La nuova normalità continua a snodarsi in abiette e deformi abitudini di sottomissione, ma d’altronde la misura non è ancora colma giacché serve molto tempo per riempire un barile di cui sia stato raschiato a lungo il fondo. Il pensiero critico è bandito da ogni consesso di rilievo e l’unica funzione che rimane al dubbio è quella di prestarsi a oggetto di scherno. Le apparenze ingannano perché talora affermano una verità che non sa vincere la loro cattiva reputazione, perciò restano vox clamantis in deserto e solo il tardivo ausilio del senno di poi può riabilitarle quando ormai sia troppo tardi.
Il nemico viene creato a tavolino, ma si trova sempre un posto a sedere per ambo le parti ed è proverbiale l’aiuto a crocifiggerlo da parte di chi salti prontamente sul carro del vincitore. Io non credo più neanche alla verità, qualunque essa sia. Per me l’essere umano è degno solo del proprio sdegno, ossia la sua tendenza a riflettere la propria inadeguatezza rispetto alle utopie di cui teorizza nei più consolatori dei deliri. Non vedo cosa aggiungere che non valga poi la pena di rimuovere. Non ho vocazioni eroiche né slanci idealistici, bensì mi limito a constatare una natura morta, olio su tela o petrolio su terra. Forse andrebbero aboliti gli scambi di ossigeno e anidride carbonica così da abbassare le emissioni inquinanti nonché le figure inquietanti. Mi attardo su questo pianeta per l’istinto di conservazione e per il cattivo gusto di vedere un brutto finale.
Il salvatore di turno mangia l’uovo di Colombo a pranzo e cena mentre le sue controfigure ne fanno le veci al cospetto di una claque che viene pagata a cottimo. Ognuno mantiene le proprie convinzioni come se fossero ex mogli alle quali pagare gli alimenti e va bene così benché così invero non vada affatto bene.
I tempi si fanno sempre più incerti, ma io trovo rifugio dentro di me e cerco di concentrarmi sugli aspetti dell’esistenza che rispondono subito alle mie azioni deliberate. Non posso evitare il confronto con quelle condizioni su cui non ho potere decisionale né modo d’incidere, tuttavia mi è permesso eluderle il più possibile e posso reagirvi nella maniera che io reputi migliore. È poco, ma non è nulla e soprattutto può diventare molto. Non è colpa mia se le scelte importanti sono delegate a degli idioti impreparati che rasentano la perfezione nella palese inettitudine di cui sono gelosi custodi, ma posso sfruttare una simile circostanza come banco di prova da cui trarre spunto e dimostrazione per essere all’altezza di altre situazioni: nulla va perso.
Sono il mio alleato migliore, di certo l’unico, ma d’altro canto non può che essere così. Quando una parte di me si allontana dal mio centro un’altra corre in suo soccorso e la richiama a quell’ordine di cui riconosco l’importanza. Non mi cerco fuori né m’illudo che le mie componenti formino sempre una salda unità. Sono l’opera incompiuta di un divenire privo di scopo, ma tutto ciò non significa che debba tenere il broncio davanti alla mia finitudine. È sempre la questione introspettiva che non smette di appassionare né di appassionarsi, nient’altro.
Penso che la decostruzione sia il modo migliore per edificare rovine sostenibili e quindi me ne avvalgo per quanto è nelle mie capacità. La continua scoperta di me stesso è il leit motiv che si manifesta salvifico quando altre sublimazioni siano costrette a una battuta d’arresto definitiva o passeggera, calcolata o improvvisa: in ogni caso si tratta di un processo perpetuo e secondo me questo suo tratto più di altri ne svela l’importanza. Non ho appigli dialogici né voci risonanti a cui dare credito. Non ho tele organiche su cui proiettarmi o dalle quali ricevere proiezioni, o almeno non a un livello che faccia qualche differenza su un piano qualsiasi. Non subordino la ricerca alla consolazione perché anche se volessi tentare questo espediente non saprei trarne il mendace vantaggio: la lucidità è già sopra il livello di guardia.
Non ho propositi da seminare sulle nuove pagine del calendario gregoriano. Per me un anno vale l’altro, ma comprendo l’esigenza pratica della loro enumerazione. Il giovane e mite inverno delle ultime settimane non mi fa né caldo né freddo, perciò la mia noncuranza è anche climatica giacché le condizioni me lo permettono. La mia esistenza segue una rotta precisa e non avverto il bisogno d’imporle brusche virate, ma non posso escludere che eventi futuri e privi di avvisaglie mi obblighino a compiere manovre decise. Vivo per me stesso, tuttavia non ricorro al bieco egoismo di cui il mondo subisce ogni giorno gli infortuni e quindi la mia è una condotta innocua. Sono autoreferenziale per comodità. Non vado alla ricerca di emozioni forti e non mi stupiscono i trucchi della specie, però ho una vita interiore molto intensa ed è proprio nei miei recessi che trovo quasi tutto o me lo faccio ordinare.
Non ho nulla da condividere perché non m’impegno a fare né a ottenere qualcosa che si presti a tale comunanza. La mia indole non è oppositiva rispetto ai miei simili, tutt’altro, ma con me stesso ho sempre la certezza di eludere la noia mentre in compagnia non posso dichiararmi altrettanto sicuro. Non smetterò mai di ribadire quanto gli entusiasmi altrui spesso non mi appartengano né m’interessi appropriarmene, ma al contempo intuisco come taluni siano incapaci di concepire ogni realtà diversa da quella in cui sono irretiti con le apparenze del libero arbitrio. Ognuno s’illude come crede: qualcuno si arrampica sugli specchi o raschia il fondo, altri invece cercano di affrancarsi il più possibile dagli inganni della mente: i secondi (secondo me) compiono un’opera meritoria già con il solo tentativo di porla in essere, ergo a prescindere dall’esito poiché quello sforzo ne definisce il grado di autenticità.
Rischiano di risultare pericolanti quei ponti che vengano eretti in tutta fretta con il solo scopo di trovare un’alternativa all’isolamento, ma d’altro canto soltanto chi non sappia godere di sé è destinato a giocare con le costruzioni fino a quando non ne abbia abbastanza o non si stufi della propria inettitudine.
Abbattimenti per improvvidi umanoidi
Pubblicato domenica 26 Dicembre 2021 alle 17:40 da FrancescoAll’orizzonte non si profilano porti d’attracco, bensì vi colgo mirabili occasioni di naufragio. Secondo me l’ottimismo si presta bene al dileggio e per questa ragione non lo reputo del tutto inutile. Talora ho anch’io i miei slanci di fiducia verso eventi in divenire e bagatelle simili, però non riesco mai a capire se debba esserne fiero o se almeno possa compiacermene. Non vedo ragioni valide per condannare i sorrisi forzati, difatti essi per definizione già scontano la propria pena e se così non fosse sarebbero sotto la tutela di un altro aggettivo. Quando il futuro non si annunci roseo a me non viene di fingermi daltonico, quando invece quest’ultimo abbia davvero tinte propizie di certo non vado a incupirle con pennellate di grigi. Si tratta di cose banali, come tutte d’altro canto.
Spero che il nuovo telescopio spaziale fornisca presto ragguagli su come è cominciata questa replica cosmica nel palinsesto degli universi. Per me le vere restrizioni sono quelle che non consentono alla mia specie di recarsi fuori del sistema solare con lo stesse risorse richieste da una gita fuori porta. A volte l’aiuto giusto assume la forma irreversibile di un suicidio assistito o quella altresì definitiva di un aborto coi fiocchi. C’è una lunga lista d’attesa per entrare al camposanto, però di tanto in tanto una morte precoce corrisponde a uno scatto d’anzianità o a quello verso il primo baratro in linea d’aria. Mi chiedo come mai non esista un concorso per vincere un funerale di Stato da usare all’uopo. Quando vado in un cimitero non capisco mai chi sia il più ricco degli assenti e all’entrata non trovo mai la classifica, ma può darsi che qualcuno la rubi per appropriarsi di quel primato in futuro.
Sotto l’albero di Natale si possono porgere verità infiocchettate che valgano per tutto l’anno e anche oltre, ossia regali ecologici ed economici il cui unico costo risulta a carico della coscienza. Si accendono e si spengono le lucine sulle strade violente dove la legge nulla può giacché spesso i suoi servitori nulla vogliono. Forse qualcuno scrive biglietti di auguri con gli stessi ritagli di giornale che di solito impiega per le lettere minatorie.
I sogni son desideri, ma anche le cospirazioni rientrano nella stessa categoria. Qualora basti il pensiero immagino che un dono possa considerarsi anche quello di una promessa da montare e smontare all’uopo in barba (bianca) alla coerenza. I buoni propositi risultano molto utili perché di ciò sono lastricate le vie dell’inferno che hanno un costante bisogno di manutenzione, ma almeno quelle sono più sicure di certi ponti e viadotti sui quali taluni hanno perso la vita per colpa di terzi e di lucrosi secondi fini.
Avverto l’atmosfera delle festività benché molto attenuata per ovvie e pervicaci ragioni che invero non mi turbano. Anche quest’anno non mi sono arruolato nel consumismo sfrenato né ho dovuto tenere a bada l’acquisto compulsivo, però ho riservato qualche piccola attenzione per me stesso e non mi sono spinto oltre. Più passano gli anni e più mi risulta difficile gratificarmi con modesti beni materiali ancorché siano veicoli di cultura e apprendimento: allo stesso modo trovo sempre più facile concedermi riflessioni liete e distaccate. Credo che in fondo non me ne fotta un cazzo di niente, ma questa è soltanto una mia vaga impressione.
Per Capodanno non ho progetti, tuttavia non ne serbo neanche per l’avvenire e quindi non proietto nulla in avanti così come non mi trascino dietro un passato ingombrante. Viaggio leggero, io, però conto di liberarmi in misura ulteriore e per uno sgombero definitivo mi affido alla mia futura estinzione. Tempo al tempo: intanto mi diletto in questa gabbia terracquea e, per areare il locale, mando a fare in culo chi lo merita.
Talora le parole giuste cadono dal cielo o precipitano dalle bocche nei momenti sbagliati, perciò ogni loro beneficio viene nullificato dal pessimo tempismo. Non so quali formule pronunciare davanti agli eventuali entusiasmi di una nuova conoscenza e suppongo che questa mia incapacità derivi da una crescente noncuranza verso ogni possibile reciprocità, ma preferisco attribuirla a un amor proprio fattosi ipertrofico per ragioni di sussistenza interiore.
In trentasette anni non ho mai esperito relazioni sentimentali né carnali, però ho avuto delle sporadiche infatuazioni platoniche con pochissime temerarie che si sono concluse sempre con un distacco vicendevole e definitivo. A me piace pensare che qualche rara volta le persone si allontanino così tanto solo per ritrovarsi all’altro capo del mondo, ma io non mi ci vedo in un rendez-vous di questo tipo. Forse l’età fa scemare certi bisogni, specialmente se essi siano rimasti inespressi e inappagati proprio quando potevano affermarsi all’acme della loro intensità. Non riesco davvero a rendermi conto se in me alberghi ancora qualche necessità affettiva e, qualora davvero ve ne si annidino, quale sia la loro entità. Non sono neanche in grado d’immaginarmi al di fuori di quel numero che precede tutti i numeri primi benché esso stesso non lo sia e mi doni alla grande: è l’abito buono per… tutta l’esistenza.
Dagli albori a oggi la mia individualità ha compiuto passi da gigante, ma forse questi non sono così ampi da consentirmi di farne qualcuno indietro. Mi sento quasi in debito con la specie per il mio (in)giustificato assenteismo.
Non ho un’indole autodistruttiva e la mia funzione di adattamento negli ultimi tre lustri ha dato il meglio di sé, ma il rovescio della medaglia si trova nella lontananza e nel disinteresse da ogni altro universo che proprio qui dibatto tra me e me stesso: mi avvince più la questione in quanto tale che il suo oggetto di domanda. Può darsi che ulteriori introspezioni di cui l’avvenire è puntuale latore finiscano per darmi ulteriori spunti, ma al momento non ne scorgo e quindi non ho altro da aggiungere né qualcosa da rimuovere.
Così è se mi pare.
Nuovo record personale sulla mezza maratona
Pubblicato mercoledì 8 Dicembre 2021 alle 16:53 da FrancescoIn una mattina tutt’altro che immacolata ho chiuso un piccolo tour de force di cinque gare che ho iniziato venticinque giorni fa, ossia due maratone, un trail, una dieci e, quest’oggi, una mezza in cui ho finalmente siglato il mio nuovo record personale. I 21097 metri sono una distanza per la quale non ho mai avuto grande attenzione né cura, alla stregua di quanto certe istituzioni hanno fatto con le vittime da uranio impoverito, quindi si trattava di una prestazione “facile” da migliorare.
Il tempo finale è stato di 1 ora, 16 minuti e 34 secondi (real time) in quel di San Miniato, quindi a un’andatura media di 3’38″/km (13° posto).Invero speravo di girare sull’ora e quindici, ma quattro giorni or sono ho corso anche una dieci chilometri a Canino piuttosto dura a causa del dislivello e l’ho chiusa in 35 minuti e 43 secondi perdendo una bellissima volata finale (8° posto): la foto, ch’io trovo michelangiolesca, fa riferimento proprio alla gara in Tuscia.
Sono contento di me come allenatore di me stesso e anche se cerco di strafare non me ne fotte nulla perché alla fine mi diverto sempre.
Miti e simboli dell’India di Heinrich Zimmer
Pubblicato sabato 4 Dicembre 2021 alle 12:52 da FrancescoLa mia lettura novembrina è stata quella di Miti e simboli dell’India, un saggio concernente aspetti della religiosità vedica a me già noti, ma di cui il testo di Heinrich Zimmer mi ha offerto ulteriori e interessanti approfondimenti. Basilare ma doverosa la spiegazione iniziale di come ogni ciclo del mondo per l’induismo sia ripartito in quattro età definite yuga e il cui avanzamento va di pari passo con un impoverimento del dharma, ossia dell’ordine morale.
Altra definizione capitale e precipua riguarda i concetti di maya e shakti, laddove la prima indica il mondo fenomenico, quanto è manifesto e illusorio, mentre la seconda è l’aspetto dinamico della prima che ne genera e ne alimenta le epifanie. Zimmer dà conto in più occasioni degli apparenti dualismi che attraversano l’induismo, perciò egli spiega come la shakti rappresenti il potere attivo di una divinità e ne sia la consorte o regina, in complementarietà e opposizione all’elemento passivo maschile (l’eternità): in un passaggio l’unione dei due viene descritta come autorivelazione dell’Assoluto.
Molte sono le pagine dedicate ai simbolismi e alla cosmogonia che mi hanno avvinto, ma è stata in particolare la storia del tracotante Jalandhara a colpirmi poiché il suo tentativo di prendersi in sposa Parvati fa compiere all’autore un parallelismo con il mito edipico, paragonando la consorte di Shiva a Giocasta al fine di sottolineare come il possesso della moglie di un sovrano risponda a un preciso rituale di potere e sia quindi scevro di tutte le implicazioni freudiane.
Sessuale, archetipico e fortemente simbolico è il linga, oggetto fallico d’elezione per il culto di Shiva in quanto energia maschile creatrice, ma il dio è anche distruttore e questa sua duplice natura viene esplicitata dalle principali danze che egli padroneggia: la Tandava e la Lasya.
La gerarchia delle divinità, la differenza tra Brahma e Brahman, i vari aspetti di Shakti (di cui a me piace molto la Kali nera) e, soprattutto, lo stato di prigionia al quale ogni individuo è costretto dalla propria Maya-Shakti (e quindi dalla cosiddetta nescienza) che egli stesso genera, sono altri elementi ivi presenti e stimolanti la cui lettura mi ha ricordato di nuovo quanto verso tutto ciò sia debitrice parte della filosofia occidentale. Duecento pagine spese bene.
Non so come taluni intendano esercitare i propri diritti giacché la muscolatura del loro senso critico mostra i chiari segni di una grave atrofia, ma il mio interesse per la questione non supera la soglia della domanda retorica. Non ho mai misurato l’ombra della verità, però suppongo che superi in grandezza le convinzioni di quanti pensino a ogni piè sospinto di saperla più lunga degli altri. Io stesso detengo una quota di giudizi erronei, veri e propri clandestini sul territorio neurale, ma non è facile controllare i documenti di ogni singola opinione né semplice risulta il suo eventuale rimpatrio tra i confini dello sbaglio natale.
Secondo me la perfetta nemesi dell’originalità risiede nella sua ostinata ricerca, perciò in alcuni casi l’istinto di gregge si dimostra più autentico e verosimile di un’autonoma idiozia, ma il vaglio di simili idee pertiene alle rispettive introspezioni che talora non sono all’altezza dello scranno su cui vengono poste.
Un certo grado della cosiddetta realtà, in particolare il suo epifenomeno sociale, viene forgiato dalle fuorvianti interazioni dei compartecipi, quindi in tutto questo non scorgo una deformazione propriamente detta, bensì uno sviluppo spontaneo che può essere paragonabile a quello di una malattia autoimmune. La singola cellula non può pretendere di condizionare l’intero organismo a meno che non ne guadagni l’egemonia in accordo con altre sue pari in misura sufficiente.
A mio avviso (come se davvero potessi reclamarne l’intera proprietà) quanto sfugga al senso critico non si fa mai latitante, ma è latente e liberamente esigibile all’occhio che sappia coglierlo. Le discrepanze del quadro generale rimandano sovente all’incapacità di ordinare in maniera approssimativa dei pezzi che per loro stessa natura non si possono incastrare a vicenda, ma è nella comprensione della comprensibile mancanza di omogeneità che si annida un senso apparente a cui non può esserne attribuito uno ultimo, o almeno così io ipotizzo e nel farlo già prendo le debite distanze da quanto ne consegue.
L’intera faccenda, qualunque essa sia, si dimostra capziosa e implica grandi rotture di coglioni, ma può darsi che un domani un’umanità più evoluta, o “semplicemente” diversa, si ritrovi a formulare cotali dinamiche in termini per i quali al momento anche l’immaginazione più vivida si vede preclusa ogni tipo di accenno o ipotesi. Ai posteri i cazzi loro.
Il grande maratoneta Toshihiko Seko una volta disse: “The marathon is my only girlfriend”. E, mutatis mutandis, anch’io dubito che sia in grado di soffrire altrettanto per un essere senziente. Non tutte le ciambelle escono col buco né tutti i colpi di stato finiscono con la presa del potere (ne sa qualcosa uno dei figli della Thatcher).
Ieri mattina per saltare in aria non ho scelto un’amena località del Medio Oriente, bensì la culla del Rinascimento. Alla maratona di Firenze sono partito con l’idea d’inseguire il mio primato personale o almeno di correre appena sotto le due ore e quaranta minuti come due settimane fa a Ravenna. Passaggio ai diecimila metri in 36:48, alla mezza maratona in 1:18:21 e ai trenta chilometri in 1:52:25, ma da trentunesimo in poi ho iniziato ad avvertire i prodromi dell’ipoglicemia e il calo è stato esponenziale. Dulcis in fundo, a centocinquanta metri dall’arrivo ho sentito un principio di crampo al quadricipite femorale sinistro, perciò ho tagliato il traguardo camminando, ma ho chiuso in un onesto 2:53:02, la trentanovesima volta su trentanove sotto le tre ore.
L’ossimoro giusto è quello di “buon fallimento”, infatti quel tempo con il tracollo finale indica comunque che sto bene. Ho esagerato un po’ nelle ultime tre settimane e il corpo me lo ha fatto notare, però amo la corsa proprio per questa sua perentorietà. Può darsi che a livello muscolare abbia risentito del trail della scorsa settimana, invece la défaillance ipoglicemica la imputo all’inappetenza dei giorni precedenti. Al prossimo giro… giropizza.