Ieri mattina ho salutato lo scirocco e mi sono accertato che avessi ancora tutte le mie convinzioni malthusiane, poi in buona compagnia mi sono recato alla volta della Tuscia dove ho partecipato a una gara di circa 9600 metri.
Ho chiuso al secondo posto, dietro l’inarrivabile vincitore, in 33’52”, a una media di 3’31” su un percorso piuttosto nervoso.
Nella foto spero che si evinca il mio modesto omaggio a Paul Pogba, precisamente quand’egli, all’inizio della sua conferenza stampa dopo la vittoria della Francia sulla Germania, ha spostato delle bottigliette di birra: lui lo ha fatto perché è musulmano, io perché credo che molti problemi di ordine pubblico siano dovuti al consumo di alcolici. Ovviamente non ho toccato neanche gli insaccati. È tutto haram.
I capelli e il modo di portare la fascia invece sono liberamente ispirati alla magistrale interpretazione di Bolo Yeung in Bloodsport, una pellicola grazie a cui ho imparato la differenza tra il bene e il male.
Invero ho gareggiato anche la scorsa settimana in quel di Orte, una dieci chilometri ostica e con un buon livello che ho chiuso al nono posto in 35’23”, ma dove soprattutto ho avuto modo di rivedere Re Giorgio.
Aggiungo la mia personale testimonianza di quello che è stato un gesto d’altri tempi.
Il quarto classificato avrebbe potuto contendermi il secondo posto e, in tutta onestà, se ci avesse provato secondo me ce l’avrebbe fatta, invece ha preferito compiere un lavoro di squadra per il suo compagno.
Culture dimenticate di Harald Haarmann
Pubblicato venerdì 11 Giugno 2021 alle 15:46 da FrancescoCon l’eccezione dei mirabili scritti di Hopkirk, negli ultimi anni ho prestato poco interesse ai saggi storici poiché in passato (e quando, sennò?), a fronte di letture plurime e costanti (tra cui circa cinquemila pagine di Storica, un mensile di National Geographic), il mio interesse per la materia ha raggiunto un punto di saturazione, tuttavia questo volume di Harald Haarmann mi ha incuriosito per il suo riguardo verso episodi meno gettonati dell’antichità.
È un testo nel quale la descrizione di culture dimenticate implica l’ipotesi che vi siano ancora scoperte da compiere e altre da rivedere, come la suggestione iniziale per cui, sulla base di elementi linguistici peculiari (quelli delle lingue algonchine) in relazione con le espressioni della cultura Clovis e con certe particolarità genetiche, possa esservi stata una migrazione dall’Europa al Nord America già da parte dei cacciatori dell’era glaciale.
Altre scoperte in Asia Minore (i siti di Gobleki Tepe e Catalhoyuk) lasciano intendere che un insediamento urbano non fosse per forza la premessa per un’architettura monumentale e potesse sorgere senza una differenziazione tra edifici pubblici e privati, con una società priva di gerarchie: anche l’analisi della cosiddetta civiltà danubiana depone a favore di quest’ultima ipotesi.
Ho poi incontrato di nuovo la questione etimologica del termine “amazzone”, il quale pare che non indicasse l’assenza di un seno per agevolare l’uso dell’arco da parte di queste guerriere, bensì una congettura più plausibile in merito si annida nel nome di Ameza, una regina delle amazzoni di cui parlavano alcune storie circolanti nel Caucaso tra i circassi.
Infine, tra gli appunti vergati a mano (e, come prassi, riversati poi in un file di testo per godere dei benefici della ripetizione) ho segnato un passaggio inerente gli antichi abitanti dell’isola di Pasqua: rammentavo costoro tanto per le celebri statue ivi erette quanto per il film Rapa Nui (nome dell’isola nella lingua autoctona). A un certo punto pare che la comunità di quest’insediamento nell’Oceano Pacifico sia stata coinvolta da guerre intestine tra fazioni e, spinta dal bisogno di sanare i conflitti, abbia istituito delle competizioni sportive i cui vincitori facevano guadagnare ai rispettivi gruppi la guida della comunità per un anno.
Un’ulteriore e breve menzione è riservata all’importanza degli etruschi per il mondo romano, dal cui nome deriva Tirreno giacché gli storiografi greci si riferivano a loro come tyrrhenoi o tyrsenoi, termini le cui origini invece risultano ancora sconosciute.
Se mi prendessi troppo sul serio mi prenderei in flagranza di reato. Di cosa discetto stasera e, soprattutto, al cospetto di quali ombre? Qualche parola la voglio dedicare alla memoria di un signore che ha lasciato il corpo da pochi giorni. Costui per buona parte della sua ultima incarnazione è stato un musicista, ma poi una malattia neurodegenerativa lo ha costretto ad abbandonare la propria carriera.
Conobbi Lino, questo il suo nome, alcuni anni fa grazie a mia madre, e una sera gli regalai un vinile del gruppo nel quale aveva miliato negli anni settanta. Era un tipo simpatico, estroso e spero che le sue prossime esistenze si svolgano nel migliore dei modi. Un paio di anni fa ci eravamo ripromessi di fare un’altra cena a casa sua, con quella famiglia che gli voleva tanto bene, ma poi la pandemia e questa vita di merda ce lo hanno impedito. Ciao Lino, bon voyage.
A casa non ho una lavapiatti né un’asciugatrice, ma nemmeno una macchina per elaborare i lutti giacché non ne ho bisogno: la morte è una fase intermedia e questa mia intima certezza non ha contorni consolatori né religiosi. Il tempo sottrae ogni cosa dalla rispettiva attualità ed è come una danza di cui taluni non conoscono i passi o non sanno seguire la cadenza. La nostalgia è un difetto di fabbricazione del presente, così come per altri versi lo è la noia, ma quale autorità ho io per affermare certe cose? In realtà le ripeto a me stesso, così sgombro il campo dai dubbi e lo metto a disposizione per le mine antiuomo. C’è chi si toglie la vita e chi vorrebbe averne ancora un po’: buffo questo mondo, vero? Io continuo a cercarmi dentro perché le scoperte più stupefacenti a cui abbia mai assistito sono sempre state endogene. Forse non sono comprensibile, la mia acqua non è potabile, ma anch’io non capisco altri individui né posso abbeverarmi alle loro stesse fonti. Ognuno si disseti come vuole, però che almeno la manna dal cielo sia uguale per tutti, certificata dall’Europa o dall’Iperuranio.
Non mi piacciono i genetliaci, anche perché non mi hanno mai fatto ottenere dei regali di mio gradimento quando ancora ne ricevevo, ma alla fine è il pensiero che conta, o almeno così sosteneva Cartesio. Insomma, sto per compiere il mio trentasettesimo giro intorno alla nana gialla del sistema planetario nel quale risedo: minchia.
È forse giunto il momento di tirare le somme? E se a giugno nevicasse sarebbe il caso di tirare palle di neve o di erigere un pupazzo da decorare con una carota a mo’ di naso? Dopo averci trascorso già tre decadi abbondanti, non consiglio questo mondo agli aspiranti umani: anche se io ormai mi ci trovo bene non mi sento proprio di raccomandarlo, specialmente in bassa stagione. Non ho bisogno di qualcosa in particolare, forse un po’ d’acqua con limone; sto acquisendo un distacco sempre maggiore da me. Sarò pronto e puntuale nell’ora della mia morte, ma nel frattempo armeggio con lo scroto in maniera apotropaica per non anticiparne l’incontro e resto comunque nel dubbio che ciò valga davvero come diffida.
Voglio bene a mia madre, ai gatti con cui divido gli spazi e soprattutto a me stesso. Non ho desideri vivi né morti, la mia ambizione è scarsa, quasi nulla, però mi riconosco una grande riserva di volontà che mi fa risparmiare sul pieno di buone intenzioni. Io non ho nemici e non so se loro cerchino me, ma essi per trovarmi devono andare sempre dritti, a fare in culo con le rispettive genìe, grazie mille.
Amici non ne voglio nel significato stretto del termine, però interloquisco con qualche passante del tempo e talora provo un’autentica simpatia per certe menti. Le infatuazioni non ci sono, è finita la bombola ed è sempre domenica, tuttavia ricordo una signorina che ebbi a vedere sei anni fa sul Ponte Regina Margherita nella città eterna: che Krishna l’abbia in gloria.
Ho dato vita a un progetto musicale del quale sono finalmente convinto e l’ho battezzato sulla falsariga di un’espressione che mi veniva rivolta quand’ero bambinetto, difatti all’epoca taluni solevano riferirsi a me come al “nipote di Franca”. Il pieno controllo della musica e dei testi mi permette di rendere il tutto una forma d’introspezione espressiva, ancor più solipsistica e autoreferenziale del solito, perciò estranea a ogni possibilità di diffusione ed estraneo coinvolgimento. Mi auguro che la mia produzione futura possa godere di una certa costanza. Questo primo pezzo l’ho riversato su varie piattaforme, sebbene in ultima analisi non possa che essere fine a me stesso, e conto di fare altrettanto con le tracce future. Nelle mie composizioni ricerco sonorità new age e psichedeliche, o almeno queste sono le mie intenzioni, ai testi conferisco molta importanza e ne soppeso ogni sillaba. Di questo pezzo in particolare sono molto soddisfatto dei miei due assoli di chitarra elettrica.
Sabato ho preso parte ai campionati italiani di cento chilometri su strada che si sono svolti nell’autodromo di Imola, ma la mia prestazione si è conclusa dopo cinquantaduemila metri. Durante una brevissima pisciata ho notato la mia urina troppo scura e mi sono reso conto che mi ero disidratato troppo, perciò ho optato subito per il ritiro. Peccato, perché le condizioni atmosferiche erano buone nonostante fosse il terzo fine settimana di maggio, quindi non posso accampare scuse. Di sicuro ho sbagliato qualcosa, forse nell’integrazione, benché io mi sia idratato molto tanto nei giorni precedenti alla partenza quanto nel corso della gara.
La prossima volta proverò ad andare in ritiro sott’acqua, magari prenotando una stanza su Airbnb o chiamando direttamente la Sirenetta.
Invero credo che quella di sabato sia stata la mia ultima esperienza sulla distanza dei cento chilometri, difatti su otto partecipazioni ho all’attivo quattro risultati e quattro ritiri: la faccio finire in parità! Il mio tempo migliore è destinato a rimanere quello di 8 ore e 35 minuti corso a Seregno nel 2018, anche in quell’occasione gara valevole come campionato italiano.
Adoro la categoricità della corsa perché mi ha elargito insegnamenti importanti. Non ho mai superato i miei limiti di guardia, non ho mai rischiato la salute e non intendo farlo, inoltre credo che abbia più margine di miglioramento sulle distanze minori, ossia dalla maratona in giù, fino ai cinquemila metri. Il viaggio continua.
Nuovi fuochi nell’aere e deflagrazioni al suolo celebrano la belligerante, insofferente ed efferata intersezione della terra di Canaan con quella dei filistei. La storia offre a certi popoli numerose ragioni con cui razionalizzare i reciproci annientamenti, come se una parte dell’umanità fosse un frutto da spremere per colmare una fraterna sete di sangue. Comodo e assiso, a migliaia di chilometri di sicurezza, quindi in osservanza delle attuali norme sul distanziamento sociale, io assisto alla morte in lieve differita di individui che non ho mai conosciuto: essi giungono a me sotto forma di fredde statistiche o come immagini a buona risoluzione.
La violenza è insita nella mia specie, la tendenza alla sopraffazione assume le forme più disparate in accordo con i luoghi e le epoche, ma non svanisce mai perché trova sempre asilo e motivi all’apparenza plausibili. La lotta può riguardare due ubriachi o popoli in guerra da generazioni, tuttavia la matrice è la stessa e mi chiedo se l’essere umano possa davvero affrancarsene. Nel frattempo, sul letto del tempo, scorrono fiumi di sangue e sofferenze, ma io non posso farci nulla e al contempo, in una qualche misura, ne sono correo giacché ai miei occhi una parvenza di empatia non conferisce alcuna assoluzione a nessuno.
Tra le varie ragioni per le quali non ho mai desiderato figli e mai ne avrò, figura anche la nefasta eventualità che la mia prole possa rendersi carnefice o cadere vittima nelle bellicose spire della specie. L’ingiustizia è la regola e il suo esatto contrario invece ne costituisce l’eccezione, ma a certe latitudini questa sperequazione risulta ancora più marcata.
Non mi cimento in considerazioni geopolitiche, non me lo posso permettere perché non ne ho i mezzi, però se azzardassi tanto lo farei solo per godermi l’illusoria vanità di un’analisi infondata e il relativo possesso della stessa nel campo delle idee.
Seguo il conflitto tra Israele e Hamas con molta attenzione, attingendo da fonti dirette e soppesando il materiale nel quale incorro, inoltre di quest’ultimo ne raccolgo parte sul mio canale YouTube (questa è la playlist) per scopi documentaristici e archivistici.
La cupola di ferro, il cosiddetto iron dome, ossia lo scudo israeliano, disegna con le proprie geometrie forme astratte e conseguenze concrete, come se l’attacco degli uni e le difese degli altri si abbracciassero fatalmente per ritardare l’inevitabile. Comunque vada, sarà un decesso.
Mezza maratona del lago di Vico 2021
Pubblicato domenica 16 Maggio 2021 alle 05:59 da FrancescoQuel ramo del lago di… Vico.
Domenica 9 maggio, a Ronciglione, ho corso la mia prima gara del 2021, ma non vi avrei partecipato se trentasei anni fa non avessi aderito mio malgrado al consorzio umano, quest’associazione a delinquere di stampo ontologico: è eterogenesi dei fini.
Sono riuscito a chiudere al quinto posto in 1 ora, 17 minuti e 29 secondi, quindi a un ritmo di 3’40″/km su un percorso piuttosto ostico, ma con la testa e le gambe già orientate a quel bagno di sangue che sarà la cento chilometri.
Dall’inizio dell’anno ho incamerato 2025 chilometri in 142 ore e 12 minuti, ossia a una media di 4’13″/km, tuttavia mi chiedo quanti ne manchino ancora fino all’ultima apoptosi.
Classifica: https://www.nextrace.net/timing/schedaclassifica.php
Se la legge fosse davvero uguale per tutti forse non ci sarebbe bisogno di scriverlo o di dirlo. Centinaia di morti al giorno non suscitano più scalpore da parecchio tempo, ma ipotizzo che una simile assuefazione ai decessi dipenda dalla costanza degli stessi. Può darsi che talora negli individui e nelle masse, dopo un’inattesa e inconsueta sequela di tragici eventi, scatti un meccanismo di difesa per il quale i numeri mantengono la loro fredda natura, a prescindere dalla misurazione nella quale sono impiegati; migrazioni, cadaveri, mattoncini per le costruzioni: la differenza è poca o persino nulla.
L’unico problema che riconosco al coprifuoco consiste nelle sue implicazioni economiche, ma al di là di questo aspetto pragmatico non lo reputo affatto liberticida.
Non importa quanto cresciuti siano i figli, giacché certi genitori restano sempre persone piccole e difendono la propria prole a detrimento di quella altrui. Il cosiddetto familismo amorale è un fenomeno tangibile nei molteplici gradi della scala sociale e la sua validità è suffragata in sommo grado e corroborata da costanti episodi che albergano tanto negli archivi delle cronache quanto nell’attualità più immediata.
A mio modesto avviso l’indagine antropologica di Banfield e la sua tesi di fondo non presentano nulla di sorprendente, difatti dànno conto di formazioni archetipiche che si rinnovano in ogni generazione a discapito di quelle successive, nell’eterno ritorno degli stessi stronzi. Chi voglia cimentarsi in esercizi arditi può cominciare a ripensare la famiglia tout court, sia come istituzione che come impasse, ossia un’arma a doppio taglio di cui è consentita la libera fondazione.
Mi chiedo come le persone più ingenue possano orientarsi in una legge che ne contiene un’altra, tacita e nociva per quella in relazione alla quale dovrebbe risultare subalterna, ma la gerarchia non è rispettata e quindi, a fronte di queste scatole cinesi, mi pare che il governo di Pechino non sfiguri poi tanto vicino alle democrazie più incompiute.
Sto riprogrammando la mia mente per adeguarla a delle nuove impostazioni, perciò quando corro o svolgo altre attività finisco per meditare con una concentrazione maggiore rispetto al solito. Ho già compiuto i primi collaudi di questo mio nuovo assetto e uno l’ho eseguito in occasione di due allenamenti fisici piuttosto impegnativi, difatti mi sono ritrovato a correre cinquanta chilometri in 3 ore e 55 minuti, ovvero a un ritmo di 4’42” al chilometro, e ventiquattr’ore dopo ho corso una mezza maratona a un’andatura di 3’50” al chilometro, quindi in 1 ora e 21 minuti: così in due giorni ho messo settantunmila metri nelle gambe e non ci sarei riuscito se il mio corpo non fosse stato coadiuvato dalla sua naturale alleata. Al momento sono soddisfatto della mia tenuta mentale e spero di affinarla ancora.
Non vivo al di fuori della prosaica realtà di cui faccio parte, almeno in una certa misura, perciò sono consapevole di come l’economia si stia avvicinando a un punto di non ritorno, mi rendo conto di come la fiducia di un quisque de populo non possa essere riposta in alcuna istituzione e dunque mi limito a prendere atto della decadenza spettrale che si prospetta all’orizzonte, tuttavia io non posso farci nulla. Non mi stanco mai di ricordare a me stesso come abbia parziale potere soltanto sulla mia esistenza e quindi non possiedo la panacea di tutti i mali, ma anche se la trovassi scontata in qualche ipermercato forse non la metterei nel carrello. Non ho inventato io il male né posso trovarne la cura, però la mia natura umana mi permette d’evolvermi come individuo e questo è il massimo servigio che posso rendere alla presente esistenza. Cosa devo aggiungere o sottrarre? Cosa può essermi levato o dato? Ogni attualità si sta ingiallendo ed è destinata a futura dimenticanza, ma al suo massimo splendore appare sempre capitale per le sorti dell’intero universo, anch’esso invero piuttosto risibile e sopravvalutato.