25
Mar

Lo scriba del sabato

Pubblicato sabato 25 Marzo 2006 alle 22:25 da Francesco

Tendo ad abusare dell’ironia. Tratto con ilarità la morte, le malattie, i drammi personali, l’inibizione comunicativa della persone e ogni altro argomento che di solito riesce a scuotere le corde della sensibilità umana. Ironizzo molto su me stesso e sul mio vuoto emozionale che mi obbliga a massaggiarmi lo scroto. Per me la scrittura è catartica, mi purifica, ma ultimamente mi sono accorto che queste righe rappresentano anche la masturbazione del mio intelletto. Potrei scrivere queste parole sulle pareti dei cessi di una stazione ferroviaria e per me continuerebbero ad avere la stessa valenza masturbatoria. Provo un’attrazione morbosa verso la verità e alcune volte tendo a rincorrerla anche quando essa risulta dannosa per i miei interessi. Sono attratto dall’amore e non smetterò mai di sottolinearlo. La mia visione dell’amore non è fiabesca, ma ha sicuramente una grande componente di romanticismo moderno. Non smetterò mai di ripeterlo a me stesso: non sono un tipo adatto ai flirt con le pin-up provinciali, il mio assetto sentimentale mi permette solo storie a lungo termine. In quasi ventidue anni non ho mai avuto una flirt né una storia durevole: il mio cuore è vergine come il mio uccello. Alcune volte mia madre mi taccia di insensibilità perché dileggio la morte, forse prossima, di mia nonna. Non riesco a pormi in modo serioso nei confronti della morte perché da piccolo ho imparato a esorcizzarla. Forse assumerò un tono più serio se incontrerò qualcuno a cui mi legherò veramente. Non provo affetto per nessuno dei miei pochi familiari e non ho mai nascosto loro questa verità. Sono in grado di provare affetto e di amare, ne sono certo, ma per me non basta un legame sanguigno a giustificare sentimenti così profondi. Provo un po’ di bene per mia madre, ma credo che buona parte di questo lieve sentimento positivo nei confronti della mia genetrice derivi dal complesso di Edipo. In questa fase della mia vita non sento il bisogno dell’amicizia, nonostante io sappia relazionarmi con gli altri e mantenere legami solidi. Non ho mai avuto un legame solido e non ho mai amato, ma asserisco di essere in grado di fare entrambe le cose: sono abbastanza onesto con me stesso per sapere che è così. A me farebbe comodo comportarmi come la tipica persona incazzata con il mondo, ma non ho bisogno di un’ennessima maschera perché ho lasciato da tempo il palcoscenico delle cazzate. Sono un ragazzo tranquillo con un bagaglio di delusioni né più grande né più piccolo di quello di tanti altri. Purtroppo non ho collezionato abbastanza eventi spiacevoli per professarmi vittimista, la mia raccolta di punti esistenziali mi permette unicamente di desiderare un’analisi oggettiva della mia vita, anche quando tale analisi mi infastidisce o lede il mio narcisismo. Vivo con scioltezza e faccio surf sul vuoto in attesa che finisca l’onda del nulla per stendermi sulle sabbie di una prima, e spero unica, passione. Certe volte cado nel tranello della banalità della malinconia e rimango assuefatto dal suo aroma emotivo: per fortuna riesco a liberarmi sempre più spesso, e con grande facilità, delle tentazioni depressive. Non è sempre facile rimanere razionali e allo stesso tempo coltivare sensazioni che hanno poco a che fare con la ragione, ma credo che riuscire a mantenere un equilibrio, tra l’altro crescente, per la maggior parte del proprio tempo, sia un ottimo risultato. Sono convinto che la ragione e il sentimento non devono essere scissi, ma devono essere dosati opportunamente per dare vita a un’alchimia corretta.

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25
Mar

Un altro risveglio

Pubblicato sabato 25 Marzo 2006 alle 16:58 da Francesco

Anche oggi mi sono svegliato alle tre e mezzo di pomeriggio. È un sabato ombroso che credo, forse erroneamente, non abbia nulla da offrirmi. La mia testa ruota e il mio sguardo cerca qualcosa per mettere in moto l’ispirazione pomeridiana, ma non c’è nulla che riesca ad accendere la mia verve. Keiko Matsui, una tastierista fusion nipponica di talento, mi fa compagnia in questa prima parte della mia giornata. La quiete possiede ancora le chiavi della mia vita e non sembra intenzionata a cederle. Mi sembra di vivere le ore seguenti al dies irae, ovvero il giorno del giudizio in cui credono i cristiani. La mia pace è frutto di un inverno nucleare e si espande così velocemente da risultare impercettibile ai sensi umani. Spesso sono monotono, ma le parole che ripeto non sono altro che il riflesso della mia esistenza pacata. Sono vivo come altri miliardi di persone e lascio che il tempo porti occasioni per un nuovo inizio o che incida un epitaffio sulla mia carne prima che essa vada in necrosi.

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25
Mar

Il pugno di ferro della noia giovanile

Pubblicato sabato 25 Marzo 2006 alle 05:26 da Francesco

Per le strade di Marsiglia si aggiravano quattro balordi con il trip di Arancia Meccanica. I quattro giovani erano soliti inneggiare alla violenza gratuita e alla droga sintetizzata. Non è ancora il momento di parlare di loro. Un vecchio marsigliese di nome Henry era chiuso nel suo appartamento ed era intrappolato nel proprio lutto a causa della morte della moglie. Nella sua testa echeggiavano le parole di padre Antoine: “Cenere alla cenere, polvere alla polvere”. La sua Marie amava gli animali e ogni giorno portava del cibo ai cani e ai gatti della sua via. Il futuro aveva in serbo anni di solitudine e pasti freddi per la fase crepuscolare di Henry. Erano le sette di sera, il cielo di Marsiglia iniziava a tingersi di nero e le lampade incominciavano a verniciare le finestre dei palazzi con un giallore tenue. Henry decise di uscire per raggiungere il bar dove sovente aveva speso i suoi anni migliori e molti guadagni del suo lavoro di imbianchino. Raggiunse l’entrata del bar e notò, con dispiacere, che era chiuso. Non volle tornare a casa, perciò iniziò a fare lo slalom tra i lampioni, spinto dai ricordi della giovinezza e dai baci ventenni della sua Marie che proprio quel pomeriggio era andata a riposarsi due metri sottoterra. Alla sua destra vi era una lunga fila di panchine e su ognuna di esse si notavano scritte di speranza, di rabbia e d’amore fatte con i pennarelli. In terra, tra la ghiaia, c’erano piccoli tesori del consumismo: qualche lattina deformata di Coca-Cola, mozziconi di sigarette, fazzoletti arrotolati, tappi e buste di plastica. Alcuni pezzi di vetro verde, presenti sulla pavimentazione, giocavano con le luci dei lampioni e proiettavano i propri riflessi nelle retine di chi osava fissarli. Un quadrupede irruppe tra le gambe di Henry ed egli, in ricordo di sua moglie, lo osservò con malinconia e poi gli allungò uno snack alle nocciole sul palato. Prese ad accarezzare il pelo maculato dell’animale, si intenerì e decise di portare il cane con sé. Cambio inquadratura e inizio un primo piano del gruppo di quattro giovani che ho accennato all’inizio. Non ricordo i loro nomi, ma ricordo le loro facce: butterate, iniettate di sangue e devastate dall’abuso di alcol. I quattro si aggiravano per le strade di Marsiglia, a bordo di una Renault Clio, in cerca di vittime. Erano dediti ai pestaggi gratuiti e alle rapine dei passanti. Provenivano tutti da famiglie bianche e agiate. Adoravano praticare il razzismo e lanciavano grida e insulti contro i maghrebini. Tre di loro, una volta, scesero dall’auto per pestare un tunisino che aveva risposto ai loro insulti: il tunisino fu pestato a sangue e la sua ragazza fu spogliata e presa a calci nel ventre senza che nessuno intervenisse. I tre tornarono in macchina, l’autista fece marcia indietro e uno dei quattro giovani si sporse dallo sportello, sputò in faccia al tunisino e poi diede l’ordine di ripartire velocemente tra l’indifferenza dei passanti. Episodi analoghi erano all’ordine del giorno per questi squadristi transalpini. I quattro riabbiosi a bordo della Clio notarono la pesante figura di Henry e decisero di dare sfogo al loro sadismo; incominciarono a coprirlo di insulti, senza che lui reagisse. Henry era un uomo nero di sessantacinque anni, con pochi capelli bianchi e una pancia gonfia. I quattro s’incazzarono perché le loro parole non avevano effetto. Fermarono l’auto e tutta la quadriglia scese per dilettarsi in una pratica più antica della prostituzione: la sopraffazione del più debole. “Faccia di culo, dammi quel cane di merda”, esordì uno dei balordi. Henry rispose con un mugito e non disse una parola. “Dì un po’ vecchio, vuoi farmi incazzare?” continuò lo stesso ragazzo. A un tratto uno dei quattro fece un gesto improvviso e strappò il cane dalla stretta di Henry. L’anziano tentò di ribellarsi, ma due del gruppo lo colpirono e lo costrinsero a restare con la faccia sul selciato. Un terzo esponente della gang rideva e fumava, mentre il quarto ragazzo teneva il proprio piede sulla testa del cane. Henry guardava il cucciolo ed era straziato dal guaito dell’animale. Il cane guaì sempre più forte e smise quando la sua testa venne completamente schiacciata dal piede del ragazzo. “Vaffanculo, mi sono macchiato” disse il giovane omicida del cane che poi si tolse gli stivali sporchi di sangue per lanciarli contro la faccia di Henry. Lo spettatore del gruppo disse: “Andiamo a guardare i quarti di finali della Champions League, ho scommesso trenta euro su quella cazzo di partita”. I quattro risalirono in macchina e tutto continuò come non si era mai interrotto.

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24
Mar

Come ogni dì

Pubblicato venerdì 24 Marzo 2006 alle 16:41 da Francesco

Mi sono alzato dal letto alle tre e mezzo di pomeriggio e al mio risveglio sono stato accolto da una giornata piovosa. Continua tuttora a piovere. Sono nella mia stanza e come al solito ascolto un po’ di musica. Oggi il compito di ritmare i miei minuti è affidato al sax di Wayne Shorter e al basso di Marcus Miller. Ho letto qualche trafiletto della cronaca quotidiana e ho notato che anche oggi è tutto nella norma: vendette trasversali, colpi d’arma da fuoco, battibecchi politici, nuovi culi in mostra e strade bloccate dal traffico. Sono seduto davanti al monitor, indosso una maglietta bianca dell’Adidas e un paio di pantaloncini, sorseggio dell’acqua naturale dalla bottiglia e penso a cosa potrei fare nelle ore a venire. La mia quiete ha molte facce e io le adoro tutte. Talvolta si mostra a me una pacatezza inquietante che emana un odore sgradevole di vuoto, altre volte il viso della mia flemma è l’incarnazione del riposo. Esistono molti aspetti della mia vita solipsistica e talvolta faccio fatica a tenere testa a tutte queste sfaccettature. Ogni giorno cresce in me la convinzione che solo un duetto può mettere in scena lo spettacolo armonioso della felicità. Ho scoperto che a breve distanza dalla mia abitazione esiste una casa chiusa. Nell’ultimo periodo ho notato una notevole proliferazione di mignotte e credo che sia normale: gli istinti chiamano e il denaro risponde. Tempo fa ho ipotizzato di andare con una prostituta per assaporare un po’ di affetto artificiale, ma poi mi sono ripromesso di non farlo perché non mi piacciono le vie di mezzo in ambito sentimentale. Se devo solo svuotarmi i coglioni lo posso fare da solo. Attorno a me sento spesso visioni maschilistiche e apparentemente virili riguardo alla relazione tra i sessi e non solo da parte degli uomini. Per me la copulazione fine a sé stessa è un atto naturale, ma non riesco ad accettarla senza la presenza di un collante sentimentale. Wayne Shorter continua a esaltarsi in “Pandora Awakened”, mentre io mi appresto a sforzare il mio corpo.

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24
Mar

L’aspirante suicida

Pubblicato venerdì 24 Marzo 2006 alle 05:06 da Francesco

Cerco di immaginare il tumulto emotivo di chi si appresta a uccidersi. Alcune volte è un cappio ben stretto a dare corda agli ultimi pensieri di un cadavere, altre volte è un proiettile calibro trentotto a causare l’ultima esplosione d’estasi. In alcune occasioni gli psicofarmaci diventano il dessert dell’ultima cena. L’icona del suicidio per me è rappresentata dalle tempie di un gerarca nazista e dalla canna della sua Ruger. Ci sono altre immagini che associo subito a questa forma di morte e mi accingo a descriverle nelle prossime righe. Una ragazza distesa su un letto, una cenerentola livida uccisa da una passione non corrisposta e accompagnata nella sua morte dal volume alto di una canzone pop melensa. Un uomo di potere logorato dalla sua cupidigia: può essere un banchiere, un politico o un manager. L’adolescente che non riesce a sopportare il peso del mondo e decide di provare la leggerezza di restare a mezz’aria con il collo avvolto da una fune. Una coppia di innamorati che, ostacolati da determinate condizioni sociali, decidono di spiccare il loro ultimo volo d’angelo da un promontorio. Le immagini che scaturisono da queste ultime righe rappresentano i cardini della mia iconografia legata al suicidio. Nel giappone feudale esisteva il seppuku, anche conosciuto come harakiri, ovvero una forma di suicidio, particolarmente in uso nella casta dei samurai, che permetteva di espiare una colpa ed evitare una morte disonorevole. Il seppuku si esegue con la recisione del ventre da parte del suicida e termina con la decapitazione di quest’ultimo eseguita dal kaishaku, ovvero colui che deve assistere il morente con un colpo di spada preciso. Il suicidio ha molte sfumature, accezioni diverse e strade diametralmente opposte. In passato, come ho già scritto, ho ponderato l’idea del suicidio ma non l’ho mai messa in pratica. Credo che molte persone, non solo nei momenti più cupi, si trovino a riflettere sulla propria vita e sulla possibilità di farla cessare. Non biasimo chi si uccide, ma io preferisco continuare a respirare. Chi è realmente in grado di togliersi la vita può essere altrettanto abile nella creazione di nuove opportunità per ottenere il proprio riscatto; ne sono convinto. Penso che talvolta l’instabilità psicologica di una persona risoluta a morire non permetta a costei di rendersi conto della propria forza caratteriale, di come quest’ultima possa sfuggire al suo controllo e risulti quindi difficile da sublimare. Ritengo che alcune volte la morte sia una scelta giusta, come nei casi di certi malati terminali che decidono di ricorrere all’eutanasia. Non ho la minima intenzione di crepare, voglio raggiungere la vecchiaia e defungere di morte naturale rimanendo lucido fino all’ultimo battito delle mie ciglia. Una domanda mi sorge spontanea: perché ho scritto tutto ciò? Mi rispondo nelle righe che seguono. Ho dissertato sul suicidio perché so che in questo preciso istante ci sono bicchieri che cadono da un tavolo, speranze di cristallo frantumate sopra la realtà marmorea, grida e pianti, luci con l’intermittenza guasta, friogriferi vecchi e vuoti, e tavoli di cucina simili alle scrivanie della Gestapo. So che in questo momento qualcuno cerca un motivo per vivere, ma trova solo centinaia di ragioni per smettere di campare. I drammi incrementano l’industria funeraria e la densità demografica dei sepolcri. Non ho morti per cui piangere, così come non ho vivi per cui sorridere, mi trovo al purgatorio e sono determinato a prolungare la mia esistenza il più a lungo possibile senza preoccuparmi della prossima destinazione. Lode a chi si uccide con stoicismo, compassione e crisantemi appassiti per chi viene ucciso dalla debolezza del proprio suicidio.

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23
Mar

Un giorno qualunque

Pubblicato giovedì 23 Marzo 2006 alle 21:59 da Francesco

La quiete continua a tessere le mie giornate. Non ho impegni, eccetto le lezioni di pratica per la patente di guida. Possiedo molto tempo a mia disposizione, ormai sono un magnate dei minuti. Cerco di tenermi occupato con la lettura, con la musica, con l’esercizio fisico e con i mezzi d’intrattenimento, nonostante ciò alla fine di ogni giorno noto ancora la presenza della mia opulenza temporale. Stasera non ho ancora deciso se masturbarmi o meno, probabilmente lascerò il verdetto al lancio di una moneta da cinquanta centesimi. Vorrei che il palinsesto televisivo, durante la notte, mi concedesse la visione di vecchi telefilm polizieschi. Ricordo alcune notti passate a vedere NYPD e Hill Street Blues su Canale 5, Magnum P.I. su Rete 4 e Miami Vice su Rai Tre. Sto ascoltando un intenso duetto tra basso e sax; A Remark You Made di Brian Bromberg. Continuo a guardare i giorni in attesa di notare quello vestito con l’abito del cambiamento. Al momento la mia esistenza non ha un vero senso e credo che non sia indispensabile trovarne uno, tuttavia mi piacerebbe dare un significato particolare a ogni mio respiro.

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23
Mar

Se fossi un boyfriend

Pubblicato giovedì 23 Marzo 2006 alle 14:25 da Francesco

Si alza dal letto e si dirige verso il bagno per farsi una doccia. Mi alzo anch’io, mi vesto e percorro i suoi stessi passi. Tocco il collo della mia t-shirt ed è entro nella doccia assieme a lei. Le nostre carni sono lapidate dalle gocce di acqua calda e rinvigorite dall’odore del bagnoschiuma. Voglio che si senta al sicuro e che mi mostri i suoi polsi senza tagli. Il mio cranio ha bisogno di stare vicino al suo seno per annullare le temperature siderali che spesso lo imprigionano in una ibernazione affettiva. In due durante le notti d’estate, tra la discrezione di quattro mura, sotto un lenzuolo leggero; televisore acceso, luce spenta, finestra aperta, sonno incombente e ritualità affettiva eseguita a quattro mani. Mi piace massaggiare le sue spalle e sentire i ringraziamenti scricchiolanti dei suoi arti esili e aggraziati. Il suono della sua voce è anonimo, ma lei è in grado di sostituire le corde vocali con le corde del suo intimo. Lei mi parla dalla sua interiorità: un angolo buio, dove è genuflessa con le ali abbassate e il capo chino, lo sfondo è nero, cupo. Un lago grande quanto la sua piccola mano allunga i cerchi creati da una lacrima perenne. La guardo, spalmo un po’ di balsamo sulla mia testa e poi passo due dita sulle sue labbra per farle sentire l’aroma di vaniglia del detergente. È l’eternità sancita da due mortali.

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22
Mar

Groove pomeridiano

Pubblicato mercoledì 22 Marzo 2006 alle 18:16 da Francesco

Per me il basso di Marcus Miller rappresenta il concetto di groove. È incredibile cosa possa creare questo polistrumentista di New York. Un gigante nero di Brooklyn che a ventidue anni ha prodotto Miles Davis. Ieri sera, dopo una sega, mi sono guardato un suo concerto e ho raggiunto il vero orgasmo a ogni suo slap. Mi dispiace non possedere una cultura musicale da musicista per apprezzare con più cognizione certi virtuosismi tecnici. Durante la mia adolescenza sono stato accompagnato dalle sonorità dell’hard rock e del death, black, power e heavy metal. In questa stagione della mia vita sono il jazz fusion, l’hip hop e il grindcore a comporre la colonna sonora delle mie giornate. Amo la violenza distorta dei Napalm Death, così come adoro l’irrazionalità di Miles Davis, il flow di Talib Kweli, dei Lords of the Underground, di Sticky Fingaz, le melodie progressive metal dei Fates Warning, l’isterismo dei Led Zeppelin, gli assoli di Joe Satriani, i beat di Premier e la sperimentazione di Allan Holdsworth. Esistono troppi nomi da citare. Credo che la musica sia la più grande invenzione empatica creata dall’essere umano e sono felice di esserne assuefatto, nonostante il mio ruolo sia quello di mero ascoltatore.

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22
Mar

Tulipani ciechi

Pubblicato mercoledì 22 Marzo 2006 alle 14:31 da Francesco

Era affacciato alla finestra e osservava le persone senza vederle. Dennis era un bellissimo ragazzo, cieco dalla nascita. Talvolta alcune ragazzine, in preda agli ormoni adolescenziali, gli sorridevano con timidezza e ammirazione; lui, ovviamente, non poteva rispondere ai sorrisi delle ninfette di quartiere. Aveva un profilo rubato alla scultura ellenica, capelli neri rasi, occhi verdi accecati dalla loro stessa bellezza, un corpo statuario e un animo fragile. Amava la musica e fin da fanciullo aveva mostrato ottime capacità al pianoforte. Il suo lato artistico e sensibile aveva una controparte irosa e violenta; Dennis picchiava la madre perché la riteneva colpevole del suo handicap ed ella non riusciva a biasimarlo nonostante soffrisse molto le percosse della sua prole. Un figlio frustrato e una madre vittimista abitavano a Groningen, nel nord dell’Olanda, in un appartamento di cinquanta metri quadri. Suo padre, un avvocato di Amsterdam, si era separato da sua madre e aveva costruito una nuova famiglia con una venticinquenne cecoslovacca. Il sincipite di Dennis teneva segregati complessi e sensi di colpa. Dennis non poteva lavorare e non amava restare in casa tutto il giorno; alcune volte trascorreva interi pomeriggi a imitare Thelonius Monk con i tasti del vecchio pianoforte di sua nonna. Per un breve periodo riuscì a lavorare presso un piano bar, ma dopo pochi mesi il locale chiuse e i nuovi propietari ne fecero una ferramenta. Dennis era solito passeggiare molto quando i suoi fantasmi gli impedivano di vegetare tra le mura domestiche. Emilie, una sua vicina, lo guardava spesso di nascosto, ma lui riusciva ugualmente ad avvertire la sua presenza. Lei era alta un metro e settanta, capelli lunghi, castani e ricci, occhi marroni, un po’ in sovrappeso, trentanove anni sulle spalle e poco sotto di esse un seno giunonico. Voleva attirare il giovane aitante a sé per accarezzare il suo sguardo vuoto e per servirlo come una madre e come un’amante. Un giorno Emilie invitò Dennis a casa sua per pranzo. Lei, per l’occasione, si truccò pesantemente e indossò un vestito con un’ampia scollatura. I due, diciannove anni lui e trentanove lei, pranzarono immersi in un silenzio a volte imbarazzante. Dennis aveva capito le intenzioni della sua vicina, ma aspettò la fine del pranzo per farle capire che anche lui la desiderava solo ed esclusivamente per fottere, senza complicazioni (così i due protagonisti le avrebbero chiamate) di carattere sentimentale. Emilie conosceva la passione musicale di Dennis e per questo motivo, alla fine del pasto, si alzò, prese un vecchio vinile dei Commodores, si sciolse i capelli e iniziò a dondolare i fianchi al suono della voce di Lionel Richie. Anche Dennis si alzò e iniziò a cercare la sua baccante. Lei si avvicinò alla bocca del suo ospite e gli chiese se desiderasse altro. Lui allungò una mano sul seno materno della sua vicina, lei sospirò per un attimo e poi, inclinando il capo e spostando un po’ i suoi capelli, iniziò a baciare il collo del suo giovane amante. Emilie prese Dennis per la mano e lo aiutò a raggiungere il letto a due piazze. Il seno di lei era quasi nudo, il corpo di lui era ancora avvolto dalle vesti umane. I due stavano per gettare i loro indumenti, le loro inibizioni e qualsiasi regola morale che potesse ostacolare l’estasi di un’attrazione innocente e compulsiva. Dennis si erse sopra il corpo di lei, cercò la sua bocca con le dita e la sua libidine con l’udito. Ci fu una penetrazione lenta, con la schiena di lei spesso inarcata a seguito dei colpi di lui; nella stanza si dispersero alcuni fonemi della lingua dell’eros per celebrare il ritorno all’origine della vita. Tutto ciò accadde mentre Mitra continuava a battezzare nuove gioie e antichi drammi di altri esseri umani in cerca della complicità dei loro simili.

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21
Mar

Il mio guardaroba

Pubblicato martedì 21 Marzo 2006 alle 19:52 da Francesco

Nel mio armadio non ci sono camicie né jeans. Adoro le t-shirt anonime e i pantaloni sportivi. Il mio abbigliamento è minimalista e bicolore; mi disgustano le cerniere, i bottoni e le cinture. Non ho nemmeno una cravatta, l’unico soprabito che possiedo mi è stato comprato da mia madre e non l’ho mai indossato. Durante l’inverno, per uscire, uso solo felpe e pantaloni leggeri con l’elastico. Talvolta il mio look da clandestino cossovaro è considerato come una mancanza di stile e di gusto. Voglio che nel giorno del mio funerale il mio cadavere sia vestito con bermuda e t-shirt. Non mi piacciono nemmeno: le catene, gli anelli, le spille e le fibbie. Ho bisogno della libertà di movimento e quindi abdico alle orripilanti tendenze fashion. Sono un minimalista anche per quanto riguarda il taglio dei capelli, infatti mi piace averli corti. Non sono un fautore del neonazismo, ma devo ammettere che è piacevole avere la testa rasata.

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