Freud riteneva la pulsione di morte un'ipotesi irrefutabile e il proprio pessimismo un risultato, a differenza dell'ottimismo dei suoi avversari che invece egli considerava una premessa.
Il principio di piacere è volto alla gratificazione immediata e al mantenimento di un basso livello dell'eccitamento, ma talora gli subentra il principio di realtà che dilaziona la gratificazione e si fa carico di una temporanea tolleranza al dispiacere per questioni di adattamento alle circostanze.
La pulsione di morte pare che sia la tendenza al ritorno allo stato inorganico, ovvero a quella fase primeva dell'evoluzione in cui la vita si instillò in una sostanza inanimata; una concezione del genere mette in discussione quella visione della vita che verte sulla ricerca dell'evoluzione, come nel perseguimento del superuomo di nietzschiana memoria, tuttavia è lo stesso Freud a sottolineare subito quanto possa risultare dolorosa la rinuncia a una credenza così consolidata. Fatico ad accettare in toto un tale postulato, ma escludo che la mia ritrosia sia d'ordine emotivo e la ritengo invece propria di un sano atteggiamento dubitativo. Invero dalla mia prospettiva atea non sarebbe per me gravoso accogliere l'idea di riassumere la vita nello scopo di morire, ma forse non ci riuscirei lo stesso in quanto mi sembrerebbe troppo bella perché fosse vera.
Alle luce di cotanta foschia il richiamo alla filosofia di Schopenhauer è un moto spontaneo a cui anche Freud fa cenno in un passo del suo scritto, precisamente quand'egli riporta le parole del filosofo tedesco sulla morte quale "vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita".
Mi domando se Thanatos, la pulsione di morte, sia davvero latente in ognuno di noi, ovvero in ciò che Jung chiama inconscio collettivo; mi chiedo inoltre se i capitoli più neri della storia della civiltà, non ultimo quello odierno del fanatismo islamico, siano da attribuire alla manifestazione di questo principio che, in determinate circostanze e presso certi gruppi, non trova gli ostacoli del principio opposto, cioè di Eros, la pulsione di vita. Ecco dunque che dietro ogni massacro può essere scorto il tentativo di riportare tutta l'umanità a ciò che fu in principio poiché "gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi".
Sono un uomo, mi ritengo empatico in un giusto grado e mi limito al mero esercizio speculativo di considerare la violenza senza fine come una mera coazione a ripetere, ma non faccio mia una tale veduta poiché non ne avverto l'autenticità; d'altro canto penso che sia importante lo sforzo di sospendere talvolta ogni tipo di emotività, blanda o parossistica che sia, affinché la lucidità possa operare nelle migliori condizioni possibili come un chirurgo in un ambiente asettico.
Ho approfittato di un'iniziativa editoriale de Il Giornale e lo scorso sabato mi sono procurato l'edizione del Mein Kampf di Adolf Hitler che è uscita in allegato con il quotidiano.
Avevo già avuto tra le mani il testo che l'artefice del nazismo redasse durante il suo periodo di blanda prigionia, ma non ne avevo mai completato la lettura perché la copia non era mia e non ero ancora in grado di comprenderne pienamente i contenuti. Ho udito aspre polemiche verso la proposta de Il Giornale, ma le ho trovate stucchevoli, faziose, infantili, pretestuose e improntate a un becero buonismo. Per me la nota dolente non è stata affatto la lodevole pubblicazione di un libro dal forte interesse storico, bensì l'ho riscontrata in quanto sterile riproposizione di quest'ultimo nell'edizione del trentaquattro a opera di Bompiani: refusi sparsi, accenti invertiti e una qualità della stampa davvero dozzinale. Avrei preferito una nuova traduzione in un formato migliore e così, a fronte di tali condizioni, non avrei storto il naso neanche se il prezzo finale fosse stato un po' maggiorato. Mi sono comunque cimentato nella lettura e ho piazzato dei segnalibri adesivi nei punti che più di altri hanno catturato il mio interesse: al momento ho superato le prime centodieci pagine e conto di raggiungere l'ultima entro un paio di settimane.
Di certo non mi lancio nel tentativo di proporre un'analisi critica del manifesto politico di Adolf Hitler, tuttavia voglio qui annotare dei rimandi a quanto ho letto sinora affinché possa sostenere come, dal mio punto di vista, in ogni yang ci sia un po' di yin. Non intendo politicizzare questo appunto e mi auguro che nessuno lo faccia, ma tendo a credere che me ne sbatterei i coglioni se una tale e remota eventualità dovesse trovare compimento.
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Non amo il parlamentarismo, di conseguenza mi si sono illuminati gli occhi quando ho letto che il movimento nazionalsocialista partecipava all'istituto parlamentare con il solo scopo di distruggerlo dall'interno poiché vi ravvisava "uno dei peggiori fenomeni della decadenza umana".
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Sposo la critica secondo la quale le regole democratiche esistono solo affinché taluni se ne possano servire per il loro profitto e abbiano la facoltà di dimenticarsene all'uopo.
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Per determinati individui l'esistenza stessa dello Stato fonda già la sua invulnerabilità e dunque quest'ultimo non serve gli uomini, bensì sono essi a servirlo con "una canina adorazione dell'autorità statale". In altre parole il mezzo si trasforma in fine e io non mi sento a disagio a condividere una tale opinione benché sia stata la stessa di Hitler.
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Non credo che una nazione consista nel sangue e non penso che una mescolanza di cosiddette razze possa nuocerle, anzi, considero piuttosto ridicola una concezione così distante dalla realtà, ma ammetto che riconosco una certa valenza a tale aberrazione ideologica dalla prospettiva del mio senso estetico (nel quale, per altro, io stesso non rientro e di cui, di fatto, me ne fotto).
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Sono un aperto sostenitore dell'eugenetica, ma probabilmente io poggio su motivazioni assai diverse da quelle che ispirarono il Terzo Reich. Anch'io credo che "chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino", tuttavia tale punto di vista non può che restare un'astrazione poiché non è possibile fornire una valutazione oggettiva dei canoni suddetti; inoltre la storia e il consesso civile hanno conosciuto figure eminenti che sono scaturite da genitori di tutt'altra risma. Sostengo lo stesso una tale idea per la tutela del nascituro, affinché possa avere pressoché le stesse possibilità di sviluppo psicofisico dei suoi coetanei.
È indubbio che talora degli svantaggi congeniti possono fornire la propulsione adatta affinché l'individuo raggiunga notevoli risultati di compensazione, e su ciò ci si può appoggiare a certi studi di Alfred Adler per corroborare (qualora ce ne fosse davvero bisogno) la validità del concetto di "inferiorità d'organo". Qual è dunque la strada da seguire e, soprattutto, può essere che uno zoppo la percorra meglio dei normodotati? -
Mi trovo d'accordo in modo preoccupante con una precisa critica che Hitler muoveva al sistema scolastico del suo tempo. Per egli l'insegnamento dell'epoca prevedeva troppe cose e, giustamente, si rendeva conto che d'un tale bagaglio culturale rimaneva poco agli studenti e, dunque, auspicava che fossero impartite nozioni più essenziali: esse difatti erano eccessive per il tedesco medio ed esigue per quello che vi ci si doveva poi specializzare; tale ridimensionamento della didattica prevedeva inoltre un aumento del tempo da dedicare all'educazione fisica. Anche in questo caso posso fare mia una tale idea benché io la ritenga giusta per ragioni diverse da quelle funzionali al regime.
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È innegabile che "un giovane contadino può possedere assai più talento che il figlio di genitori occupanti da molte generazioni un alto posto", però la "superiore cultura di quest'ultimo non ha, per sé stessa, nulla a che fare col talento più o meno grande, ha la sua radice nella maggior copia di impressioni che il fanciullo riceve in grazia della sua varia educazione e dell'ambiente che lo circonda". A ciò, anch'esso presente tra visioni più o meno deliranti del Mein Kampf, non posso obiettare nulla, ma d'altro canto non so quanto sia corretto decontestualizzare i punti ai quali mi sono rifatto: può darsi che commetterei lo stesso sbaglio se riservassi un identico trattamento a quanto ho scritto finora tra il serio e il faceto…
Letture parallele e analoga serietà. Sturmtruppen di Bonvi e il Mein Kampf di Hitler.
Appunti sfusi del Libro rosso di Carl Gustav Jung
Pubblicato sabato 2 Gennaio 2016 alle 22:26 da FrancescoAncorché con estrema concisione e senza l'ausilio degli incisi necessari, intendo trasporre su queste pagine una parte dei miei appunti su uno dei testi più famosi e controversi di Jung, ovvero il Libro rosso a cui ho dedicato molteplici attenzioni sin dalla scorsa primavera.
Quanto mi accingo ad annotare non ha pretese di completezza, dunque lo vergo come meglio credo a mio esclusivo uso e consumo; mi riservo inoltre la possibilità di ampliare questo piccolo sunto di annotazioni che ho tratto dalla lettura del testo in questione e da quella della Guida al Libro Rosso di Bernardo Nante.
Il Libro rosso è disseminato di miti, ma è esso stesso un mito che esorta chi lo legge al recupero di una vita simbolica: quest'ultima consiste nell'unione degli opposti che è celebrata dalle nozze mistiche che ognuno deve narrare con l'unicità della propria esistenza. Jung precisa che il testo non dev'essere considerato alla stregua né di una dottrina né di un insegnamento, bensì solo un invito che è rivolto a chiunque intenda cercare dentro di sé la via della propria rivelazione.
Apprezzo molto quest'ultimo monito di Jung e dei suoi esegeti in quanto non riduce l'opera a un corpus di dettami per indoli pedisseque, ma pone il lettore al cospetto della vox media più bella e crudele, ovvero "libertà"; e mutatis mutandis, in tutto ciò sento odor di pelagianesimo.
Il primo passo che viene mosso nel Libro rosso è verso l'assurdo e si compie con l'assassinio di Sigfrido che invece rappresenta il senso. L'Io è il protagonista e deve rapportarsi con le figure più disparate, tra le quali il Diavolo e un anacoreta: il primo rappresenta la materia, il mondo terreno, il secondo invece l'ascesi e la spiritualità.
Viaggiando verso oriente l'Io s'imbatte in un gigante babilonese di nome Izdubar (che è l'errata traslitterazione di Gilgamesh) il quale procede in direzione opposta. Quest'incontro è quello tra l'uomo scientifico e l'uomo mitiologico con la dicotomia che è loro propria. Jung spiega al gigante la teoria eliocentrica ed egli s'ammala poiché gli vengono meno le convinzioni magiche, quindi Jung tenta di riparare al danno che ha causato e propone a Izdubar di diventare una fantasia in modo tale che lui possa portarlo in Occidente, racchiuderlo in un uovo e covarlo. Quando i passi anzidetti vengono compiuti Izdubar rinasce ma l'Io ne resta orfano.
A questo punto è sottolineata l'incapacità di vivere in pieno il mistero dell'unione degli opposti a causa della tensione tra lo scetticismo scientista e la devozione infantile.
L'Io riceve il dono della magia che richiede il sacrificio della consolazione e si reca da un mago affinché lo liberi dal destino: la magia consiste nell'imparare ciò che non può essere imparato e nel comprendere l'incomprensibile in quanto essa permette di sopportare le contraddizioni.
Il mago Filemone non comunica all'Io il segreto della magia per mezzo della parola, bensì egli si avvale del suo modo di vivere e ne fa un esempio. Compaiono poi i Cabiri, delle divinità ctonie che si mettono al servizio dell'Io per diventarne oggetto di sacrificio.
L'Io riconosce le esigenze dei morti e così può lasciare le aspirazioni personali, inoltre è in grado di non desiderare più che la sua volontà s'imponga agli altri o che di questi egli voglia la felicità.
Appaiono due figure, Salomè ed Elia: la prima rappresenta l'eros e il secondo il Logos.
Le nozze mistiche tra sopra e sotto generano un'anima spiritualizzata e il protagonista resta da solo con il suo Io: costui deve recuperare il passato che non ha ancora accolto poiché la pietra di paragone è l'essere soli con sé stessi. Questa è la via. L'Io non deve farsi carico dei morti perché deve restare fedele alla solitudine, ma non lo capisce e sprofonda nella tristezza, inoltre v'è un confronto con l'Ombra personale in cui ammette la propria inferiorità e accetta di farsi domare. Su questo orizzonte si staglia un concetto importante, ovvero che occorre comprendere sé stessi per superare la pretesa di essere compresi dagli altri.
Jung non si disfa dell'anima benché questa si presenti come una sgualdrina ipocrita poiché egli sa che comunque serba il tesoro più prezioso. Per procedere verso il Sé è necessario che vi sia un riconoscimento dei vizi e delle virtù.
Nel pleroma le coppie di opposti in realtà non esistono poiché si annullano, perciò nella misura in cui un individuo è attratto da un polo finisce per cadere in quello opposto: rimedio a ciò è l'essenza e non il pensiero. Filemone insegna il sapere che pone un freno al pensiero.
È Abraxas che abbraccia entrambi i poli, ovvero un dio da sapere e non da comprendere, cioè il signore di questo mondo. Filemone da parte sua non può insegnare ai morti il dio che è uno in quanto essi lo hanno ripudiato e così hanno dato potere alle cose, ovvero a molti dèi.
Essere in comunione dà calore mentre essere da soli dà luce: l'uomo deve differenziarsi dalla sessualità e dalla spiritualità che non possiede poiché ne è posseduto. Affinché l'integrazione si verifichi l'enantiodromia deve interrompersi. Secondo Filemone gli uomini non possono imparare nulla fino a quando non vivono la loro vita senza imitare nessuno: ciascuno deve realizzare la sua opera salvifica. Gli dèi sono insaziabli perché ricevono troppo e devono imparare la penuria dagli uomini, ma le atrocità dei mortali aumentano quando queste precedono la rinascita di un dio paradossale. Il dio unico è morto e la pluralità delle cose uniche è il dio uno.
Elia finisce per indebolirsi poiché passa a Jung una parte troppo grande del suo potere; egli e Salomè sono modelli archetipici per l'unione degli elementi maschili e femminili; riconoscere il valore della seconda rende possibile l'annullamento dell'identificazione del sapere con la mera erudizione. A un certo punto appare Cristo con le sembianze di un'ombra azzurra e Filemone lo porta a capire come la sua natura sia anche quella del serpente: egli ne conviene.