La fenomenologia dello spirito è un’avventura gnoseologica e un allenamento per la capacità d’astrazione, ma per me è anche uno dei pochi scritti verso cui ho un timore reverenziale e una ciclica necessità di tornarci sopra. Hegel meno d’altri si presta ad amputazioni aforistiche, il suo è un impianto troppo complesso per le esternazioni mestruate, perciò mi ci misuro sempre senza la pretesa di conservarne una comprensione integrale: è lo stesso approccio che riservo a Kant e ad Heidegger, altre frequentazioni abituali su cui faccio prevalere il principio di realtà.
La filosofia ha un’applicazione pratica che sfugge a quanti la ritengano fine a stessa e la riprova è anche nelle vite irrisolte dei suoi detrattori: è stato il mio spirito d’osservazione che mi ha condotto verso lo spirito assoluto, una sorta di “ragion pratica” e non un nozionismo bulimico. Per me meglio guadagnare tempo perdendolo con morti illustri che perderlo e basta giustapponendo monologhi nell’illusione di un dialogo. Cosa avranno mai da dirsi i vivi, boh!
Non riesco a detestare il caldo perché lo associo al deserto di cui mi sento interprete e quindi lo vivo come un alleato dal cattivo temperamento. Forse io dimoro in un’oasi solipsistica, però tutt’attorno vi sono dune sterminate e il vento non porta più l’eco di un nome che fu. Non so dove si trovi la civiltà e mi chiedo se quest’ultima davvero sappia rispecchiarsi in se stessa o se invece produca frutti acerbi che le vengono sottratti con destrezza. La sabbia è anche quella della clessidra che scandisce il tempo della mia mortalità, di granello in granello sebbene una simile quantizzazione sfugga a occhio nudo. Dispongo di molte cose tranne che d’uno scopo, ma riesco a farne a meno e non lo reputo neanche una comodità.
Qualcosa mi manca senza ombra dubbio, ma forma un paradosso giacché anche quell’assenza concorre alla mia attuale composizione. Talora avverto pure una nostalgia che non riesco ad attribuire a questo mondo, come se costituisce l’ultimo strascico di un’altra vita, o una cartolina spedita da me a me, però ad anni luce di distanza e con una lunga giacenza presso l’eternità.
Non so definirmi in maniera compiuta giacché compiuto non posso considerarmi, ma la più recente delle mie parentesi racchiude ancora buone abitudini, momenti piacevoli, finanche gioie e slanci d’entusiasmo. Prima o poi dovrò districarmi in situazioni poco edificanti, d’altro canto è inevitabile, quindi mi chiedo se sia il caso di frequentare un corso per modellare la creta o se almeno debba impormi di guardare qualche tutorial sull’alchimia, ma ho ragione di credere che la scelta più indicata sia quella della praemediatio malorum di stoica memoria. Nei pressi di queste parole ci sono io, nei loro orizzonti ultimi la mia lontana foggia, quasi indistinguibile: oltre, non so cosa, non so chi.
Trovo che quest’estate sia un po’ sottotono, tuttavia non riesco a capire i motivi di questa mia impressione e dubito che m’interessi farne emergerne alcuno. Piccoli disastri e polemiche sempreverdi sbocciano attorno a me, nell’aridità del giochino sociale in cui le regole cambiano a seconda di chi le detti, ma per fortuna io non ho parte in causa e veleggio a debita distanza dalle sponde di chi è sempre intento a cambiarle. La volubilità non è per forza una colpa e soltanto i cretini non cambiano mai idea, ma allora mi viene da pensare che talvolta gli opportunisti sfruttino certe occasioni per non sembrare tali né cretini. “L’uomo non è pietra di tungsteno e cambia spesso proprietà“, cantava qualcuno: aveva ragione.
Non cerco fortuna e forse è proprio questa la mia fortuna più grande, ma se anche provassi a trovarla dubito che vi riuscirei. Per anni ho provato a capire se in me vi fosse un grande talento da coltivare, ma non ho scoperto nulla d’eccelso, tutt’al più qualche buona predisposizione e nient’altro. Se avessi avuto una grande qualità mi piace pensare che ne avrei avuto cura anche se non ne fossi stato entusiasta. In parte sono contento della mia mediocrità perché è molto comoda e non inficia l’autostima di cui sono munito. Il meglio di me riesco a darlo per i fatti miei e il mio excursus vitae ne è testimone. A quarant’anni non ho ancora nomi propri che mi rimbombino in testa, bensì pensieri leggeri che non hanno volto né identità e ai quali non devo rimediare appigli esogeni. Non ho alcuna idea di dove io stia andando, tuttavia mi lascio trasportare dalle correnti perché non sono quelle agitate della tempesta.
Ho una predilezione per i temporali estivi e preferisco l’ira dei nembi all’indolenza dell’afa o di quanto le rassomigli. Maestose, tragiche e devastanti nelle loro espressioni più intense, subisco dalle forze della natura una fascinazione archetipica, ma se mi trovassi in loro balìa la mia attenzione sarebbe rivolta ad altre e più dirette conseguenze. Alla spontanea lingua della distruzione risponde quella indecifrabile dei silenzi, anch’essi passeggeri come la prima, ma per me è difficile stabilire quale delle due sia causa dell’altro.
Non mi spingo a definirmi meteoropatico, però certe situazioni atmosferiche le preferisco ad altre e mi piacerebbe poterle scegliere a piacimento. Per decidere le condizioni del tempo dovrei prima fare un apprendistato da megalomane e poi un concorso da demiurgo, ma non è una carriera nelle mie corde, a riprova di come non tutto sia possibile. Pioverà quando io lascerò il mio attuale corpo? O forse spirerò in pieno giorno, con il cielo terso e l’ingombrante presenza del Sole per interposti raggi?
Adoro la brevità e l’intensità delle piogge tropicali, mi piacciono anche certi pomeriggi d’autunno che vengono guastati da piccole burrasche, come se queste fossero dei barbari all’assalto di una civiltà già in declino: i turbamenti non mi turbano. Non c’è esposizione universale che possa tenere il passo di quella agli eventi atmosferici. In più occasioni mi sono ritrovato con la testa fra le nuvole, ma ricordo con piacere quelle in cui v’ero di fatto, ossia a bordo di qualche aereo.
Quando mi trovo ad alta quota non penso mai a quanto vi sia oltre quel livello, come se altro zenit non esistesse. Forse accade un’omissione analoga nei più fausti moti dell’animo perché sembra che nulla d’altro possa arricchire la già lieta novella. Può darsi che al peggio non vi sia mai fine e immagino che lo stesso valga per il suo esatto opposto, ma soprattutto mi chiedo se la fine stessa s’incontri mai dinanzi a sé.
Mi vedo costretto a eludere varie forme di contegno per scongiurare che queste degenerino nella tanto temuta seriosità. Non riesco a intavolare conversazioni che superino la prova delle mie insulse facezie, ma in realtà non sono mai io il primo ad apparecchiare simili conviti. Cerco di tenermi stretta la leggerezza come fanno le soubrette e le modelle. Non demonizzo la chirurgia estetica, ma non ambisco a farmi due palle a guisa di mongolfiere. Nel caldo di questi giorni i gatti mi sembrano più pigri del solito mentre io cerco di esserlo un po’ meno. Ognuno hai suoi tempi e i propri ritmi, ma vorrei che i miei seguissero sempre l’incedere del cosmo e della realtà in suo subordine. Mi rimane da scrivere tutto quello che non ho mai scritto e forse qualcosa in più. Non voglio lasciare un’impronta nella storia né sulla scena di un crimine, perciò non mi adopero in questo senso e può darsi che non lo faccia nemmeno in un senso apparente.
Da piccolo collezionavo schede telefoniche e non ho mai pensato di fare altrettanto con i problemi, bensì a questi cerco sovente di dare una soluzione celere e indolore: tutto ciò sembra assai banale, eppure non lo è affatto e me ne rendo conto grazie allo spirito d’osservazione. Non è questa la sede per disquisire di quei soggetti che amano complicarsi la vita per il gusto di farlo, ma anche se lo fosse io la convertirei in un chiosco di piadine vegetariane. Non so se la carne sia debole: forse lo è chi la consuma facendosene consumare.
Più che vacanze estive io vorrei farne di metafisiche o di intergalattiche. Il mare è parte del mio habitat e degli scogli isolati sono un aficionado, però se dovessi cercarne un altro mi piacerebbe incontrare quello di un pianeta lontano e inesplorato. È la prospettiva della distanza che mi avvicina a qualcosa.
Non ho molto da scrivere né granché a cui pensare, perciò mi trovo a corto di parole e non ho intenzione di chiedere un prestito alla fantasia. Non amo i debiti di riconoscenza e per fortuna non ne ho manco uno da saldare. Sono al centro di me stesso e non ho ramificazioni altrove. Se volessi mettere radici di certo non potrei piantare le mie poiché non ne possiedo e forse neanche le desidero. Sono un peregrino del tempo come tanti altri e passo in secondo piano mentre tengo me stesso al primo posto.
Non esercito alcuna forma di reciprocità che travalichi la goliardia o il formalismo d’una spontanea cordialità, quindi sono esentato da tutte quelle incombenze di cui necessitano le relazioni umane più profonde: vivo a ridosso della mia ombra e in accordo con la sue prolungate assenze. Ho entusiasmi che sono soltanto miei, però non ne rivendico la paternità perché non voglio essere genitore biologico né adottivo: preferisco il mio ruolo a latere. Esistono dinamiche su cui non posso incidere, quantomeno non in maniera diretta, quindi volente o nolente non mi resta che accettare il corso degli eventi nei suoi imperscrutabili sviluppi.
A volte riesco a fare del mio meglio, ma in certe circostanze il mio meglio non basta né si avvicina allo stretto necessario. L’impegno può avere nobili intenzioni e di norma riscuote un plauso, ma non è garanzia di riuscita e talora si riduce a vano sforzo tra le cose del mondo. Se volessi prestare il fianco al facile fatalismo lo farei senza troppi giri di parole, però sono proprio le scorciatoie che mancano: una strada a senso unico si snoda innanzi e porta chissà dove. Non è tutto possibile, ma talora lo diventa quanto è meno probabile: secondo me è sempre una questione di tempismo. È tarda notte, quasi tutto tace e nemmeno io faccio troppi rumori.
La morte e i sogni di Marie-Louise von Franz
Pubblicato venerdì 21 Giugno 2024 alle 23:16 da FrancescoNella morte ravviso un momento capitale in ogni sua accezione, dalla più figurata a quella letterale, perciò nutro un “vivo” interesse verso questo orizzonte sul quale tutto si staglia. Defungere riesce a tutti e quindi viene da pensare (finché è dato farlo) che la vera inclusione si dia nella dissoluzione organica. Nel Fedone Platone considera la filosofia la via regia per imparare a morire e ne fa suo scopo precipuo, asserzioni queste che fanno il paio con altre tradizioni sapienziali di un Oriente plurimillenario: per mia parte ho visto le mie convinzioni salire di loro sponte su questo carrozzone metafisico.
Conoscevo la von Franz come allieva junghiana, ma quando mi sono imbattuto in questo suo scritto ne ho subìto l’immediata fascinazione. È suggestiva l’ipotesi secondo cui sul punto di morte vengano meno i limiti dello spaziotempo e si apra una realtà superluminale in cui la sincronicità assurga a nuova regola. Ne “La morte e i sogni” la von Franz descrive e analizza casi in cui il mondo onirico annuncia l’imminente fine della dimensione fisica, rendendo così possibile un accostamento del testo alle esperienze di premorte riportate altrove e agli studi di psicotanatologia della Kübler Ross, tra l’altro anch’essa citata nel libro.
Pochi giorni fa ho compiuto quarant’anni alla luce della mia noncuranza, ma non ho idea di cosa implichi questo presunto traguardo. Non so se io appartenga alla mia età o viceversa, però non percepisco differenze sostanziali rispetto a quando feci ingresso nella mia terza decade, inoltre il mio attuale valore VO2Max (un buon 68) certifica che sotto il profilo atletico sono un ventenne. Sto per i fatti miei, ho le mie abitudini e non coltivo pomodori né speranze giacché l’orto vuole l’uomo morto: mica sono scemo io, o almeno non così tanto! Non considero la mia esistenza vuota, però veste larga, questo sì: io ci sto comodo e c’è spazio anche per i gatti.
Se oggi crepassi cosa lascerei di me in questa dimensione? Poco e per poco tempo, ma non ho mai avuto l’ambizione di guadagnarmi l’intitolazione di una via né una statua: le strade sono sporche e le statue pure, ricoperte come sono dalla merda dei piccioni. Per avere una crisi di mezz’età dovrei contare tutte le reincarnazioni pregresse e capire a quale punto io mi trovi. Potrei essere nell’ordine dei millenni? “Quando fui donna o prete di campagna, un mercenario o un padre di famiglia” cantava Franco Battiato su Caffè de la paix. Cosa dovrei costruire per aggettare la mia attuale e transeunte persona sul modesto avvenire che forse mi si profila innanzi?
Vivo così, ma così come? Un po’ come viene. Non m’illudo di essere sempre nel presente e tengo conto di tutte quelle prosaiche scadenze che costellano la vita ordinaria, però non mi fascio la testa prima di rompermela a meno che non voglia indossare una hachimaki. Anche se in ritardo, tanti auguri!
I pensieri di Dio prima della creazione del mondo
Pubblicato sabato 1 Giugno 2024 alle 01:46 da FrancescoAssisto al ciclo della vita nei suoi momenti di espansione e contrazione, alle nascite pedisseque e ai lutti mai inediti, in un gioco di contrari che si accordano a prescindere da chi non si accordi con se stesso. Sono sia il mio liberatore che il mio carceriere, ma nelle vesti del secondo cerco di non sequestrarmi troppo a lungo nei particolari: per me la visione d’insieme comincia a prendere forma nel dileggio delle mie istanze specifiche. La lucidità mi serve come bussola e io ricerco l’amor proprio nelle sue massime espressioni le quali, sovente, hanno natura solipsistica e autoreferenziale, ma a tutto questo mio industriarmi non devo riservare grossa considerazione. Forse non riesco a esprimere bene cosa intendo o può darsi che abbia voglia di dilettarmi con una disonesta umiltà al cospetto di me stesso, magari per dare un tono derisorio a queste righe irrisorie; ammessa pure l’incapacità di scrivere per esteso quanto voglio dire, di certo posso coglierlo leggendomi con i miei occhi e quindi il problema per me non si pone: la questione resterebbe aperta se io volessi chiudermi a riccio o se provassi a trasformarmi in un infopoint.
Per me il parossismo di certi eventi è simile alla scarica elettrica che scende da un nembo e si disperde a terra. Talora le rotture dei rapporti formano l’ossatura di quella medesima relazione, ma a patto che il rimedio non sia più nocivo di ciò a cui si contrappone. Una cura da cavallo non fa andare sempre al galoppo. Non m’intendo di legami per esperienza diretta e non vivo accese passioni per interposta persona, ma nel distretto del mio individualismo non v’è ostacolo che mi precluda una splendida vista dalla mia torre d’avorio. Non so sempre cosa voglia la logica da me né quanto io pretenda da lei, però resto nel campo delle possibilità e non m’illudo che nulla vi sia oltre le linee laterali e al di là delle linee di fondo in cui esso è confinato.
Il logos arriva dove può rispetto alla realtà, io arrivo dove posso rispetto al logos e chi arriva per ultimo, gentilmente, chiuda la porta sebbene indietro non si possa tornare: è più un atto di buona creanza, un gesto proforma e di bon ton. L’entropia non può diminuire e una taglia forte a volte non può dimagrire, perciò ognuno indossa quello che gli entra mentre l’universo si espande. Galassie lontane e pensierini vicini: questo accostamento dà la misura della miseria.
Quando le giornate si allungano mi sembra che la vita faccia altrettanto. Nell’aria vibra qualcosa che contraddice il mondo stesso in maniera positiva e io sono contento di riuscire a cogliere queste sfumature d’opposto tenore. Mi piacciono gli ampi spazi nei quali si espande la mia esistenza giacché al momento vi mancano degli ostacoli significativi. Non serbo in me ragioni particolari per giubilare, ma sono pervaso da una serenità nient’affatto inedita che già in passato, più volte, ha dato un’impronta precisa ad alcuni periodi del mio vivere terreno.
Avrei tutte le ragioni di considerarmi un povero stronzo se non sapessi apprezzare frangenti come l’attuale. Non so se quanti si accontentino poi finiscano davvero per godere e in tutta onestà non ho ben chiaro cosa significhi quel vecchio adagio, ma con i miei moti interiori io mi oriento soppesandone la spontaneità, come se talora fossero forze a me estranee e di cui mi sia dato tutt’al più di farne misurazioni in termini d’autenticità. Non posso controllare i venti, però ho modo di stabilire la velocità media a cui spirano. Posso fare previsioni senza pretendere che si avverino, scomodando calcoli stocastici da cui posso trarre in primis come unica certezza la loro incertezza. Non cerco una ragione in ogni cosa perché il logos non può abbracciare tutta la realtà, perciò ammetto che la serenità possa sussistere senza troppe spiegazioni, inoltre è l’esperienza pregressa a confermarmi quanto ho appena scritto. Se proprio volessi analizzare la questione dovrei operare come nella teologia apofatica, ossia asserendo quanto il mio stato d’animo non sia: sarebbe un interessante modo di procedere se m’interessasse farlo.