Mi chiedo come mai i ciechi temano di restare al buio per la crisi energetica. Il buonsenso è schiavo delle libere elezioni, prigioniero nel più democratico dei sequestri. L’avvenire è un mosaico di incertezze su cui le crepe tendono ad allargarsi con pervicacia. In questo transito terreno viaggio per i fatti miei con qualche illustre gatto al seguito e diffido di chiunque mi si pari davanti. Per me il beneficio del dubbio costituisce già un’alta onorificenza che conferisco di rado. Appartengo alla cultura del sospetto e non credo a nulla, nemmeno alla verità, però riesco a ritagliarmi tanti bei momenti che celebrano la mia caduca esistenza. Non sono portato alla condivisione e non sono in grado di spendermi per nessun altro. Di rado può capitare che un volto muliebre evochi in me un vago desiderio di reciprocità e l’anelito di sensazioni tutt’oggi inedite, ma con sempre minore frequenza rispetto al passato e in ogni caso, quando ciò accade, lascio queste idee bislacche al loro puntuale deterioramento.
Credo che l’esistenza sia molto più semplice quando non si abbiano responsabilità verso terzi, al contempo può rivelarsi anche più arida e povera ma soltanto se l’individuo non abbia coltivato se stesso: sono scelte anche quando tali non paiono. Al netto della mia autostima, della quale certo non difetto, mi chiedo cosa mai una ragazza possa vedere in me che non sia un derivato delle sue arbitrarie proiezioni, un carico di aspettative per le quali io non posso garantire nemmeno l’imballo e difatti mi tengo alla larga da ogni equivoco, da ogni fraintendimento, da qualunque ambiguità di gesti e parole.
Masturbazione (per le pulsioni organiche) e sublimazione (per la componente affettiva ed emotiva) sono ancor oggi le vie regie, le strade maestre che seguo in nome di una proficua autonomia e so per certo come queste non siano percorribili da chiunque.
Ho una posizione di vantaggio rispetto a quanti siano ingabbiati in nuclei opprimenti od opprimano sé stessi giacché, non avendone ancora uno proprio, ne patiscono la mancanza. Preferisco essere prigioniero di me stesso piuttosto che ritrovarmi carcerato per l’altrui impegno. Mi conservo bene e spero che la mia sia una natura a lunga scadenza, non ho ambizioni di sorta e mi diletto nella quotidianità con quello di cui dispongo, perciò lasciò che vada da sé il mio rapporto con gli eventi, così com’è stato finora e come probabilmente continuerà a essere. Su tutto il resto discutano e decidano pure coloro che per me non esistono: a ognuno il suo.
Il quieto vivere nell’irrequieto esistere
Pubblicato mercoledì 21 Settembre 2022 alle 23:08 da FrancescoRiverbero d’autunno prossimo venturo
Pubblicato giovedì 15 Settembre 2022 alle 18:21 da FrancescoSin dall’infanzia venti e nembi suscitano dentro di me un senso di profonda appartenenza alla tempesta di cui essi sono temibili latori. Le forze meno rassicuranti della natura evocano qualcosa d’ancestrale che s’insinua nel mio individualismo e lo esalta, laddove tutto confluisce e assume sembianze soggettive a tempo determinato. Nelle bufere e nelle piogge la dissoluzione parla di sé e del suo avvento, ma questa prospettiva non può suonare funerea né nefasta a chi sappia accordarle il suo inesorabile ruolo. Mi domando cosa pensassero quanti nacquero e morirono nudi nelle terre preadamitiche, quali fossero le loro percezioni e come si rapportassero alla propria finitudine.
Non so di preciso in quale punto della mia parabola io mi trovi e non conosco cartografi che possano dirmelo, tuttavia mi sento al di là del presente e dunque riesco a districarmi nelle sue espressioni più precarie e meno concilianti. Il continuo dialogo interiore mi aggiorna sulla equidistanza dalla maggior parte delle cose e in questa maniera mi risulta semplice calcolare la traiettoria più agevole con cui seguire la linea del tempo. Lo ripeto a me stesso affinché mi sia chiaro: non so quanto manchi al termine del viaggio. Serafico e conflittuale il divenire si dispiega a prescindere da quanti vi partecipino per inerzia con la maschera del libero arbitrio. Non credo molto ad altro scambio di parole all’infuori di quello che sia endogeno, ma forse qualunque discorso, anche quello tra sé e sé, in un’ultima analisi è un ronzio di fondo da cui niente promana davvero. Oggi avevo voglia di astrazioni e le ho somministrate a queste pagine virtuali su cui ancora insisto e mi attardo a dir di me: nulla v’è d’aggiungere.
In questi ultimi tempi ho pensato a una persona che di recente ha lasciato il corpo. Era ancora giovane e io non avevo mai avuto particolari legami con lei, però la ricordo ancor oggi come una simpatica compagna di classe all’interno di aule che ho sempre frequentato poco. Per me sotto certi aspetti la morte non significa nulla, tanto meno la considero una fine, così come non ritengo la nascita un inizio, tuttavia queste mie intime convinzioni non hanno carattere consolatorio giacché la prospettiva di non poter non essere (non vi è alcun refuso) risulta ontologicamente inquietante e dà molto da pensare.
Talora quando una giovane vita viene spezzata anzitempo ho la sensazione che essa dietro di sé si lasci qualcosa d’incompiuto, però non so se poi sia realmente così. A volte l’entità di una grande sofferenza dipende soltanto da un tempismo cinico e crudele, laddove tali termini acquisiscono la loro esiziale portata in ragione dell’emotività umana, perciò vorrei che vi fosse una forma di sollievo per quanti si trovino a fare i conti con le insostenibili assenze delle persone a cui erano legati. In alcuni casi avverto un fastidioso senso d’impotenza davanti al dolore altrui, come se l’impossibilità di sistemare le cose a proprio piacimento ci tenesse a rammentarmi quanto i poteri della mia specie siano lontani da quelli di un demiurgo.
Fatta eccezione per mia madre io non ho mai avuto affetti e quindi non conosco l’attaccamento né la perdita, non so cosa significhino davvero se non per interposto lutto e indiretta testimonianza. Alla fine ho sempre rivolto gli investimenti emotivi verso di me e questo mi ha messo al riparo dai problemi dell’identificazione, quindi non posso permettermi di scrivere o di dire a qualcuno che “lo capisco”, nondimeno gli auguro ogni bene.
L’inizio di settembre e la concomitanza delle prime, convincenti e intense piogge anticipano ai miei sensi l’autunno che verrà. Non so in quale stagione della vita io mi trovi e magari mi sarà dato comprenderlo solo un domani, forse alla vigilia della fine biologica, quando la distanza dal presente mi consentirà davvero di guardarmi indietro per ricollegare le varie parti della mia esistenza e i loro punti di contatto.
L’aumento delle materie prime coincide con quello dei secondi fini e tutto finisce per essere a carico di terzi. Nell’aria aleggiano malcontento, frustrazione e ansia, perciò evito di entrare in contatto con chi ne sia portatore e mi tengo a debita distanza anche da quanti, per converso, ostentino un ottuso ottimismo. Nulla mi appartiene né a nulla io appartengo, sono di passaggio e non faccio progetti a lungo termine. Molti sono gli indizi presaghi di sventura e forse è solamente una mera questione di tempo prima che si uniscano in una prova inconfutabile, in un’evidenza lacerante, nella slavina definitiva, tuttavia non me ne preoccupo.
Se avessi dei figli forse sarei la pallida imitazione di me stesso e qualche dubbio sull’avvenire mi consumerebbe da dentro, lentamente, giorno dopo giorno, ma per fortuna l’idea della paternità non mi si è mai presentata neanche nell’anticamera del cervello e non mi stancherò mai d’incensare cotale dono della mia indole. Al mio interno ho troppe ragioni autoreferenziali per giustificare la mia presenza e per celebrarla al cospetto del piano della realtà sul quale ancora mi attardo, ergo dovrei trovarne di migliori o di inedite per allargare me stesso oltre i comodi confini del solipsismo e invero non riesco neppure a figurarmi che possano esistere. Non riesco a mettermi nei panni altrui perché trovo che non sia una pratica igienica, ma al contempo io stesso non pretendo un’analoga immedesimazione nei miei: secondo me ognuno sta dove deve stare, anche quando le prime impressioni facciano intendere il contrario.
Qualche sera fa ho guardato per la prima volta questo vecchio film danese e l’ho apprezzato in sommo grado. La storia è basata su un’opera teatrale e secondo il mio modesto parere la regia ne tradisce l’origine già dalle prime sequenze piuttosto statiche, ma credo che tale caratteristica giovi alla trasposizione stessa. La pervasiva religiosità del racconto si esprime con profondità diverse a seconda dei personaggi, perciò la gamma della fede è illustrata da un capo all’altro della convinzione, ossia da chi ne è rapito a chi invece l’ha smarrita e perlopiù ciò avviene entro i definiti confini di una famiglia che è la protagonista corale della narrazione.
Su tutte a me è piaciuta il la figura estraniata, estatica e quasi profetica di Johannes Borgen, giacché per suo tramite la parola (questa è la traduzione di ordet dal danese) rivela il senso ultimo dell’opera, ma tale epifania segue una parabola all’inizio della quale Johannes appare come un folle, un alienato, una persona malata e la scena più bella secondo me consiste proprio in un suo discorso alla nipote (la figlia di suo fratello e della morente Inger) mentre la macchina esegue un lento e splendido movimento semicircolare. In una spontanea associazione d’idee Johannes mi ha fatto venire in mente una vaga rassomiglianza con Rasputin per la sua aurea di misticismo e per le fattezze dell’attore che lo ha impersonato.
In seno alla vicenda principale del racconto va a inserirsi e a risolversene un’altra, più prosaica, che riguarda l’amore tra l’ultimogenito di Morten Borgen (il pater familias) e la figlia di un uomo che intende la fede in maniera diversa rispetto ai Borgen. Quando ho visto il film non sapevo di cosa trattasse, ma l’impronta teologica mi è parsa evidente sin dall’inizio e tuttavia non ha inficiato la mia fruizione dello stesso. Pellicola eccelsa.
È un caldo afoso quello che avvolge la sera dalla quale scrivo e nulla sembra poterne ridurre l’impatto in tempo utile per gridare al miracolo climatico. Già che mi trovo al mondo ne approfitto per scrivere qualcosa sebbene io stesso non abbia un’idea precisa da mettere nero su bianco. Se mai avessi avuto delle vere aspettative adesso mi ritroverei nell’età giusta per cominciare ad ammirarne il tramonto, ma non ho nulla né nessuno da utilizzare come feticcio per una nostalgia transitoria. La vita passa e manco la saluto, tuttavia spero che la mia disattenzione non venga intesa come uno sgarbo. Non ho in sospeso debiti di riconoscenza e nessuno né ha nei miei confronti. Le cose da fare potrebbero essere molteplici se solo fossi disposto a raggiungere un livello di stress sufficiente che finisse per farmele disprezzare. Evito per quanto mi sia possibile ogni genere d’impegno che implichi il confronto con la volontà altrui: mi basto per abitudine, per cause di forza maggiore, per comodità e per pigrizia.
Non mi è nota l’ora della mia morte, o perlomeno non mi è stata comunicata né per posta né in sogno, di conseguenza non so quanto mi resti da vivere e non me la sento di azzardare calcoli, inoltre non tiro a indovinare né sotto l’incrocio dei pali, bensì campo per i fatti miei e mi vedo autoreferenziale fino al termine delle trasmissioni sinaptiche. Manca sempre qualcosa anche quando tale impressione risulti assente dalle percezioni, ma poco importa e nulla cambia: per me è fondamentale che io riesca ad accordarmi con il luogo e le circostanze di mia pertinenza. Tutto il resto va da sé, al di là che qualcuno se ne avveda o meno, oltre la testimonianza di ogni coscienza: è così da miliardi di anni e lo sarà per le scomparse venture nei silenzi dei mondi.
Dalle mie parti l’invasione dei moscerini ha obnubilato la guerra in Ucraina e le crescenti tensioni a Taiwan, quindi per evitare densi nugoli di insetti non vorrei vedere la luce in fondo al tunnel nemmeno se me la passassi male: per la medesima ragione credo che lo stesso Gesù Cristo rimuoverebbe le batterie dalla propria aureola qualora decidesse di tornare da queste parti.
Dall’agone politico odo personaggi di scarsa caratura che fingono di scornarsi su questioni più grandi di loro mentre tenzonano con le rispettive bassezze per l’insalubre mania del potere.
Sovente la quotidiana e celere lettura delle cronache fa rimbombare un pensiero al mio interno: “Qualcuno tocchi Caino”. Sento un odioso e costante retrogusto di amarezza nell’avvicendarsi instancabile d’ogni ingiustizia, perciò in estate tento sempre di addolcire il sapore della realtà con i ghiaccioli alla menta e con qualche bevanda zuccherata.
Quanto si prospetta non è detto che accada, così come spesso un’ombra si dimostra mendace ambasciatrice di ciò da cui è proiettata, ma le apparenze in una qualche misura contano lo stesso al netto degli inganni di cui sono capaci e frequenti latrici. Personalmente vorrei smettere di credere persino alla verità e appendere il giudizio al chiodo come in un atto di filosofica epochè, ma solo per dedicare le mie attenzioni ad altro: le regole del cricket, le bolle di saliva, la contemplazione dei cantieri aperti assieme a un collegio di baby pensionati e via discorrendo, nel perenne deperire che definisce l’esistenza stessa e di cui i sacchetti biodegradabili costituiscono un monito a portata… di mano.
Per me Fitzcarraldo è un film che sfugge a qualunque etichetta e regola fissa, infatti lo ritengo un’opera sui generis la cui visione mi ha lasciato impressioni del tutto inedite nel mio rapporto con il cinema. Quando vedo Klaus Kinski sullo schermo mi domando sempre dove finisca il personaggio e dove cominci la persona, ma questo mio dubbio intriso d’ammirazione immagino che scaturisca anche dai vari racconti su di lui: secondo una di queste storie gli indios dissero a Werner Herzog che se lui lo avesse voluto loro avrebbero fatto fuori Kinski a causa delle intemperanze di quest’ultimo.
Le panoramiche sulla foresta e le inquadrature strette su Fitzcarraldo per me restituiscono delle immagine plastiche, vere e proprie fotografie che rendono iconiche più di una sequenza. A mio parere è un film oscillante tra il sublime e il grottesco, tra il surreale e il documentaristico, tra l’improbabile e l’impossibile, ma in tutto questo mantiene la barra dritta un po’ come la nave che riesce ad affrontare l’acqua del fiume e le asperità della montagna. Le chiavi di lettura sono molteplici e oltre a quelle intenzionali ognuno può trovare le sue, ma di quest’opera io tendo a fare un’esperienza estetica piuttosto che ricamarci sopra concetti prometeici sulla relazione degli esseri umani con la natura e sé stessi.
Kinski è davvero uno dei pochi attori che sa catturarmi con la sola mimica (anche minima) facciale e secondo me il suo carisma travalica gli schermi di ogni grandezza. V’è anche stupenda Claudia Cardinale, ma in realtà persino l’ultima delle comparse rende il tutto unico, come nel più celebre degli ossimori: una lucida follia.
Banco Del Mutuo Soccorso ad Abbadia San Salvatore
Pubblicato lunedì 1 Agosto 2022 alle 23:51 da FrancescoDomenica, all’imbrunire, mi sono avventurato lungo le tortuose strade amiatine che serpeggiano fino ad Abbadia San Salvatore e là ho assistito a un concerto del Banco Del Mutuo Soccorso. L’ultima volta che avevo visto il gruppo dal vivo risaliva a dieci anni fa, quando ancora sia Francesco Di Giacomo che Rodolfo Maltese non avevano lasciato i rispettivi corpi.
Non sapevo cosa aspettarmi da questa nuova formazione, ma la curiosità e l’entusiasmo mi hanno spinto ugualmente a guidare per un totale di circa duecento chilometri: alla fine non me ne sono pentito! Ho trovato fin da subito una band eccezionale di cui avevo già visto i nuovi innesti con altre formazioni (il batterista dei Metamorfosi e il bassista de Il Balletto Di Bronzo), un Vittorio Nocenzi in forma e un Tony D’Alessio che sa rendere omaggio e giustizia alla voce del Banco senza imitazioni né forzature!
La scaletta ha attinto dai grandi classici del gruppo e ne ha coperto un po’ tutta la discografia, compreso l’ultimo convincente album pubblicato ormai un po’ di tempo fa, ossia Transiberiana. Mi è piaciuto ogni singolo pezzo e mi hanno divertito gli aneddoti raccontati da Vittorio Nocenzi, ma per ragioni personali i momenti che mi hanno esaltato di più hanno riguardato i brani tratti da Darwin!, dal cosiddetto Salvadanaio (il primo album omonimo) e una grandiosa esecuzione di Canto nomade per un prigioniero politico.
Io sono arrivato pochi minuti prima che il concerto cominciasse e mi sono messo subito in prima fila dove sono rimasto, come rapito ed estasiato, fino alla fine. È stata davvero una bella serata e il pubblico presente si è dimostrato molto partecipe, inoltre è stato un evento gratuito in seno alla locale festa della birra ove io, da astemio e contrario agli alcolici, non ho trovato niente a parte la musica: e mi pare poco? Lunga vita al Banco!
La fontana della vergine di Ingmar Bergman
Pubblicato venerdì 29 Luglio 2022 alle 00:20 da FrancescoDi Bergman amo molto Luci d’inverno perché in quel film secondo me egli riesce a sondare gli abissi dell’esistenza attraverso l’accurata descrizione di uno strazio teologico, inoltre adoro il modo in cui affronta l’ineluttabilità della finitudine ne Il settimo sigillo e in entrambi i casi il mio profondo apprezzamento è anche di natura estetica (oltre alla regia ne ammiro il peculiare bianco e nero), ma è ne La fontana della vergine che a mio parere riesce a coniugare la luce e il buio nel più efferato dei modi.
Anche in quest’ultimo film, in particolare quando il padre di Karin viene inquadrato di spalle e si rivolge verso l’alto dei cieli, avverto quel silenzio di Dio che solitamente è attribuito al nome della trilogia composta dal già citato Luci d’inverno, da Il silenzio e da Come in uno specchio.
Forse soltanto ne Il settimo sigillo avverto un’eguale evocazione degli archetipi, ma nel caso de La fontana della vergine immagino che dipenda anche dall’ispirazione medievale su cui si basa la storia. A mio parere anche il tema della vendetta è preminente sebbene emerga con tutta la sua forza solamente nella parte finale della pellicola. Per me la narrazione è un crescendo che ha due punti apicali nella plastica, favolosa e iconica scena dello sradicamento di un piccolo albero e quando la testa dell’ormai defunta Karin viene sollevata. All’inizio fiabesco fa da contraltare una ridda di tratti che appartengono al concetto di ombra junghiana, o almeno questa ne è la mia percezione, ma proprio da tale opposizione scaturisce a mio avviso il significato ultimo dell’opera di cui ognuno può discutere davvero solo ed esclusivamente con la propria coscienza.