9
Apr

Domenica disadattata

Pubblicato domenica 9 Aprile 2006 alle 13:19 da Francesco

Ho appena finito di vedere Fame Chimica, un film del 2003 ambientato nel quartiere Barona di Milano. Trovo che, con le dovute proporzioni, questa produzione tricolore sia il La Haine (L’Odio) italiano. La pellicola è meno cruda rispetto a quella di Kassowitz, ma descrive ugualmente la tensione sociale che si respira nelle zone degradate delle grandi metropoli peninsulari. Durante la visone di Fame Chimica ho fatto qualche esercizio per rimuovere l’ultimo strato di adipe che rovina l’estetica del mio addome. È una guerra dura quella contro gli accumuli di grasso, ma ormai sono alla resa dei conti. Ieri sera, sempre per rimanere nell’ambito cinematografico, ho visto su Rete 4 il primo tempo di Full Metal Jacket. Ho avuto il piacere di vedere più volte il capolavoro di Kubrick e sono intenzionato a guardarlo nuovamente nei prossimi giorni. Oggi è iniziato il tour de force elettorale, i commenti, qualunquisti e non, sono già sulla griglia di partenza e attendono che finisca lo spoglio delle schede per iniziare la loro corsa. Ci saranno dirette condite con gli exit poll e interviste tutte uguali. Tuttavia mi piace il fermento nazionale e trovo che le elezioni siano uno spettacolo divertente. Credo che oggi come ieri ci sia solo il pranzo ad attendermi, perciò tiro fuori il mio bon ton e non lo faccio aspettare ulteriormente.

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8
Apr

Dopo il vespro

Pubblicato sabato 8 Aprile 2006 alle 20:55 da Francesco

È una sera tranquilla. Le luci dei locali sono accese e non hanno intenzione di spegnersi presto. Dalla mia finestra riesco a sentire le voci delle persone e il rumore dei loro passi. Talvolta sento il suono provocante di un tacco, altre volte odo il passo pesante di un anfibio. Mi piace chi cammina lentamente. Spesso vedo delle persone con le ali ai piedi e una croce al collo, ma raramente riesco a scorgere dei cherubini tra loro. Probabilmente mi addormenterò prima di mezzanotte. Sono già insonnolito, ma non voglio mettermi subito sotto il lenzuolo, preferisco rimanere sveglio a non fare nulla. Mia madre si sta preparando per uscire: evidentemente i nostri ruoli sono stati invertiti nella notte dei tempi. Non mi attende una notte brava né una notte in bianco. Ho un po’ di h2o e tanta stanchezza ingiustificata. Farò zapping, leggerò, mi farò una sega o mi getterò a letto con l’intento di addormentarmi il più presto possibile? La risposta si trova nell’arco delle prossime due ore. Mi piacerebbe avere accanto a me centosettanta centimetri femminili con i quali guardare un film tra effusioni tenere e semplici. L’ozio è un amico maldestro, ogni tanto fa cadere le mie giornate nell’inerzia più totale. Oggi ho trascorso due ore a radermi il cranio. A qualcuno sembrerò un membro degli Hare Krishna, a qualcun altro un naziskin. Tra qualche giorno farò una fotografia del mio nuovo look cranico.

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7
Apr

Cambio di programma

Pubblicato venerdì 7 Aprile 2006 alle 21:42 da Francesco

Questa sera ho deciso di non addormentarmi presto. Sono solo e un po’ assonnato. Sto ascoltando “Bad Reputation”, un pezzo dei Thin Lizzy datato 1977: “You got a bad reputation, that’s the word out on the town, it gives a certain fascination, but it can only bring you down”. Così cantava Phil Lynott nove anni prima di crepare per una overdose di eroina. Non ho nulla da fare stasera, ma questa non è una novità. Ogni tanto lancio una pallina da tennis contro il muro per ingannare il tempo. In questo momento due ventenni si stanno baciando, altri due si stanno lasciando e altri due si stanno ritrovando. In questo momento qualcuno sta in un angolo buio a recriminare sulle proprie decisioni, qualcun altro invece sta gustando la sua laurea sempre più vicina. In questo momento mi chiamo Francesco, ho ventun’anni e tanto tempo libero. Il mio benessere alienante mi è sempre vicino, più fedele di una donna che accetta di portare il burka. Sto bene, nonostante il mio culo continui a galleggiare sul vuoto esistenziale. Sono un bambino che non riesce a giocare con la propria vita né con quella degli altri. Ogni tanto il mio viso testimonia uno spleen passeggero, ma alla fine è sempre uno strano sorriso che ha la meglio sui miei muscoli facciali. Ho cambiato traccia: adesso è “We Only Say Goodbye” dei Fates Warning a fare da sfondo alla mia serata inerte. Trovo abbastanza banale il ritornello di ‘sto pezzo, ma credo che rappresenti l’incapacità comunicativa di molti: “Always somewhere, we only say goodbye, going nowhere, we only say goodbye, there’s never time to say, all the things we need to say, when it’s too late, we can only say goodbye”. Più o meno: “Sempre da qualche parte, diciamo solo addio, senza dirigerci in nessun posto, diciamo solo addio, non c’è mai tempo per dire, tutte le cose che abbiamo bisogno di dire, quando è troppo tardi, diciamo solo addio”. Stasera non mi mastuberò.

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7
Apr

La tazza del cesso

Pubblicato venerdì 7 Aprile 2006 alle 18:49 da Francesco

Ogni volta che mi trovo seduto sulla tazza del cesso mi diverto a pensare. Per me il bagno è un piccolo monastero. Adoro spingere fuori lo stronzo di turno che pende dal mio culo e ponderare gli eventi del mio passato. Mi piace accompagnare la carta igienica sul mio sfintere e lanciare occhiate alle ipotesi che formulo riguardo al mio futuro. Tutte le volte che l’acqua calda del bidet accarezza il mio scroto rimango estasiato dal suo effetto corroborante. A seguito di ogni riunione di gabinetto lascio che il borotalco imbianchi i miei glutei. Ogni tanto mi affaccio allo specchio del bagno e inizio a parlare con un tipo che si chiama Francesco. In alcuni luoghi si chiama toilette, in altri WC, ma per me rimane semplicemente il reame della merda e del pensiero. Non ho parole da aggiungere, possiedo solo litri di urina che stanno nella mia vescia come in uno shaker e che attendono di evadere dal mio organismo.

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7
Apr

Euforia

Pubblicato venerdì 7 Aprile 2006 alle 10:25 da Francesco

Stamane la primavera ha deciso d’imporsi con prepotenza. Non c’è nemmeno una nube in cielo e il sole ne approffita per illuminare tutto ciò che vede. Quest’oggi alcune vedove andranno a sostituire i crisantemi che sono di stanza sulle tombe dei loro mariti. Mi piacerebbe passeggiare in un grande cimitero con la mia ragazza (quale?). Non voglio che la mia salma assista a una messa di requiem. Non voglio essere sepolto, ma desidero essere cremato. Da piccolo ero intimorito dal camposanto e mi cacavo in mano ogni volta che mi recavo tra i loculi con i miei genitori. Ricordo che le foto dei defunti mi osservavano sempre con superbia e che le date della nascita e della morte di ogni cristiano erano messe in risalto dai giochi di luce provocati dalle giornate soleggiate durante le quali ero costretto a seguire mio padre e mia madre. Mi chiedo cosa accadrà al mio corpo quando sarà esanime. Una volta, a Grosseto, in Via Mameli, ho visto un vecchio steso sulle strisce pedonali: era appena stato investito da un furgoncino. Per me quella mattina è stata l’unica occasione nella quale osservare un cadavere senza i filtri degli schermi televisivi o delle pagine di cronaca. La sagoma del vegliardo non mi fece molta impressione, ma mi colpì la facilità con la quale è possibile passare dal mistero della vita all’incognita della morte. Spero che sia ancora lontano il mio turno per staccare un biglietto di sola andata per l’obitorio. Voglio campare per secoli.

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6
Apr

Oltreoceano

Pubblicato giovedì 6 Aprile 2006 alle 20:11 da Francesco

Alcune persone vedono comparire immagini demoniache nelle loro menti. Queste immagini, questi affreschi del terrore, rastrellano le ultime foglie autunnali di tutte quelle vite che siedono di fronte al proprio crepuscolo. Il tramonto del respiro, il calare del sipario. Non credo che la fine della vita sia legata all’età anagrafica. Ci sono molti morti che camminano. Ogni giorno miliardi di cadaveri mettono a tacere il suono delle sveglie. Sono morto o sono vivo? La mia vita su questa terra non ha un significato. Nel mio quotidiano non ci sono le sfumature della rovina né il suono delle trombe del successo, ma solo l’ozio che mi accompagna con la sua cetra. Ho bisogno di un clima diverso, almeno per un po’. Forse dovrei comprare un biglietto per gli Stati Uniti e lasciare la mia magione per un mese. Potrei visitare le zone meno blasonate degli USA, come i grandi territori rurali dell’Idaho. Vorrei sedermi su un autobus delle linee Greyhound e guardare i paesaggi naturali e urbani presenti ai lati delle grandi strade del Nord America. Mi piacerebbe fare amicizia con un vecchio nero dedito all’alcol a cui offrire il mio desiderio di ascoltare storie e il mio piacere nel compiacere il suo alcolismo. Potrei fare una capatina in California e passeggiare tra i boulevard di Los Angeles. Per fare tutto ciò dovrei rinnovare il mio passaporto ed estorcere denaro a mia madre. Tuttavia ho un buon motivo per non lasciare i confini italiani; un motivo quasi scandinavo. Queste parole hanno qualcosa di comico; sono passato da riflessioni banali sulla morte alla descrizione di un mio ipotetico tour nel territorio yankee.

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6
Apr

I poppanti alzano il pugno

Pubblicato giovedì 6 Aprile 2006 alle 08:50 da Francesco

Mi è arrivato dello spam politico tramite e-mail da parte dei tipici ragazzini che fanno i rivoluzionari part time. Questi mentecatti talvolta si professano no global e lanciano strali contro le multinazionali mentre portano ai pieidi un paio di Nike, tengono in bocca una Marlboro e comprano una bottiglia di Coca-Cola da mezzo litro. Si evince che per loro la dottrina politica non è altro che uno status symbol per far levitare la loro considerazione tra gli amici “meno impegnati”. Questi personaggi sono buffi. Sono le stesse persone che sventolano la bandiera della pace e poi non riescono a tollerare nemmeno le grida dei loro genitori. Sono i tipici adolescenti e post-adolescenti con il mito di Che Guevara, i quali spesso non sanno nulla di Pol Pot, dei Kmher Rossi, di Ceausescu, dei gulag e delle foibe. Il comunismo e la religione sono due dei grandi mali del globo terrestre. Non insulterei queste mandrie di caproni se non mi tediassero con la loro evangelizzazione sinistroide. Non reputo questi bambini cresciuti degli elettori di sinistra e credo che il centrosinistra italiano non sia composto solo da leader di partiti anacronistici, ma anche da persone in grado di argomentare come esige l’anno 2006 dopo Cristo. Lo ripeto: non ho posizione politica perché non mi ritrovo in nessun simbolo da contrassegnare nella cabina elettorale. Spero tuttavia che tra pochi giorni sia il centrodestra a prevalere perché ritengo che occorrano almeno due mandati per giudicare obiettivamente l’operato di un governo. Se il centrosinistra salisse al potere servirebbe un’ulteriore attesa di dieci anni per capire se a capo della nazione vi siano amministratori di condominio o politici in grado di legiferare efficientemente. Io mi asterrò dal voto.

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5
Apr

Prima la frizione

Pubblicato mercoledì 5 Aprile 2006 alle 16:40 da Francesco

La mia prima guida non è andata male. Devo impratichirmi con le marce, ma credo che non mi occorrerà molto tempo per assumere dimestichezza con il cambio. Una volta presa la patente sceglierò il muro contro cui schiantarmi. Ovviamente scherzo. Nella mia mente ho visto una principessa sopra una carrozza. La carrozza non era trainata dai cavalli, come nella migliore tradizione fiabesca, ma era spinta da un medico. La principessa non aveva sangue blu, infatti le sue macchie sul guardrail erano rosse. Sono cose che succedono. Può capitare che un autotreno dormiente ti abbagli e che la tua testa di cazzo si ritrovi truccata come in un film di George Romero. Mi fanno paura le strade perché sono popolate da guidatori con la licenza di uccidere a punti. Ogni tanto si affaccia qualche franco tiratore dai cavalcavia, oppure compare qualche sbandato che sbanda. Potrei per sentirmi sicuro sull’asfalto italiota solo se fossi alla guida di un Panzer.

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5
Apr

Retromarcia

Pubblicato mercoledì 5 Aprile 2006 alle 08:40 da Francesco

Ieri la mia prima lezione di guida è stata rimandata a oggi. Mi sono svegliato alle cinque di mattina, ma sono rimasto a letto fino alle sette. Amo svegliarmi presto e restare tra le coperte a contemplare le inezie della mia vita. Anche stamane mi sarebbe piaciuto avere qualcuno accanto a cui dare un buongiorno intimo, ma mi sono svegliato proprio come mi sono addormentato: da solo. Che strana casualità! Qualche minuto fa il mio stomaco ha fatto incetta di kiwi, perciò presagisco la venuta di una cacata abbastanza ingente nell’arco delle prossime ore. Ho la finestra aperta: sento i moti dei veicoli e le voci degli studenti che percorrono la via crucis per la scuola. Il volume delle mie casse è abbastanza alto, il subwoofer sbuffa e i tweeter elargiscono le note funamboliche di “Black Utopia”, un album progressive metal strumentale di Derek Sherinian datato 2003. Per me non è facile descrivere ‘sto disco perché ogni volta che ci provo mi fermo a imitarne i virtuosismi come un quindicenne esaltato degli anni ottanta con gli Iron Maiden in cuffia. Si è alzato il vento e ne sono felice, sono un bimbo dispettoso che ama vedere Eolo incazzato nero. In realtà il vento mi ricorda il piacere di alcuni pomeriggi nuvolosi della mia infanzia e per questo motivo gradisco le giornate ventose con quache nube di contorno, possibilmente precedute da una breve pioggia per esaltare l’aroma del loro grigiore caleidoscopico. Perché grigiore caleidoscopico? Perché, e lo scrivo con lo stesso incipit che si usa alla scuola elementare, il grigiore di una giornata apparantemente cupa può nascondere molte sfaccettature: alcune bellissime, altre più cupe della stessa giornata.

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4
Apr

La grande città

Pubblicato martedì 4 Aprile 2006 alle 13:13 da Francesco

La metropolitana è un purgatorio dove anime scontrose si illudono di guidare il loro destino; lui lo sapeva, per questo manteneva sempre un contegno decoroso quando si trovava nelle viscere del Caronte metallico. Aveva imparato l’indifferenza, quella stessa indifferenza che gli occhi urbani hanno congenita. Stava tornando a casa mentre la città si vestiva di nero e di grigi orpelli. Il ciclo continuo delle cose lo aveva reso immune a qualsiasi spiraglio vitale, era un nuovo soldato dell’esercito della mestizia architettonica, reclutato dopo anni di addestramento sul campo della vacuità urbana. Se solo si fosse chiesto per quale motivo continuava a vivere si sarebbe ucciso immediatamente, come molti altri d’altronde. Preferiva non farsi domande e intrattenersi in un colloquio passivo con il tubo catodico come faceva ormai dal suo primo giorno di reclutamento urbano. Lavorava come contabile in una piccola società. Guadagnava. Sì, guadagnava abbastanza per mantenere il suo appartamento anonimo e quel gatto sconosciuto legato a lui solo da vincoli di sussistenza felina. Da alcuni giorni qualcosa era cambiato in lui, non capiva per quale motivo ma un forte dissidio interiore faceva capolino dalla sua anima meccanica. Vedeva sovente tossici e barboni al ritorno verso casa, si chiedeva come potessero esistere e resistere. Non aveva risposta. Quell’interrogativo sull’esistenza di uomini in simbiosi con la morte aveva fatto nascere in lui un interrogativo ben maggiore sul proprio essere. Cosa lo differenziava dagli eroinomani e dai clochard, d’altronde anche lui conduceva una vita che non desiderava, un’esistenza meccanica che danzava al ritmo di freddi documenti e numeri in tinta unita. Il sole stava scomparendo e i suoi ultimi raggi vedevano morire la speranza di filtrare attraverso i fumi chimici. Progressivamente l’urbe andava illuminandosi artificialmente e le strade iniziavano il loro riposo notturno. Il protagonista della mia storia quella sera non aveva voglia di rimanere nella sua cella a pigione e decise di uscire nel freddo buio novembrino. Percorse una lunga via, opposta a quella che seguiva la mattina per andare a lavoro. Alla sua destra si innalzava l’autostrada mentre a sinistra edifici tutti uguali lo guardavano dall’alto del loro grigiore. Passo dopo passo lasciava dietro di sé metri e metri di marciapiede illuminati dalle perpendicolari luci arancioni dei lampioni immobili. Sentiva continui rumori provenire là dove la sua vista non arrivava, non erano rumori anormali, ma semplici e comuni decibel serali che assumevano un altro aspetto nella sua mente, prendevano le sembianze di reminiscenze e di ricordi confusi; tempi passati che salivano come una spirale di spavento. Ora aumentava il passo, ora lo diminuiva, seguiva il ritmo del suo udito ipocondriaco. Dopo circa un chilometro in questa danza con il passato decise di svoltare ad un angolo per avviarsi verso la metropolitana. Scendendo le scale l’errata intermittenza del neon illuminò la sua iride e un getto d’aria calda fece contatto con le sue sinapsi. Si fermò per ardere una dose di nicotina; una prima boccata e il suo viso uscì dalla nuvola di fumo appena formatasi e già sparita nell’etere come alla chiusura di un sipario. Scese le ultime gradinate che portavano alla fermata della Linea B e scorse due ragazzi. I giovani gli si avvicinarono squadrandolo con cattiveria. I due si fermarono, si guardarono un secondo e poi proseguirono verso di lui. Nella tasca destra del suo pastrano economico teneva sempre delle forbici con le quali sistemava la difettosa stampante dell’ufficio; mise la mano nella stasca sinistra e tirò fuori un temperino, lo aprì velocemente con abile manualità e sferrò un fendente al collo del ragazzo più vicino prima che questi potesse chiedergli un’informazione. Aveva lo sguardo alienato ed era rimasto tremante nella posizione finale con cui aveva reciso la giugulare al giovane; il ragazzo era in terra, agonizzante, emetteva lamenti che sembravano latrati spezzati mentre l’amico era immobile e solo il suo sguardo riusciva a muoversi facendo la spola dal lago di sangue alla lama del temperino. Non vi era rumore, tutto sembrava essersi fermato, ma non era una sensazione perché in realtà tutto era fermo. Si udivano silenzi profondi che erano veramente puri solo quando i gemiti si arrestavano per pochi secondi. Irruppe un rumore forte, progressivo e violento; tutto si arrestò di colpo. Le entrate del Caronte metallico si aprirono, lui mosse solo il capo e poi volgendo il corpo entrò nella metro con il temperino ancora alla mano. Una vecchia con un bambino e tante buste si allontanò alla sua vista, ma lui non ci fece caso e si sedé lentamente osservando il vuoto con sguardo immobile. Iniziò a ridere pacatamente, subito dopo chiuse la sua arma di fortuna e la ripose in tasca come nulla fosse. Il motivo della sua ilarità era legato alla comprensione dei gesti dei due ragazzi alla fermata: non avevano cattive intenzioni nei suoi confronti. Ciò che lo faceva ridere ancor di più era il fatto d’averlo capito prima di sferrare il colpo mortale alla giovane vittima. Non rideva perché era un sadico, ma perché era un contabile omicida. Il Caronte stava rallentando perché era prossimo all’ultima fermata mentre lui mutava lo sguardo e i pensieri. Stava realizzando di essere diventanto un ingranaggio difettoso nella macchina sociale che aveva servito con zelo per diciassette anni. Un momento di paura e un’azione esagerata avevano segnato la sua fine come uomo, non era più un soldato dell’esercito urbano, ma era diventato membro ad honorem della resistenza dei dannati, dei derelitti, compagno di coloro che spesso facevano sorgere in lui la domanda di come potessero esistere e resistere. Adesso avrebbe risposto a quell’interrogativo con il resto della propria esistenza. Repentinamente si svegliò da una sorta di stasi mentale grazie all’aprirsi delle viscere del Caronte metallico che davano sull’ultima fermata, esattamente dalla parte opposta della grande città in cui viveva. Uscì e si guardò attorno, la vecchia con il bambino che prima si era allontanata da lui lo scorse di nuovo ed emise un breve grido portandosi il pugno chiuso alla bocca, poi fece cadere una delle buste e senza mai distogliere lo sguardo da lui afferrò l’involucro fallendo nei primi tentativi di presa, infine si dileguò velocemente guardando spesso dietro di sé. Lui aspettò che la vecchia si fosse allontanata e poi si diresse anch’egli verso l’uscita. La notte iniziava la propria pubertà e quest’oggi aveva un nuovo figlio, un uomo un tempo dabbene e ora omicida senza meta. Una volta uscito dalla metropolitana e dopo aver camminato per un po’ iniziò a inalare gli odori nauseabondi delle fogne, così forti che lo penetravano a fondo, fino all’anima. Non aveva nulla da offrire alla notte se non i propri peccati e i silenziosi vaneggiamenti che lo cullavano in una qualche forma di triste illusione sul suo futuro. A un tratto si fermò davanti a una saracinesca chiusa solo a metà, vi si appoggiò con la schiena e tastando il pastrano mise mano al portafogli. Al momento aveva un po’ di contante e il fedele bancomat sul quale effettuava versamenti puntuali da anni e che per la prima volta nella sua vita si sarebbe reso utile al fine di dare inizio all’imminente ridda di sensazioni dannate. Presto un ago lo avrebbe iniziato ai piaceri sintetici, sapeva dove andare e come ottenere il kit della soluzione liquida, ma non sapeva dove trovare un bancomat nelle vicinanze. Iniziò a girovagare senza capire se era già passato nel posto in cui si trovava, era confuso e a tratti incapace di distinguere il cielo dal selciato. Dopo continui giri tra auto dormienti e segnali ammiccanti vide una luce fioca, deboli raggi illuminavano un tastierino numerico e presentavano in pompa magna un sottile ingresso simile a quello per le schede telefoniche. Trasse il bancomat e rimase stordito per alcuni secondi dal suo stato confusionale, poi fece per andarsene, ma appena riaffiorarono in lui le proprie intenzioni si risolse a prendere il denaro. Avrebbe voluto prendere tutto ciò che possedeva sul proprio conto, ma dovette accontentarsi solo della massima cifra erogabile, tuttavia non indifferente. Mise nelle tasche i preziosi e nobili fogli di carta con fare rapido e grezzo, come se li avesse rubati. Il suo portamento oscillava tra il goffo e il circospetto, la sempre più rara lucidità che faceva breccia nella sua mente lasciava spesso il posto a un’oscura alienazione mentale. Il tempo si squagliava lentamente e questo gli dava modo di raggiungere con tutta calma un ragazzo che conosceva di vista. Il personaggio al quale stava per andare a far visita era un piccolo spacciatore che anni addietro aveva vissuto nel suo stesso quartiere e per questa ragione lui lo conosceva, non molto, ma quanto bastava per procurarsi una spada. Arrivò ai piedi di un condominio e iniziò a battere il pugno sui tasti del citofono. Qualcuno aprì il portone sicuramente per sbaglio e lui pur essendosene accorto continuò a battere forte al suono delle imprecazioni di alcuni inquilini. Dopo essersi risolto a entrare prese l’ascensore e arrivato al settimo piano scese le scale per raggiungere il quarto pianerottolo. Tirò su con il naso e nello stesso momento colpì le sue narici con il pollice destro, poi con nonchalance picchiò forte sulla porta davanti alla quale si trovava. La porta venne aperta e apparì una figura trasandata, vestita con una maglietta bianca e dei boxer. Vi fu un breve dialogo che non riporterò, occhiate e mimiche facciali che lascio all’immaginazione e altri dettagli che potrei riportare con una descrizione certosina solo se stessi scrivendo un racconto. Se qualcosa di importante vi è in questa narrazione ampollosa è il fatto che dopo una ventina di minuti lui venne fuori con un buco sul collo e una serie di ammenicoli in tasca che spesso ornano gli scaffali polverosi dei depositi della polizia. Era chimicamente appagato e aveva un’altra cartuccia da spararsi più tardi. Era nuovamente sulla strada, lattine vuote e bicchieri di plastica venivano trasportati da un vento gelido che si era appena alzato, luci bianche e diafane illuminavano un piccolo piazzale colmo di mozziconi. Stava portando la sua carcassa verso il porto, ma le banchine distavano ancora molto. Giunse in un vicolo buio in cui echeggiavano perpetue gocce cadenti di panni stesi al plenilunio. Uscì dal vicolo e notò alla sua destra un’auto; vi era una macchina della polizia di fronte ad un Bar che stava per chiudere. Volse lo sguardo a sinistra e si mosse verso destra. I suoi occhi s’incrociarono con quelli di un uomo in divisa blu. I due continuarono a compiere le proprie geometrie e a scrutarsi per alcuni secondi senza proferire parola. I due poliziotti salirono in macchina e lui proseguì avanti. Gli abbaglianti della gazzella illuminarono la sua schiena fino ad accecarla. L’auto gli si affiancò procedendo a passo d’uomo e una voce giovane e forte gli chiese cosa cazzo stesse facendo da quelle parti. Lui si fermò e il poliziotto alla guida arrestò l’auto, spense addirittura il motore e i fari. Il buio e il mutismo umano regnarono per tre secondi dopodiché una chiamata fece rimettere in moto le quattro ruote della giustizia che si allontanarono con celerità. Lui riprese a camminare toccandosi il foro sul collo attraverso cui aveva fatto penetrare un po’ di piacere. Ancora strade e muri addobbati con manifesti litiganti che si trovavano l’uno sopra l’altro. Egli notò un panificio in un vicolo e vi si avvicinò silenziosamente, davanti alla porta della bottega c’era del pane caldo all’interno di casse di plastica bianca. Il padrone vide il mio protagonista, gli chiese se desiderasse qualcosa e lui disse che voleva del pane arabo. Il negoziante annuì e si recò nel retrobottega con un portamento esperto, i suoi erano movimenti che denotavano anni passati a portare pane arabo ad acquirenti notturni. D’un tratto lui, il protagonista senza nome, uscì, prese una cassa di pane, si allontanò per alcuni metri e si rifugiò in un vicolo. Intanto il panettiere era tornato con in mano un sacchetto con del pane arabo, aveva lo sguardo basso e, non accortosi che il lunatico cliente non c’era più, disse il prezzo. Il fornaio alzò lo sguardo, capì, e la farina bianca continuò a cadere leggera dalle sue ciglia altrettanto canute. Nel vicolo dove il nostro protagonista aveva portato il pane vi era un silenzio tombale e puzzo di merda. Non toccò il pane e con un gesto di stizza alzò la cassa sopra la propria testa per far cadere quelle sculture di lievito, acqua e farina. Lanciò la cassa di plastica contro un muro, gettò un po’ di monete e banconote a terrà e se ne andò. Si accese la luce di una stanza nel palazzo di fronte al quale egli aveva gettato i pani e da una tenda ricamata con motivi banali apparve un viso rugoso che scrutò la strada; pochi secondi ancora e quella curva nella continua e veneranda linearità dell’anziana bipede sarebbe divenuta passato. Egli probabilmente non si rendeva conto di ciò che faceva, o si potrebbe ipotizzare che solo una parte del suo essere avesse coscienza delle proprie azioni. La parte lucida dell’Ego era il luogo pieno di frustrazioni e risentimenti, di occasioni mancate e mancanti; o più semplicemente non amava né i panettieri né il loro pane. Sicuramente da qualche parte una candela ardeva tremula e così il tempo continuava a liquefarsi rimanendo sempre distante dalle porte dell’alba. Non sembra essere una storia convincente pur essendo vera. O falsa. Vi è una mancanza di situazioni intriganti e di personaggi carismatici, sono presenti solo descrizioni astruse ed episodi irrazionali che avvengono solo nella realtà. Maurizio chiuse gli occhi e li riaprì rapidamente. Raggiunse l’inizio di una strada che scendeva ripida; era una strada senza uscita, come il labirinto della sua vita e come la costruzione di questo racconto.

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