primi freddi cominciano ad attanagliare i dintorni, ma le loro espressioni più secche e chete mi rinvigoriscono oltremodo. Sono alle prese con degli interessanti libri di saggistica e come al solito ricerco nell’atto stesso di leggere ad alta voce una forma di meditazione che sovrappongo a quella della corsa. Il continuo ripiegamento in me stesso mi concede il lusso di tollerare con maggiore facilità i trascurabili accadimenti che si moltiplicano sul piano della prossimità materiale e su quello della vicinanza astratta, ancorché io non ne risulti mai del tutto immune.
Il mio modo di vivere presuppone un richiamo vaccinale contro fatti e idee i cui possibili sviluppi sono destinati a esiti esiziali di diversa gradazione, ma la copertura non è mai completa né pretendo che lo sia. Talora non riesco a capire se io mi ritrovi in alcune situazioni per mio demerito, o se certe dinamiche mi si presentino come un compito da svolgere sull’accidentato iter della mia mutevole soggettività, tuttavia non escludo che a volte le due circostanze possano convivere con buona pace della mia inavvedutezza.
Non posso darmi un tono che non sia quello muscolare, ma tendo a svilire anche quest’ultimo con la mia devozione alla maratona, perciò di me rimane poco ed è comunque troppo. Questa constatazione non riguarda la mia autostima, ossia quello strumento di navigazione che manutengo con regolarità, ma al quale non ricorro oltre la misura di cui è capace. Insisto su di una ricerca endogena, perlopiù avulsa da ausili alieni, laddove tale aggettivo si adatti anche a me rispetto agli altrui mondi interiori. Le faccende umane si riassumono spesso in una questione di prospettiva, anche quando quest’ultima descriva la pavidità con cui gli individui sanno girarsi dall’altra parte, qualunque sia la direzione altra. Non ho aggiunto granché in queste righe di testo, tuttavia almeno qualche lucina natalizia avrei potuto mettercela. Crepi l’avarizia e non solo lei.

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15
Nov

Zona rossa e incolore

Pubblicato domenica 15 Novembre 2020 alle 17:04 da Francesco

Tace tutt’attorno l’urbe e nei suoi punti nevralgici; polso debole, coma vigile: gli uni sono sedati e gli altri pure. L’attuale realtà è velata d’un silenzio imperfetto ma egemone di cui al contempo apprezzo il dominio e disistimo le cause formali. Un lieve vento di cui ignoro la provenienza allieta questa domenica vermiglia, però non mi suggerisce nulla di nuovo poiché quest’oggi neanche il Sole, come sempre d’altro canto, illumina qualcosa d’inedito.
Assorto nei miei pensamenti e nei piccoli svaghi, mi staglio su una prospettiva indefinita e non riesco a proiettare forme sul futuro che possano definire le linee abbozzate di un qualsivoglia orizzonte. Hic et nunc non c’è un ponte radio con l’avvenire, non sono in grado di prevedere gli incroci che mi attendono né se effettivamente più in là ve ne siano, però sono pervaso da una coriacea serenità la quale, al momento, non risente delle piccole ammaccature di cui gli agenti atmosferici e gli eventi umani sanno essere cagione.
Non sono votato ad altra ricerca che non sia quella interiore, ma essa però si ripercuote al di fuori del suo campo d’indagine e forse è anche attraverso un tale sconfinamento, per mezzo dell’eterogenesi dei fini, che questa trova un parziale compimento sulla scorta del quale il processo si rinnova nei suoi limiti ultimi e si configura dunque come interminabile per sua stessa natura. Nella perenne ecatombe di senso io non cerco la resurrezione di ciò che forse non ha mai avuto sostanza né essenza, bensì mi limito a passeggiare sulle fosse comuni di frasi che furono e di cui il tempo non serba né i resti semantici né i segni d’interpunzione. Non ho stretto promesse perché non è mio costume usare violenza verso terzi e dunque lascio ad altri l’onere di soffocare gli impegni presi nelle loro puntuali inadempienze. Saluto i controsensi perché spesso viaggiano in direzione contraria alla mia, ma talora c’incolonniamo a mio detrimento.

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7
Nov

Un incontro onirico

Pubblicato sabato 7 Novembre 2020 alle 00:30 da Francesco

Mi sto ponendo con forte insistenza alcuni quesiti sull’attività onirica, poiché mi porto ancora dentro il dubbio se essa abbia una sua realtà autonoma o se invece si tratti soltanto di un epifenomeno biologico. In un sogno recente mi sono ritrovato a conversare con una giovane donna e da quel momento alberga in me la sensazione che io debba incontrarla di nuovo, però non ho idea di come possa presentarmi a un secondo rendez-vous.
Dubito che esistano in commercio dei navigatori satellitari per altre dimensioni, ma qualora dovessi ritrovarmi da quelle parti non saprei comunque a chi chiedere indicazioni. Non ho idea di come io possa giungere a un appuntamento che sfugge alla convenzione del tempo ordinario. Mi mancano i riferimenti, non ho una mappa né un numero verde da comporre con il pneuma, eppure dev’esserci un modo tramite cui mi sia dato di ritrovare quelle coordinate tutt’altro che euclidee. Ogni stato di sonno costituisce per me una ricerca di quella ragazza, o almeno del punto in cui ci siamo incontrati, ma la mente mi porta altrove, come se fosse un furbo tassista e fingesse di non capirmi per allungare la strada sbagliata. Può darsi che alla fine sia importante lo sforzo e non già la meta, tuttavia voglio parlare di nuovo sul piano sottile con quella giovane e incontrarla mentre risulto incosciente a livello grossolano.
Mi rendo conto di quanta poca dimestichezza ancora io abbia in ogni stato diverso da quello vigile, ma in una tale inadeguatezza ravviso più stimoli che frustrazioni e conto di migliorare il mio senso dell’orientamento laddove la rosa dei venti non indica alcunché.
Mi domando se la bussola migliore non sia la necessità che pulsa al mio interno, quell’elemento intangibile del quale fatico a dare finanche una forma scritta, ma la cui portata è immensa ed empirica, almeno fino a un certo grado. Insisto a occhi chiusi.

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2
Nov

Addobbi per il disincanto

Pubblicato lunedì 2 Novembre 2020 alle 00:48 da Francesco


Non ripongo la mia fiducia in nulla, non stabilisco alleanze, non seguo correnti e non sono disposto a mettere la mano sul fuoco o sul cuore per nessuno, nondimeno si prospettano tempi assai interessanti, suggestivi, incerti, di certo imputabili alle puntuali emanazioni della legge di causa ed effetto che vige su ogni aspetto della realtà impropriamente detta. Ogni evento continua ad apparirmi come un epifenomeno di facile spiegazione benché a volte possa risultare difficile da accettare, ma forse agli accadimenti viene talora attribuita una difficoltà interpretativa affinché la loro ricezione risulti più tollerabile, come in un goffo tentativo d’indorare la pillola: in tutto ciò la parola presta i propri servigi a buon mercato e all’apparenza può sembrare più conveniente dell’onestà intellettuale o delle esose richieste d’una profonda introspezione. Ognuno fa i conti con se stesso.
In quest’epoca di savi distanziamenti non credo che sia il caso di abbracciare acriticamente la prima consolazione a portata d’inganno, ma in realtà neanche una che che consegni se stessa a domicilio. Sono sospeso tra vari cambiamenti che convergono da ogni parte verso di me e me ne attendo altri da cui non ricevo nemmeno un avviso. Non so a chi rivolgermi per farmi consegnare tutto all’ultimo stadio. Ogni mutamento rientra nella categoria dell’usato garantito e non si può restituire al mittente a meno che non ci si rechi in filiale di persona, o meglio, di pneuma. Invece di dimenticare tutto è opportuno ricordare di quale risma è questo pianeta affinché la prossima incarnazione si svolga altrove: questo me lo devo appuntare da qualche parte, forse sulla ghiandola pineale.

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30
Ott

Di sfuggita al cospetto di Crono

Pubblicato venerdì 30 Ottobre 2020 alle 22:48 da Francesco

Mi chiedo se l’attuale annus horribilis voglia intrattenere con ulteriori giochi di prestigio il suo pubblico di candidati alla morte, ineluttabile protagonista sul fatiscente proscenio di un presente diroccato. Una claque di fantasmi e un sipario stracciato dalle intemperie.
Cosa si può regalare a chi abbia donato tutto se stesso? Io non mi sono mai trovato in una situazione di cotale altruismo e annullamento, invero neanche l’anelo, però compio uno sforzo empatico per capire la difficoltà di chi davvero debba trovare un piccolo presente per un siffatto individuo. Non sono votato alle cause perse né mi piace salire al volo sul carrozzone dei vincitori, tuttavia sarebbe buffo se le prime dirottassero il secondo: ecco, quello è uno spettacolo per il quale sarei disposto a saltare il mio unico pasto o a farne uno con il servizio a tavola dal distributore di merendine.
Non credo che l’assurdità dei tempi correnti vesta abiti poi così diversi dalle sue precedenti colleghe. Bene o male le cose sono sempre le stesse, però è sufficiente non crederle tali per viverle come inedite e primarie.
Non so se sia peggio uscire dal seminato o da un utero, ma di certo il corpo è una prigione che io curo come se fosse un tempio da lasciare in eredità agli agenti atmosferici. Per qualcuno non ha senso morire sani, come se l’organismo fosse soltanto il faccendiere dell’appagamento subitaneo dei sensi, per me invece il momento della morte è fondamentale e credo che dipenda molto da come sia stata condotta la vita, perciò io agisco in accordo con questa piccola convinzione. La mia è un’accortezza metafisica che ha tante buone ripercussioni sul piano ordinario dell’esistenza, ergo non ho proprio bisogno di consultare il libretto delle istruzioni né il manuale dell’altrui disfacimento. L’impalpabile pochezza dell’avvenire è visibile a occhio nudo, la verità invece mi pare assai più casta e pudìca.

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26
Ott

Al cospetto dell’Areopago

Pubblicato lunedì 26 Ottobre 2020 alle 23:16 da Francesco

Mi trovo al centro di una vicenda disgraziata, uno di quegli eventi annunciati che tante volte ho sondato con occhi e orecchie nei servizi di cronaca, ma sto affrontando la cosa con il dovuto distacco, con una forte vocazione all’atarassia e come se non mi riguardasse. Colgo quest’occasione per inseguire ancora una volta la phronesis nelle tenebre degli eventi e dunque nulla mi sorprende. Le difese immunitarie del mio spirito si sono sviluppate negli anni alle pendici dell’Iperuranio, sul pensiero dei grandi filosofi e in seno a un’efficace introspezione.
Legge e giustizia non combaciano sempre e talora risiedono agli antipodi delle cose umane, ma io non ho la facoltà di accorciare le loro distanze e dunque mi rimetto al volere degli dèi. Tutto accade per un motivo: o per insegnare qualcosa al diretto interessato o come risultato di un ritorno karmico. Osservo la prosaicità dei fenomeni ordinari alla luce accecante di una realtà superiore e non chiedo conto della seconda proprio come non pretendo di governare i primi in un’ubriacatura di controllo.
Sarà ciò che dev’essere, com’è sempre stato e come sempre sarà. Le miserie degli esseri umani sono forse le caratteristiche distintive della specie, almeno per quanti non protendano verso le possibilità più alte a loro disposizione. Potrei disquisire su cosa sia la società, per quali ragioni essa nasca e su quali premesse, ma ho disturbato tante volte il signor Hobbes che non me la sento di turbarne ancora il meritato riposo. Nulla permane, né la verità né quanto le si oppone ontologicamente, e questa certezza mi rasserena. Il resto va da sé, allo sbando, nel tempo che gli rimane tra le illusioni di un’attualità sempiterna. Mi raccomando il gallo a Esculapio.

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19
Ott

Un incipit e poco più

Pubblicato lunedì 19 Ottobre 2020 alle 17:30 da Francesco

Quello seguente è il testo iniziale d’un romanzo che non ho mai portato avanti e al quale ho deciso di negare ogni possibile sviluppo, perciò mi sono convinto a riversarlo su queste pagine virtuali.

Anche le fronde degli alberi erano esposte a mezz’asta e in quella giornata invernale di grandi sconvolgimenti non sembrava che fosse la tramontana a piegarle, bensì il loro avvilimento dava l’idea di una spontanea e arborea compassione. Il pronto soccorso era gremito di malati immaginari e di pazienti gravi, però infermieri e medici riservavano a entrambi il distacco di chi ormai si era assuefatto alle sventure altrui. Da un ginepraio di priorità policromatiche e confuse emerse improvvisamente un ambasciatore in camice bianco: costui non proferì parola poiché aveva imparato a rinunciarci come in un voto di silenzio e, nondimeno, con un lieve cenno del capo, fece intendere ai diretti interessati l’ineluttabilità della situazione, la perdita d’ogni speranza, la resa della medicina.
Guardai con la coda dell’occhio chi avevo accompagnato in quel luogo dove ogni dì si smistavano decessi e remissioni. Mi aspettai che all’improvviso il rumore di fondo fosse divelto da urla strazianti e da una scena madre di cui anche l’empatia più parca avrebbe dovuto dare conto, ma evidentemente il sipario era già calato su tutte le reazioni percepibili dall’esterno: il crollo del mondo finì per riguardare solamente quanti fossero tenuti a prendervi parte nelle rispettive coscienze. Alfredo e Monica si strinsero in un dolore di cui ignorai del tutto l’entità in quanto non ero un genitore e, soprattutto, non volevo diventarlo.
Non ci scambiammo manco una frase e a malapena i nostri sguardi s’incrociarono, tuttavia ci intendemmo sul daffarsi e quindi ci avviammo all’uscita, noi che ancora ne eravamo capaci sulle nostre gambe. Salimmo in macchina e mi misi al volante. Non appena inserii la chiave l’autoradio emise un successo di qualche decade prima, ma ebbi un attimo di esitazione a spegnerla poiché la melodia non mi dispiaceva affatto e avvertivo l’inopportuna voglia d’una certa leggerezza. Scrutavo la strada per non incombere in un’occhiata di troppo con i due e ascoltavo il silenzio imperfetto dell’utilitaria. Sorse in me una riflessione trascurabile appena scorsi alla mia sinistra delle persone allegre che socializzavano sotto il gazebo di un bar, al riparo dalla pioggia e probabilmente da altri aspetti ancor più precipitanti di quella loro quotidianità. Mi venne da pensare all’incommensurabile differenza che in quel preciso momento sussisteva tra il microcosmo là assiso e il dramma di cui mi ero ritrovato traghettatore e testimone, ovvero alla differenza di situazioni così opposte e prossime. Per l’ennesima volta fui investito da una conclusione che mi trascinò via con la portata di un’alluvione ciclica in una zona della mia mente a rischio idrogeologico, con straripamenti di liquido rachidiano, frane esistenzialistiche e lampi di gnosi. Quel giorno io ero del tutto equidistante dal dolore di chi mi stava vicino e dalla gioia di quanti invece avevo còlto a breve distanza con lo sguardo mio, però in altri periodi, allora già sfociati nel delta d’un passato più remoto rispetto a quello della presente narrazione, anch’io a mio modo e con gradazioni diverse ero stato un interprete di quegli stati emotivi. Possibile mai che l’esistenza si risolvesse in una successione di umori e sentimenti, ognuno dei quali avanzava senza ritegno né posa il primato della sua caduca reggenza? E quale cattivo gusto persuadeva taluni a industriarsi in opere d’ingegno per celebrare quelle polarizzazioni, a loro volta incensate da quanti sapevano rispecchiarsi in tutta quella pece?
Mi atterriva l’idea di come io stesso in una certa misura fossi ancora in balìa delle fluttuazioni emozionali e al contempo mi consolava il grado di affrancamento al quale ero assurto in quell’àmbito, però ne ravvisavo il suo segno più evidente e gravoso proprio in quest’ultimo rilievo che così ripartivo. Non potevo liquidare i moti più profondi dei recessi altrui con un’aspirazione stoica e anacoretica, anche perché non ne sarei stato capace con i miei, però ne ero oltremodo tentato. Dopo un po’, assorto com’ero in ragionamenti di tale risma e ramingo lungo tortuosità mentali assai diverse dal rettilineo asfaltato sul quale stavo avanzando meccanicamente, mi resi conto che avevo superato la prima uscita utile per giungere a casa dei miei passeggeri; con maggiore prontezza invece mi accorsi di come costoro non mi avessero detto nulla in merito sebbene avessero notato sùbito lo sbaglio.
L’uscita successiva non distava molto e il tragitto si sarebbe allungato di poco se Alfredo non avesse cambiato i piani col mesto placet della moglie: ne assecondai le richieste perché rispettavo il suo lutto e non avevo niente di meglio da fare. «Non ci va di tornare a casa, è troppo presto, fa ancora troppo male. Andiamo a mangiare qualcosa, non importa dove, fai tu» disse l’ormai ex pater familias dopo che ebbe poggiato la sua mano sulla mia spalla per richiamare l’attenzione, anch’essa di mia proprietà.
Sentii il peso di cotanta libertà e fui incerto su quale luogo scegliere per desinare, difatti da quella decisione sarebbero poi dipese le successive cacate. Non tenni affatto conto delle preferenze di terzi benché le conoscessi e optai per una pizzeria poiché quel giorno non volevo avere a che fare con altri cadaveri. Da un po’ di tempo non riuscivo più a consumare carne né pesce e mi pentivo profondamente per averlo fatto in passato, tuttavia non infastidivo il mio prossimo con le scelte etiche a cui mi ero risolto e cercavo per me un gusto superiore, qualcosa che rendesse naturali le piccole rinunce. Invero la mia preferenza non fu dettata soltanto da codeste inezie di carattere personale e dalla prospettiva di assumere grandi quantità di carboidrati, bensì pensai sul serio che una margherita o una quattro formaggi potessero aiutare qualcuno a superare la morte d’un figlio e, cotale idea, mi costrinse ad allungare la lista dei caduti, difatti già dalle prime e sconvenienti avvisaglie fui costretto a soffocare una risata fragorosa che, celere, mi era cresciuta dentro in piena autonomia.
Guardai il mondo attraverso il parabrezza per altri dieci chilometri e alla fine raggiunsi il centro desolato di un comune limitrofo. Quasi tutte le sparute anime che v’erano nei paraggi vestivano corpi avvizziti e crani canuti, ma era solamente una questione di tempo prima che i prodromi della bella stagione sottoponessero quell’isolamento e quella senescenza al salvifico vassallaggio dell’impero turistico.
Non fui costretto a lottare contro forze superiori per trovare un parcheggio e me ne rallegrai, ma ancora una volta fui attento a non lasciare che quella piccola frivolezza mi contaminasse il volto e si traducesse in un’espressione equivoca. Nel paese fantasma Alfredo e Monica sapevano confondersi meglio di me con gli evanescenti autoctoni, difatti negli ultimi mesi erano diventati le ombre di loro stessi; io invece mi sentivo come l’Alighieri nel suo viaggio agli inferi ancorché la mia catabasi assomigliasse di più a una gita fuori porta. M’incamminai lentamente verso il corso cittadino e appena vi misi piede fui rapito dai secoli che promanava, come se in qualche vita precedente avessi già respirato quell’aria antica. Non era la prima volta che in quel luogo o altrove qualcosa mi proiettasse verso un passato lontano, in erranza tra ricordi dalle nulle certezze e dal largo anticipo sulla mia nascita. Rallentai il passo e serrai gli occhi per consentire alla fantasia di riempire a piacimento i vuoti di memoria, autentici o apocrifi che fossero: non pretendevo verità né consolazioni. Mi fermai dopo pochi metri dall’inizio delle presunte reminiscenze e alle mie spalle percepii l’assenza della coppia in lutto. Alzai lo sguardo al cielo come per trovare una conferma a quella mia sensazione, tuttavia non ottenni aiuto dalla regia, qualunque essa fosse, così mi voltai per avere la certezza di quella mancanza.
La mia vista si perse oltre l’arco a tutto sesto che aggettava su un fosco orizzonte, ma non vi era traccia alcuna di terzi e forse costoro se le erano portate dietro in un repentino oblio.
Ripercorsi la brevissima andata, alla stregua di chi avverta l’imminenza della morte e rovisti tra i propri ricordi per trovarvi qualcosa da farle indossare a mo’ di senso apparente. Entrambi genuflessi, si consolavano a vicenda in un reciproco abbraccio e da tergo ne osservavo le schiene curve mentre udivo il di lei pianto: così pativano marito e moglie.
I due erano stati colpiti dalla vista di una targa che campeggiava all’ingresso del paese: le incisioni su quel marmo ingiallito commemoravano un ragazzo del posto, vittima di un incidente sul lavoro, ed erano state scritte nella lingua del lutto, la stessa in cui le avevano appena lette i tristi coniugi. Inavvertita e superflua, dalla mia comparsa trassi la prospettiva migliore per contemplare il grande struggimento della posa plastica nella quale ero incorso, una scena quasi scultorea che mi ricordò una pietà rinascimentale ed effettivamente i miei occhi vi si attardarono con quella chiave di lettura.

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