Mi sembra che siano passati secoli da quando L. ha varcato la soglia del mio passato. Mi manca il suo estro materialista e la sua zeta blesa. Non ho intenzione di portare il ricordo di L. dall’altra parte del mondo, perciò ho tracciato per l’ultima volta la sua iniziale su un foglio bianco per celebrare la sua immagine, che ricorda il tocco di Alessandro di Antiochia, e la sua essenza, che nel mondo delle idee veste sempre Saint Laurent. Non mi fisso sui fallimenti e se spendo ancora qualche parola su L. significa che non la ritengo l’emblema di una disfatta, ma credo che lei sia la polena di un trionfo simbiotico che è rimasto incompiuto come altre meraviglie dell’umanità.
Conobbi L. per caso e all’inizio non ne fui molto entusiasta, ma alla fine riuscii a mettere a fuoco la sua figura e mi accorsi con stupore che era una silfide incantevole. Parlammo a lungo e visitammo le nostre memorie tra una fase lunare e l’altra. I ruoli si erano invertiti e ogni volta che dialogavamo sembrava che le nostre voci intonassero un vaticinio radioso. Scoprimmo che nelle nostre vite ricorrevano delle date identiche e pensai che la numerologia avesse deciso di darci la sua benedizione. L. iniziò a presentarmi il suo microcosmo lascivo e io rimasi ammaliato dal modo in cui lo introduceva nei nostri discorsi eterogenei. In un primo momento credetti che L. fosse una puttana, ma poi capii che era libera (e non semplicemente libertina) e scevra dalla stupidità vereconda della pudicizia. Un giorno percorremmo assieme le arterie del Rinascimento e snodammo i nostri colli sotto i soffitti gigliati. Un’atmosfera rarefatta s’impadronì dello spazio vuoto che si allargava e si restringeva incessantemente tra la mia spalla destra e la sua spalla sinistra. Proseguimmo il nostro vagabondaggio simbiotico per un po’ prima di rientrare nei nostri alveari. Successivamente continuammo a scambiare frasi e intonazioni, rumori gutturali e onomatopee curiose. Una mattina un errore ciclopico mi sequestrò e mi fece trasportare da Caronte sulle sponde di un momento sbagliato. Mi ritrovai nel santuario di L. e ingiuriai lei e le sue vestali prima di dileguarmi nelle ombre. Nella stessa tenebra ritrovai il volto di L. e la severità del suo sguardo mi trafisse da parte a parte: in quel momento pensai che un drammaturgo stesse per scrivere con il mio sangue il finale del suo componimento. L. tornò nel suo regno e il senso di colpa mi riaccompagnò nella mia necropoli.
Un omaggio al grimpeur di Cesenatico
Pubblicato giovedì 26 Luglio 2007 alle 14:47 da FrancescoNel 1998 il Giro d’Italia passò anche per Orbetello e fu un momento abbastanza emozionante. In quell’anno Marco Pantani conquistò la maglia rosa e io mi esaltai di fronte alle sue imprese. Ricordo che negli anni seguenti, in occasione del Giro d’Italia e del Tour de France, trascorsi molti pomeriggi di fronte a Rai Tre per ammirare le fatiche disumane dei ciclisti e forse da quelle immagini estenuanti iniziò a svilupparsi in me la passione per gli sforzi salutari. Per un po’ di tempo tentai di emulare le imprese degli scalatori con quella tenera ingenuità che appartiene ai ragazzini solitari e cominciai ad affrontare qualche salita, ma non ero un Miguel Indurain in erba e invece dello Zoncolan o dell’Alpe d’Huez avevo di fronte le pendenze del Monte Argentario. Dopo un paio d’anni il mio interesse per le due ruote scemò, ma si riaccese in occasione della morte di Marco Pantani e crebbe al di là dello sport. Oggi continuo a coltivare il piacere della pedalata e ogni volta che ne ho la forza mi allontano il più possibile dal punto di partenza, qualunque esso sia. Non sono un ciclista mancato, ho un passo ridicolo e poca predisposizione all’agonismo, ma riesco ad affrontare ogni salita e quando torno a casa dopo qualche ora passata in sella mi sento appagato. Appunto su queste pagine virtuali un video molto emozionante che celebra le gesta di Marco Pantani perché ogni tanto penso alle sue imprese quando i miei polpacci sono prossimi allo stiramento e le ginocchia mi dolgono. Negli ultimi giorni sono comparse nuove ombre sul ciclismo, ma in questa disciplina c’è sempre un raggio che trafigge la cupidigia per il podio e si tratta della sfida con se stessi che si risolve nel classico parallelismo tra sport e vita.
Salgo un’altra volta sul patibolo per pagare le mie colpe. Non ho bisogno che il boia mi aiuti e mentre quell’uomo incappucciato continua a guardare la televisione io mi preparo educatamente a subire l’ennesima condanna a morte. Non mi interessa se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto dato che alla fine brindo sempre con l’arsenico. Quando sbaglio mi metto il cuore in pace e porto in spalla tutte le conseguenze senza fiatare contro il fato. I miei errori sono prodotti artigianalmente e ogni colpa appartiene soltanto alle mie decisioni. Sono l’unico azionista dei miei fallimenti e finanzio ogni disastro con capitali d’inconsapevolezza. Memorie senza vita vengono a farmi visita durante le ore piccole delle notti grandi e mi calpestano a turno fino a quando non riesco a fuggire nel sonno. Ho un chiodo piantato nel cranio per ogni anno della mia vita, ma sono ancora in piedi e la mia voglia di stare al mondo è sempre la stessa. Non demordo anche se il tempo passa e le possibilità si riducono. Sposto a fatica tutti i macigni emotivi che rallentano la mia marcia verso l’ignoto, ma ho la pazienza e la forza per continuare ad andare avanti nonostante tutti gli impedimenti. Le parole non mi arrestano e non ci riescono nemmeno le schiere di delusioni che evoco involontariamente nei momenti meno opportuni. Non voglio che qualcuno mi sostenga perché certe cose le posso risolvere unicamente da solo. Faccio i conti con me stesso e so che non mi conviene ingannarmi. Ho troppa esperienza per farmi distruggere dalle sconfitte, ma non ne ho ancora abbastanza per evitarle. Un giorno diventerò la somma delle mie correzioni e sarò pronto a proteggere ciò che la mia condotta mi ha negato fino a questo momento, ma se non dovessi farcela accetterò l’insuccesso senza protestare e comprerò un appezzamento di terra per coltivare il senso delle mie rughe.
Ieri ho deciso improvvisamente di recarmi dove spira il garbino. Ho iniziato il mio viaggio estemporaneo alle quattordici di venerdì e l’ho concluso un paio di ore fa. Ho percorso poco più di mille chilometri, ho cambiato sei treni e ho camminato lungo decine di strade per prendere in consegna una certezza amara. Mi sono sentito un po’ come Jack Kerouac e in parte ne sono stato felice. Mi calzano ancora a pennello i vestiti sudati del viaggiatore solitario. In ventiquattrore ho trafitto due volte l’Italia e ho trovato persino il tempo di sviscerare a piedi Rimini e le zone limitrofe. Ho camminato tutta la notte attraverso la cittadina adriatica e in mezzo alle sue frazioni. All’andata mi sono fermato a Pisa, Firenze e Bologna, mentre al ritorno ho affidato la mia stanchezza a un Eurostar e dopo cinque ore, fresco come un rosa abbandonata nel Kalahari, mi sono ritrovato a Roma. Ho vagato per centoventi minuti nel ventre di Termini e prima di lasciare la capitale mi sono assicurato che il mio treno, sporco e rovente, non fosse diretto ad Auschwitz. Questa viaggio è stato tanto intenso quanto rapido e solo un tachimetro impazzito avrebbe potuto indicare la velocità del mio delirio, un po’ ferroviario e un po’ podistico. Ho portato a casa una cassa di pensieri malinconici come souvenir e l’ho già messa accanto alle altre. Ogni volta che viaggio mi entra in circolo un cocktail di nostalgia, mestizia, solitudine e risentimento, ma nonostante ciò che solitamente inquina il mio stato d’animo riesco sempre ad apprezzare i luoghi in cui capito e le parole che scambio brevemente con le persone che incrocio. Ogni tanto mi sento un uomo giusto nel posto sbagliato, ma in realtà non ho i meriti che le mie sensazioni mi attribuiscono e le fitte al petto me lo confermano ogni volta che passo di fronte allo specchio della mia affettività. Prima di eclissarmi, durante l’alba, ho visto di nuovo il tramonto di cinque lettere, e non è stato affatto piacevole. Non ho più nulla da vedere a ponente e aspetto che sorga qualcosa a levante in seno alla passione eremitica dei miei passi. Ad maiora.
Sono caduto da una chimera in movimento e mi sono spezzato le ali. Una barchetta di carta trasporta un messaggio di addio sulla mia pozza di sangue mentre un’utopia solare mi ustiona le membra. I miei resti sono alla mercé delle avversità onnivore, ma la mia interiorità è ancora intatta come l’innocenza di chi è stato condannato a morte per sbaglio. Il fatalismo è una scusa e per esigenze sceniche non posso essere la vittima di qualcosa che non esiste. Il mio destino non è appuntato sopra una pergamena che giace nelle mani di un demiurgo. Se esistesse un dio il suo analfabetismo gli impedirebbe di scrivere il destino dei mortali. In questo momento sono un cumulo di brandelli, ma il mio benessere immanente, che non si appoggia a nulla di trascendentale, emana ugualmente un po’ di luce. Mi concedo frasi tautologiche per sottolineare con forza le mie condizioni. Gli errori cadono nell’oblio, ma i loro effetti resistono alla dimenticanza e attraversano un tunnel dopo l’altro fino a quando l’autolesionismo ne riempie i serbatoi. Le fratture della coscienza sono provocate dai movimenti tellurici dell’esistenza ed è normale che le vecchie convinzioni cadano nelle nuove voragini. In certe stagioni il cuore si disidrata, le lacrime sanguinano e ogni smorfia di piacere si ritrae dal volto, ma chi è lungimirante riesce a vedere un nuovo archè oltre questa parvenza funerea e di conseguenza può comprendere lo scarso valore di qualsiasi espediente apotropaico.
Ho eliminato le macchie di mestizia che nei giorni scorsi hanno imbrattato la mia esistenza. Dopo un breve stallo il mio stato d’animo ha ripreso il suo assetto consueto. Non ho impiegato molto tempo per superare l’ennesima delusione che mi ha sfidato in una gara clandestina lungo il solito tracciato di amarezze. Ormai sono un veterano delle corse nelle quali il vincitore ottiene solo la sopravvivenza del proprio equilibrio e sono lieto di salire per l’ennesima volta sopra una cassetta di verdura che funge da gradino più alto del podio. Ho imparato a non temere gli eventi destabilizzanti perché anche loro sono vittime del tempo e mi sono reso conto che le dimensioni del loro potere distruttivo spesso vengono ipertrofizzate dalla fantasia umana. Nella prima parte della mia giovane esistenza ho trascorso intere notti a contemplare le evenienze più tragiche della vita e grazie a questo lavoro introspettivo sono riuscito a rafforzare il mio carattere senza indurirlo. La mia esperienza, a dispetto della sua età, riesce a proteggermi da una vasta gamma di turbamenti e mi aiuta a salvaguardare le tonalità chiare del mio stato emotivo. Non sono un pischello virile e la mia verginità lo attesta inconfutabilmente, ma godo immensamente della fortuna che mi accompagna dal giorno in cui sono nato e non bado a chi la considera poco appariscente. Non ho una tabella di marcia da rispettare, non sono un camionista che trasporta ambizioni e non lascio che la parvenza della felicità saboti il mio sistema nervoso. Mi piace stare accanto alla realtà, amo ogni suo aspetto, e quando qualche convinzione fallace si acchita e la imita allora cerco di ricordare che lei non si trucca mai. Vivo tranquillamente mentre l’autunno è in vacanza e qualcuno si augura che egli muoia in un attentato di matrice islamica. Non ho un sogno di una notte di mezza estate, ma ho una collezione di giorni sereni che è in continua espansione. Credo che le chimere e le escursioni oniriche siano dei giochi stimolanti per la mente, ma penso che la prova empirica del mio stato di grazia sia impagabile.
L’analisi delle mie relazioni platoniche
Pubblicato sabato 7 Luglio 2007 alle 11:19 da FrancescoOgni tanto conosco una ragazza per caso e puntualmente incomincio a dialogare intensamente con lei. Per me l’aspetto fisico è fondamentale, ma prima di valutarlo con attenzione mi interesso precipuamente al carattere della persona con cui mi relaziono. Amo parlare e conoscere ogni cosa della mia interlocutrice. Per me il dialogo è fondamentale e ritengo che sia l’unico strumento di precisione che possa aiutarmi a capire cosa provo per l’altra persona. Mi piacciono le chiacchierate senza inibizioni, le passeggiate interminabili e le telefonate notturne. Finora ogni mia relazione platonica ha seguito lo stesso iter e ho deciso di illustrarlo con l’aiuto di qualche immagine didattica per guadagnarmi con centodieci e lode il titolo di sfigato.
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Conosco una ragazza casualmente e lei prende l’iniziativa dato che io sono il figlio di due lesbiche che si chiamano “diffidenza” e “timidezza”. Dopo una presentazione disinibita ci scambiamo i numeri di telefono e qualche giorno dopo ci sentiamo sotto l’egida di Telecom Italia (o di chi per lei).
Nelle settimane seguenti lei mi osanna e io faccio altrettanto, ma il suo entusiasmo mi incute un po’ di timore e forse questo è il presagio funesto che ricorre più spesso nelle mie relazioni platoniche. In questo arco di tempo in cui ci lodiamo a vicenda sembra che lei abbia trovato in me l’uomo della sua vita, ma la nostra relazione embrionale è destinata a scadere entro trenta giorni come la più economica busta di latte a lunga conservazione.
Lei continua a dirmi che mi desidera e tra battute, confessioni, ricordi e splendide discussioni senza inibizioni d’un tratto mi dice che recentemente ha incontrato altri ragazzi, ha limonato con loro e si è fatta persino scopare da certi uomini senza nome, però mi assicura che in nessuna gang bang a cui ha partecipato ha messo i suoi sentimenti. Lei ama me, ma si fa fottere dagli altri: sembra una legge della fisica. Insomma, è chiaro che dopo un po’ annoio colei che si rapporta a me ed è inevitabile che costei cerchi un po’ di sesso mercenario. D’altronde non posso chiedere a una ragazza di rinunciare ai piaceri della carne per un mese per conoscerla meglio: non sia mai! Comunque dato che non è la mia fidanzata non posso fare altro che prendere atto della situazione e allontanarmi dalle sue grazie.
Così si è svolta ogni mia relazione platonica. Le ragazze si stufano presto di me, ma pare che io riesca ugualmente ad avere un certo ascendente su di loro, infatti vogliono parlarmi e desiderarmi quando non sono occupate a svuotare le palle dei maschi maggiorenni della loro provincia. Forse dovrei aprire una linea telefonica per supportare psicologicamente le ninfomani e in questo modo avrei un lavoro e almeno riuscirei a fare contenta una donna: mia madre. Non ho mai dato un bacio, non ho mai dato un abbraccio, ma ho rimediato alle mancanze comunicative di certe ragazze espansive e non ho chiesto nulla in cambio. Cazzo, vado a vedere se qualche emittente trasmette ancora le puntate di “Happy Days”.
È successo di nuovo. Ho appoggiato alcune speranze sopra il diadema con cui ho incoronato per un mese esatto la personalità di una fanciulla promettente, ma quando mi sono girato per ammirarle non le ho più trovate. La storia è sempre la stessa. Una povera infelice mi conosce per caso e pensa che io sia la panacea per tutti i suoi mali, ma non sono un supereroe e non posso salvare nessuno da se stesso. Non l’ho mai toccata, non l’ho mai baciata, ma ho parlato e ho passeggiato a lungo con lei. La nostra separazione pesa un grammo di cocaina. Lei ha barattato il mio cuore per una sniffata e per una scopata occasionale con un cocainomane, ma devo riconoscerle il merito di non avermi mentito e per questo motivo la stimo. Non sono incazzato con lei e rispetto le sue scelte anche se non le condivido, ma mi costa parecchio cancellarla dalla mia vita. Non sono il tipo di persona che costruisce amicizie colme di ipocrisia sulle ceneri di passioni che non hanno mai avuto un inizio. In questi anni mi sono lasciato alle spalle molte persone e ogni addio ha contribuito alla mia crescita interiore. Il mondo è stupendo perché offre sempre una possibilità e non sarà certo un altro fallimento a mutare faziosamente la mia visione delle cose. L’amore esiste, non è solo un’idea romantica perché è tangibile come la porta che ho preso a pugni prima di iniziare a scrivere, ma non è detto che tutti riescano a toccarlo con mano e io sono tra coloro che ancora non ci sono riusciti. Sono giovane e forte, ho ancora molto tempo a mia disposizione e non mi spaventa l’idea di restare solo perché è la mia capacità di abbracciare la solitudine che mi conferisce la forza di non scendere a compromessi con i sentimenti. Tutte le delusioni che ho collezionato non sono semplici attimi di sconforto, ma sono attestati indelebili che confermano la mia devozione alla realtà anche quando è scomoda e provoca dolore. Il tempo che passa non riesce a scoraggiarmi perché ho me stesso dalla mia parte, ma nel contempo sono pronto a esplodere in frammenti d’amore senza la paura di non ricompormi. Sono lontano dai vizi capitali, sono lontano da ogni tipo di fede e stringo a me solo quello che è reale. Fuori c’è il sole, il cielo è limpido e questi dettagli banali dimostrano che la giornata di oggi è stupenda. Forse non scriverò per qualche giorno per sgomberare la mente.
Nel giro di un anno ho perso molta acredine inutile e ne sono estremamente contento. Anche nelle parti iniziali di queste pagine virtuali ho lasciato impronte di curaro che mettono in mostra la pochezza e la ridicolaggine che hanno accompagnato per parecchio tempo i miei pensieri. Ho imparato a usare meglio le mie forze e ho ridotto notevolmente la quota energetica destinata agli attimi di sconforto. Al momento la mia mente è oppressa da un insuccesso che non è imputabile a nessuno, perciò in questi giorni evito di riflettere troppo a lungo e mi dedico all’attività fisica. Alzo pesi, compio flessioni ed eseguo esercizi addominali per affaticarmi e per occupare con il riposo una grande fetta del mio tempo. È un exploit un po’ spartano, ma funziona egregiamente e sono contento che il mio corpo sia in grado di sfruttarlo a dovere in attesa che la mia mente guarisca. Nei momenti negativi rivendico la mia individualità e attivo un moto di orgoglio che annulla la spinta dello scoraggiamento. Al posto dell’autostima ho un reattore nucleare che non accendo mai in tempo di pace per evitare di sconfinare nella boria. Mi tengo lontano dalla dorsale del masochismo, ma riconosco un certo fascino all’uso della sofferenza come strumento per migliorare il proprio assetto psicofisico. Tendo i muscoli quando il tono della vita si flette ed evito che la mia personalità si inflaccidisca. Riesco a mantenere un’espressione sprezzante anche quando il mio stato di benessere scompare per un po’ e questa è l’unica prova che mi occorre per confermare la forza del mio carattere.