La mia lettura novembrina è stata quella di Miti e simboli dell’India, un saggio concernente aspetti della religiosità vedica a me già noti, ma di cui il testo di Heinrich Zimmer mi ha offerto ulteriori e interessanti approfondimenti. Basilare ma doverosa la spiegazione iniziale di come ogni ciclo del mondo per l’induismo sia ripartito in quattro età definite yuga e il cui avanzamento va di pari passo con un impoverimento del dharma, ossia dell’ordine morale.
Altra definizione capitale e precipua riguarda i concetti di maya e shakti, laddove la prima indica il mondo fenomenico, quanto è manifesto e illusorio, mentre la seconda è l’aspetto dinamico della prima che ne genera e ne alimenta le epifanie. Zimmer dà conto in più occasioni degli apparenti dualismi che attraversano l’induismo, perciò egli spiega come la shakti rappresenti il potere attivo di una divinità e ne sia la consorte o regina, in complementarietà e opposizione all’elemento passivo maschile (l’eternità): in un passaggio l’unione dei due viene descritta come autorivelazione dell’Assoluto.
Molte sono le pagine dedicate ai simbolismi e alla cosmogonia che mi hanno avvinto, ma è stata in particolare la storia del tracotante Jalandhara a colpirmi poiché il suo tentativo di prendersi in sposa Parvati fa compiere all’autore un parallelismo con il mito edipico, paragonando la consorte di Shiva a Giocasta al fine di sottolineare come il possesso della moglie di un sovrano risponda a un preciso rituale di potere e sia quindi scevro di tutte le implicazioni freudiane.
Sessuale, archetipico e fortemente simbolico è il linga, oggetto fallico d’elezione per il culto di Shiva in quanto energia maschile creatrice, ma il dio è anche distruttore e questa sua duplice natura viene esplicitata dalle principali danze che egli padroneggia: la Tandava e la Lasya.
La gerarchia delle divinità, la differenza tra Brahma e Brahman, i vari aspetti di Shakti (di cui a me piace molto la Kali nera) e, soprattutto, lo stato di prigionia al quale ogni individuo è costretto dalla propria Maya-Shakti (e quindi dalla cosiddetta nescienza) che egli stesso genera, sono altri elementi ivi presenti e stimolanti la cui lettura mi ha ricordato di nuovo quanto verso tutto ciò sia debitrice parte della filosofia occidentale. Duecento pagine spese bene.
Miti e simboli dell’India di Heinrich Zimmer
Pubblicato sabato 4 Dicembre 2021 alle 12:52 da FrancescoLa via per l’Oxiana di Robert Byron
Pubblicato giovedì 30 Settembre 2021 alle 10:34 da FrancescoI saggi storici di Hopkirk mi hanno indotto a soppesare La via per l’Oxiana, un libro di viaggio che ho finito per leggere con particolare piacere e coinvolgimento. Al di là della loro vocazione diaristica, anche nelle pagine di Robert Byron vi sono elementi di divulgazione in subordine alle vicende personali, una commistione questa che secondo me infonde un ottimo ritmo al testo e lo rende scorrevole benché sia piuttosto corposo.
La narrazione copre un arco temporale di undici mesi e comincia nel tardo agosto del 1933 in quella che una volta fu La Serenissima. Il modo di descrivere gli incontri e le situazioni, l’ironia più o meno velata con cui Byron rende conto delle proprie e delle altrui vicissitudini, così come lo stupore che talora prorompe dalla sua penna davanti a squarci paesaggistici o ad alcune opere architettoniche, a tratti mi hanno ricordato la scrittura di Tiziano Terzani al quale immagino che quest’autore non fosse sconosciuto.
Ho trovato interessante la sezione persiana che restituisce un’immagine del paese ancora lontana dalla rivoluzione di Khomeini, ma anche la parte dedicata all’Afghanistan mi è risultata utile per intuire da dove nasca e si trovi ancor oggi quella continuità che sta a fondamento dei suoi recenti “sviluppi”.
Mi ha divertito il giudizio negativo e inclemente di Byron sui Buddha giganti che furono scolpiti nella roccia a Bamiyan, infatti mi sono immaginato cosa egli avrebbe detto se avesse vissuto abbastanza per apprenderne la distruzione operata dai talebani nel 2001.
Oltre ai profili autoctoni, dal racconto emergono anche le tensioni politiche tra Russia e Regno Unito sebbene residuali rispetto a quelle raccontate dalla penna del già citato Hopkirk, perciò lo scritto contiene anche sporadici accenni al modus vivendi delle rappresentanze occidentali in un contesto così diverso dalle loro patrie. Per quanto breve, ho trovato pregevole e a mio parere stilisticamente eccelsa l’introduzione di Bruce Chatwin, un altro scrittore su cui prima o poi dovrò investire del tempo.
Come al solito, e per quanto possibile, ho integrato la lettura con la consultazione di mappe satellitari e fotografie recenti per ricavarne un’idea visiva dei luoghi descritti.
Questo saggio divulgativo di George Musser mi ha attratto per la sua questione centrale, quella della località, un’astrazione scontata a livello macroscopico ma tutt’altro che ovvia nel mondo subatomico e a velocità relativistiche. Il testo si apre e indugia un po’ in un parziale riassunto della storia della fisica, un passaggio obbligatorio per una corretta introduzione al tema benché io abbia affrontato già altre volte preludi analoghi in scritti simili.
La località e la non-località implicano molteplici approcci allo spazio-tempo e difatti anche a quest’ultimo è riservato il giusto… spazio! Secondo me nel testo una delle suggestioni più importanti e feconde verte attorno alla diversa concezione dei buchi neri, rispettivamente dalla prospettiva della teoria della gravità e da quella dei quanti, le grandi protagoniste in cerca di una terza teoria che si presenti come loro unificatrice: per la prima l’ingresso in un buco nero è irreversibile, la seconda invece ne contempla l’irreversibilità. Inoltre, allo stato attuale, in virtù del fatto che la velocità e la posizione di una particella non sono indipendenti l’una dall’altra, le teorie anzidette vìolano il principio di località qualora si provi a combinarle, giacché così una particella può essere al contempo in due punti diversi o essa può trovarsi in punto e la sua energia in un altro.
Nella seconda metà del libro vi è l’esposizione di plurime ipotesi che hanno come paradigma d’elezione proprio i buchi neri e la possibile rivisitazione dell’idea di spazio-tempo, ma qua e là vi sono anche brevissimi sussulti in punta di filosofia, come quando, tramite una citazione del primo Novcento di Mach, Musser suggerisce come l’uomo debba le sue rappresentazioni temporali alla mutUa dipendenza delle cose.
Si è trattato del mio ultimo saggio con questo tipo di taglio “potabile”, difatti, come mi ero riproposto un po’ di tempo fa, ho cominciato a colmare le mie lacune matematiche nella speranza che un domani io possa avere i mezzi per affrontare un testo più tecnico su tali argomenti. Anche in ragione di questo modus operandi, e con lo scopo di dare varietà al mio (lento) studio da autodidatta, ho reintrodotto delle letture umanistiche al vaglio dei miei investimenti di tempo.
La fisica dei perplessi di Jim Al-Khalili
Pubblicato domenica 27 Giugno 2021 alle 13:03 da FrancescoLa lettura de “La fisica dei perplessi” di Jim Al-Khalili mi ha fatto capire che i volumi di semplice divulgazione non riescono più ad avvincermi come solevano fare, ma l’approfondimento della meccanica quantistica nei suoi formalismi richiede delle basi matematiche che al momento non possiedo. Purtroppo i testi accessibili tendono inevitabilmente a ripetersi: la storia della fisica classica, i pionieri del primo Novecento, l’esperimento della doppia fenditura, il concetto di funzione d’onda e quello del suo collasso, il principio di esclusione di Pauli, l’interpretazione di Copenaghen, la cantonata di Einstein sulle implicazioni della meccanica quantistica in concorso con Podolski e Rosen, i concetti di non località e decoerenza, gli stati di sovrapposizione, le quattro forze e, ovviamente, l’astrazione più pop di tutta la fisica, ossia quella del gatto di Schrödinger. Tutte cose che ho letto molteplici volte in saggi piuttosto chiari, piacevoli e simili tra loro, ma di cui comincio ad avvertire le inevitabili semplificazioni. Il testo di Al-Khalili è ottimo, ironico e dettagliato per quanto lo può essere un volume del genere, ma per me non contiene nulla che non abbia già incontrato e soppesato in letture analoghe. Ho comunque preso appunti amanuensi in doppia copia benché il senso di déjà-vu sia stato costante: si tratta di una buona abitudine che non voglio abbandonare. Ho ancora un libro divulgativo di George Musser da leggere, ma quando l’avrò completato eviterò scritti con questo tipo di approccio, perlomeno su tali argomenti.
O mi metterò d’impegno a colmare le mie lacune matematiche, per un primo avvicinamento alla fisica classica da cui poi tentare, a tempo debito, di capire matematicamente almeno qualche concetto di meccanica quantistica, o rivolgerò il mio interesse ad altri campi dello scibile umano. La mia capacità di apprendimento ha chiari limiti, ma siccome cerco una conoscenza fine a se stessa non ho ansie da prestazione. In ogni caso sul punto di morte (e forse anche prima, magari a fronte di una patologia neurodegenerativa) dovrò abbandonare tutte le nozioni incamerate. Fico.
Culture dimenticate di Harald Haarmann
Pubblicato venerdì 11 Giugno 2021 alle 15:46 da FrancescoCon l’eccezione dei mirabili scritti di Hopkirk, negli ultimi anni ho prestato poco interesse ai saggi storici poiché in passato (e quando, sennò?), a fronte di letture plurime e costanti (tra cui circa cinquemila pagine di Storica, un mensile di National Geographic), il mio interesse per la materia ha raggiunto un punto di saturazione, tuttavia questo volume di Harald Haarmann mi ha incuriosito per il suo riguardo verso episodi meno gettonati dell’antichità.
È un testo nel quale la descrizione di culture dimenticate implica l’ipotesi che vi siano ancora scoperte da compiere e altre da rivedere, come la suggestione iniziale per cui, sulla base di elementi linguistici peculiari (quelli delle lingue algonchine) in relazione con le espressioni della cultura Clovis e con certe particolarità genetiche, possa esservi stata una migrazione dall’Europa al Nord America già da parte dei cacciatori dell’era glaciale.
Altre scoperte in Asia Minore (i siti di Gobleki Tepe e Catalhoyuk) lasciano intendere che un insediamento urbano non fosse per forza la premessa per un’architettura monumentale e potesse sorgere senza una differenziazione tra edifici pubblici e privati, con una società priva di gerarchie: anche l’analisi della cosiddetta civiltà danubiana depone a favore di quest’ultima ipotesi.
Ho poi incontrato di nuovo la questione etimologica del termine “amazzone”, il quale pare che non indicasse l’assenza di un seno per agevolare l’uso dell’arco da parte di queste guerriere, bensì una congettura più plausibile in merito si annida nel nome di Ameza, una regina delle amazzoni di cui parlavano alcune storie circolanti nel Caucaso tra i circassi.
Infine, tra gli appunti vergati a mano (e, come prassi, riversati poi in un file di testo per godere dei benefici della ripetizione) ho segnato un passaggio inerente gli antichi abitanti dell’isola di Pasqua: rammentavo costoro tanto per le celebri statue ivi erette quanto per il film Rapa Nui (nome dell’isola nella lingua autoctona). A un certo punto pare che la comunità di quest’insediamento nell’Oceano Pacifico sia stata coinvolta da guerre intestine tra fazioni e, spinta dal bisogno di sanare i conflitti, abbia istituito delle competizioni sportive i cui vincitori facevano guadagnare ai rispettivi gruppi la guida della comunità per un anno.
Un’ulteriore e breve menzione è riservata all’importanza degli etruschi per il mondo romano, dal cui nome deriva Tirreno giacché gli storiografi greci si riferivano a loro come tyrrhenoi o tyrsenoi, termini le cui origini invece risultano ancora sconosciute.
Gli yogin del Ladakh e Odio, rabbia, violenza e narcisismo
Pubblicato martedì 16 Febbraio 2021 alle 20:30 da FrancescoLe mie ultime letture in ordine cronologico attengono ancora una volta alla saggistica, campo dal quale ormai fuoriesco di rado. Odio, rabbia, violenza e narcisismo è un testo brevissimo, non raggiunge neanche le cento pagine, però è molto denso ed è rivolto a chi abbia già un po’ di confidenza con le tematiche psicoanalitiche. Io non vi ho appreso nulla di nuovo, ma al suo interno ho trovato utile il breve riepilogo delle moderne teorie degli istinti e delle emozioni con l’accostamento allo storico approccio freudiano, tutto volto a particolareggiare gli sviluppi delle prime: interessanti ed esplicativi i casi clinici di esempio. Il tratto preminente di queste pagine a me è sembrato quello della relazione oggettuale, tanto come terreno d’indagine quanto strumento terapeutico a mezzo transfert. Ottima l’esposizione di Otto F. Kernberg. Ormai gli impianti teorici della disciplina mi sono noti da anni, perlomeno nei loro termini essenziali, perciò in futuro proverò a cercare delle opere che pongano maggiormente l’accento sui casi clinici.
L’altro testo in esame l’ho affrontato sul mio fido Kindle 4 (quasi dieci anni d’onorata carriera, con buona pace del consumismo sfrenato) e l’ho scelto per due ragioni: un interesse metafisico e la curiosità verso quei territori nei quali, almeno in parte, già Hopkirk mi aveva condotto tramite un paio di suoi saggi storici, ossia Diavoli stranieri sulla via della seta e Il grande gioco.
Gli yogin del Ladakh è al contempo un resoconto della dimora delle nevi dal punto di vista paesaggistico ed etnico, ma consta anche di molteplici disquisizioni su certe tecniche di meditazione e sul concetto stesso di Dharma, oltre alle divergenze dei vari indirizzi dottrinali, tra l’altro a opera di due uomini (James Low e James Crook) che già erano adusi a determinate pratiche e le cui esposizioni nel testo mi hanno trasmesso la loro esigenza di approfondire le rispettive vie.
Ho trovato un po’ complicato ricavare una visione d’insieme delle scuole e dei lignaggi, perciò la lettura di alcune parti l’ho integrata con delle ricerche sul web. Un passaggio del testo sembra giustificare la moltitudine delle varie tecniche in quanto afferma che esse sono espedienti per persone con diverse capacità e realizzazioni. A livello meramente semantico ho chiarito a me stesso vari termini, tra i quali i titoli di “rinpoche“, “lama” e “geshe“, mentre sotto il profilo storico ho scoperto la figura di Machig Labdron, di cui non sapevo nulla, e la severità di Marpa verso Milarepa che spinse più volte il secondo sull’orlo del suicidio; interessante anche l’aspetto aneddotico che riguarda i personaggi coevi delle peregrinazioni descritte, quindi a metà degli anni ottanta del secolo breve: squarci d’un vivere dove il tempo s’era arrestato da secoli. Una menzione va a Tenzin Palmo, la quale è citata di sfuggita perché nel suo nome s’imbattono Low e Crook mentre lei è in ritiro da anni in una caverna: si tratta di una donna inglese fattasi monaca (bhiksuni) che in seguito sarà costretta a lasciare l’Asia per problemi di visto e finirà in Italia, ad Assisi: quest’ultima circostanza l’ho appurata con una mia ricerca personale.
È un libro che oscilla tra il sacro e il profano, dove al primo è ascritta una ricerca spirituale e al secondo le prosaiche avversità di cui ogni viaggio incerto sa essere prodigo, ma a mio parere questa natura ibrida giova al ritmo dello scritto. Gradito e utile è anche il testo di Padma Karpo su cui gli autori si soffermano verso la fine dell’opera.
Archeologia della mente di Jaak Panksepp e Lucy Biven
Pubblicato lunedì 22 Giugno 2020 alle 22:53 da FrancescoIl ritorno alla saggistica l’ho compiuto con un corposo scritto di Jaak Panksepp e Lucy Biven intitolato Archeologia della mente: origini neuroevolutive delle emozioni umane. In me alberga da tempo immemore il naturale e vano bisogno di capire cosa muova gli esseri umani, quali siano le cause prime di sua maestà la coscienza e del cosiddetto libero arbitrio, perciò a intervalli più o meno regolari investo del tempo su letture che indaghino tali questioni dalle prospettive dei rispettivi campi. La visione di Panksepp poggia anzitutto sulla suddivisione delle regioni sottocorticali in sette sistemi affettivi: ricerca, paura, collera, desiderio sessuale, cura, panico e sofferenza (accomunati), gioco. In ragione di questa ripartizione l’accento è posto sui processi primari, ossia quelli della cui espressione dà conto l’attività neuronale di base che sorge dalle strutture cerebrali più antiche e profonde; i processi secondari invece ruotano attorno all’apprendimento e quindi alle interazioni del soggetto con l’ambiente. I processi terziari sono i più sofisticati della triade e secondo l’approccio del testo occupano una posizione di eccessivo rilievo nella comunità scientifica, quantomeno per ciò che concerne l’esatta localizzazione dei sentimenti emotivi. A sostegno delle proprie posizioni Panksepp espone una mappatura dei sistemi suddetti e ricorda al lettore che la coscienza affettiva è indipendente dal linguaggio come dimostrano pazienti afasici o colpiti da ictus, ma fa anche notare quanto si dimostrino emotivi quegli esseri umani e quegli animali ai quali manchi o venga rimossa la neocorteccia. Sono molteplici e doverose le digressioni sui ruoli dei vari neurotrasmettitori, anche e soprattutto per chi come me ha bisogno di un costante ripasso poiché non è un addetto ai lavori. Lungo queste cinquecento pagine ho scoperto con un po’ di sorpresa l’importanza del grigio periacqueduttale per quelle funzioni che io invece attribuivo primariamente all’amigdala e infatti in merito a quest’ultima il testo ne chiarisce l’esatta posizione gerarchica.L’esposizione di Panksepp non è risolutiva poiché nessuna trattazione di questo genere può esserlo, ma risulta molto interessante anche per un profano quale io sono ed è arricchita da alcuni drammatici aneddoti dello stesso Panksepp (la prematura morte della figlia in un incidente stradale e la sua neoplasia) che egli riesce a impiegare a favore della propria indagine. Nonostante ne fossi già edotto, ho riletto con piacere la spiegazione degli oppiacei endogeni poiché con l’attività fisica ne faccio esperienza da molti anni e ancor oggi non mi capacito della stoltezza con cui taluni ricerchino quegli stessi effetti tramite mezzi venefici. Altri due punti che ho apprezzato molto sono le cosiddette omologie sulla scorta di cui anche agli altri animali (in particolare al resto dei mammiferi) viene riconosciuta una vita affettiva, ma oltre a ciò pure la possibilità di rendere malleabili i ricordi a scopi terapeutici tramite quel processo che risponde al nome di riconsolidamento, e quest’ultimo punto a dispetto delle pregresse convinzioni che in passato andavano per la maggiore in tale ambito.
Il signore degli anelli di J. R. R. Tolkien in inglese
Pubblicato giovedì 16 Aprile 2020 alle 01:38 da FrancescoFinalmente, dopo vari mesi, ho concluso la lettura de Il signore degli anelli in inglese e così ho affinato ulteriormente la mia familiarità con la lingua della vecchia Albione, ma è stato un altro lo scopo principale che mi ha indotto a un simile investimento di tempo.
Non amo il fantasy né i romanzi, tuttavia in molteplici occasioni e in vari contesti mi sono trovato di fronte a citazioni più o meno dirette dell’opera di Tolkien, perciò avvertivo da tempo la necessità di colmare tale lacuna. Le oltre mille pagine di questo librone sono pervase da archetipi con la foggia di un preciso retaggio culturale e folcloristico, quindi veicolano un immaginario che affonda le sue radici nell’inconscio collettivo e ciò mi ha reso più gradevole l’esperienza. Sono contento che io mi sia avvicinato tardi a un testo del genere, difatti se vi avessi posato prima gli occhi ne avrei trascurato il ricco simbolismo e avrei rischiato di ridurne la portata a una semplice forma d’intrattenimento letterario.
Per me il dualismo de Il signore degli anelli non è dicotomico né manicheo, ma molto sfumato e ambiguo, perlomeno fino a quando i postumi del finale non fanno virare la narrazione verso un esito quasi idilliaco, intaccato soltanto da un lieve struggimento dei suoi protagonisti per l’allontanamento di uno di essi.
Ho incontrato delle difficoltà a tradurre certi passaggi a causa di arcaismi o di espressioni peculiari, quindi ho sovrapposto le faticose peripezie dei personaggi ai miei sforzi cognitivi e questa circostanza, in un modo piuttosto bizzarro, mi ha fatto immergere viepiù nella storia.
Purtroppo nel corso degli anni ho sviluppato una forte insofferenza verso la narrativa e quindi non ho intenzione di cimentarmi di nuovo in una lettura analoga, perlomeno non a breve, e difatti ho già compiuto un celere ritorno alla saggistica. Non leggo soltanto ciò che mi attrae e per questa ragione, talora, mi sciroppo cose di cui farei a meno, ma esse alla fine si rivelano utili e propedeutiche per allargare il raggio dei miei interessi: un male necessario, un atto dovuto, il tedio delle trivellazioni per la ricerca del petrolio o dell’acqua, insomma, qualcosa del genere.
Il grande gioco di Peter Hopkirk
Pubblicato mercoledì 25 Dicembre 2019 alle 15:21 da FrancescoPer me l’ultima lettura dell’anno è stata quella de “Il grande gioco”, un saggio storico di Peter Hopkirk sulle cui pagine ho approfondito la rivalità tra la Russia zarista e l’impero britannico nello scenario centroasiatico che ne è stato lo scacchiere dal diciannovesimo secolo fino agli albori del secolo breve.
Ho trovato il pregio di questa trattazione nel taglio quasi romanzesco di certi passaggi, ma d’altro canto, anche e soprattutto in forza della loro natura avvincente ed epica, non credo che certi eventi fossero passibili di un’esposizione molto diversa. Oltre alle nozioni storiche ho colto i profili caratteriali dei grandi e talora sventurati protagonisti di entrambe le parti, a riprova di come l’ambizione, la temerarietà, la codardia, l’idealismo, l’astuzia, l’arroganza, la paura, il freddo calcolo e molto altro innervino l’animo umano oggi come ieri.
Da letture simili e pregresse ho maturato la convinzione che la vera uguaglianza dei popoli si annidi nella reciproca tendenza alla sopraffazione sebbene l’ultima fase dell’età contemporanea, quantomeno a certe latitudini, ne abbia attenuato l’intensità e mutato la forme.
Ho ritrovato ne “Il grande gioco” alcuni luoghi dei quali Hopkirk già mi aveva reso edotto con maestria nelle stupende pagine di “Diavoli stranieri sulla Via della Seta”, primo fra tutti il deserto del Karakorum. È un peccato che questi angoli del mondo siano un po’ pericolosi per gli occidentali, paradossalmente più oggi che ai tempi in cui persino i cartografi ne sapevano poco, e spesso in ragione di cause analoghe a quelle descritte nel libro.
Piccoli e spietati sovrani di qualche khanato, burocrati, ufficiali eroici, propaganda russofoba e anglofoba, dissidi interni alla stessa fazione come nel caso della politica estera britannica con le sue oscillazioni tra laburisti e conservatori: insomma, una sequela di dinamiche e soggetti archetipici che la storia porta in seno da prima che diventasse tale con l’invenzione della scrittura.
Un’ultima nota la riservo all’attacco proditorio che i giapponesi sferrarono nel 1904 a Port Arthur e con cui diedero avvio alla guerra contro la Russia da cui poi uscirono vincitori. Quest’episodio è esposto nelle pagine finali dello scritto e quando l’ho appreso mi è venuto subito in mente lo stesso modus operandi dei nipponici a Pearl Harbor: un precedente che depone a sfavore di chi, vittima del complottismo e di un sentimento antiamericano, ha sempre creduto che gli Stati Uniti fossero a conoscenza del piano giapponese.
Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza
Pubblicato sabato 28 Settembre 2019 alle 10:36 da FrancescoUn po’ di tempo fa mi sono imbarcato nella lunga e impegnativa lettura de “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, ma alla fine sono stato ripagato dalle forte suggestione che porta con sé l’impianto speculativo di Julian Jaynes. Non posso rendere giustizia a oltre cinquecento pagine piuttosto dense e quindi mi limito a farne una modestissima cernita, del tutto arbitraria e lacunosa, ma a mio esclusivo uso e consumo.
La premessa risiede nella considerazione della coscienza quale tardo prodotto del genere umano in virtù di una sua assenza negli aspetti culturali della specie fino a qualche millennio fa. Gli argomenti di questo primo sostegno mi convincono perché si stagliano sull’adozione della scrittura, momento nel quale s’indebolisce la tradizione orale e si avvia il progressivo esautoramento delle voci allucinatorie, ossia quell’autorità primeva che Jaynes attribuisce alla cosiddetta mente bicamerale e di cui, nella seconda metà del libro, suggerisce di ricercare le vestigia nella moderna schizofrenia che egli reputa un fenomeno residuale di quella forma mentis. A tale proposito reputo interessanti le correlazioni neurologiche a cui Jaynes si risolve per non limitare l’ipotesi a un quadro prettamente storico o etologico, perciò ne consegue un certo interesse per l’emisfero destro e per come quest’ultimo, nella mente bicamerale e nei casi di schizofrenia, sopravanzi nelle esternazioni quello sinistro che di norma è deputato al linguaggio.
I tentativi di definire la coscienza sono altrettanto ragguardevoli e nella prime pagine sono messi in rilievo con quella che a me ricorda la tecnica per via di levare di michelangiolesca memoria: la coscienza non è il deposito di concetti e di norma neanche se ne serve, non è necessaria all’apprendimento e talora può persino ostacolarlo, non serve alla ragione ancorché talvolta le due siano sovrapposte o considerate un tutt’uno; in ragione di tali punti è lecito supporre che sia esistita una razza di uomini la cui esistenza prescindeva dalla coscienza.
Secondo Jaynes ai tempi della mente bicamerale non esistevano incertezze e di conseguenza non sussistevano i presupposti per fenomeni come la preghiera; le teocrazie di cui fungeva da stampo erano soggette a una periodicità intrinseca di ascesa, caduta e ritorno, essa inoltre verteva sull’udito più che sulla vista (con la sollecitazione delle relative aree corticali), quindi l’avvento della scrittura confinò la parola del dio in una forma controllabile e le sottrasse il potere ubiquitario che imponeva un’obbedienza immediata dovuta alle allucinazioni uditive, le cosiddette “voci” tipiche anche della schizofrenia. In ultima analisi Jaynes interpreta (in termini generali, come egli precisa) la nascita della coscienza come il passaggio da una mente uditiva a una mente visiva.
Nonostante si tratti d’un testo un po’ datato (risale alla metà degli anni settanta) mi sorprende come prenda in considerazione una questione che da alcuni anni a questa parte avvince un certo pubblico (con Sitchin in primis e Biglino in seconda battuta), ossia quella degli elohim (termine ebraico sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro) a cui la teoria della mente bicamerale accorda il ruolo di visioni e voci, quindi risulta de tutto aliena (l’ironia è voluta) dalle ipotesi dei cosiddetti antichi astronauti o da qualsivoglia connotazione extraterrestre; corollario di tutto ciò è la maniera in cui Jaynes si approccia all’Antico Testamento nel quale egli vede essenzialmente un documento della perdita della mente bicamerale.
Un altro punto d’interesse per me è costituito dai connotati che la coscienza assume in tale contesto: essa spazializza il tempo trasformando la diacronia in sincronia e induce a vedere gli accadimenti in una giustapposizione spaziale. Ha qualcosa di potenzialmente copernicano quanto scaturisce da una tale prospettiva perché in essa, ad esempio, il senso della giustizia dipende dal senso del tempo e dalla successione spaziale così com’è posta in essere dalla coscienza.
Gli spunti sono innumerevoli e innumerevoli sono i passaggi da appuntare, difatti sulla mia copia grava il peso di molti adesivi e abbondano le parentesi quadre di cui la mia matita è prodiga, ma altrettanto copiosi sono i possibili sviluppi e le conseguenze da trarre.
Mi chiedo se Jaynes ammetta la possibilità di un’essenza metafisica nell’essere umano o se la sua concezione della coscienza costituisca per lui una pietra tombale su qualunque idea di questo genere, nondimeno parti delle sue tesi mi sembrano plausibili, in particolare quella sullo sviluppo del senso del sacro, altre invece le recepisco tanto avvincenti quanto azzardate.
Non già la coscienza in quanto tale, ma il suo concetto è un qualcosa di cui i possessori possono essere molto gelosi poiché definisce la loro individualità, di conseguenza mi domando se la lettura di un testo simile non possa essere inficiata da un cotale pregiudizio il quale, com’è possibile e probabile, rischia di aggiungersi alle eventuali inattendibilità e fallacie di certe supposizioni ivi presenti.