Il cuore della notte smette di battere e la coscienza si spoglia di ogni giustificazione. La propria identità si rivela chiaramente accanto a una luce fioca o nell’uniformità del buio. Qualsiasi stratagemma consolatorio cade e gli occhi sono costretti a vedere tutte le cose davanti alle quali si sono sottratti in un primo tempo. Il sapore delle proprie decisioni cambia radicalmente e ogni sofisma perde i suoi effetti ansiolitici. Il responsabile di se stesso nota su ogni atomo il riflesso delle motivazioni reali che lo hanno portato a compiere determinate scelte. Ogni scusa artificiosa volge le spalle al suo creatore e non proferisce parola. Bastano otto ore di sonno per tornare a credere fermamente nelle proprie menzogne, ma nulla può cancellare le confessioni silenziose della personalità. La realtà individuale viene alterata al di sopra del bene o al di sotto del male in modo che diventi sopportabile per il suo proprietario, ma questa contraffazione morale può essere evitata e qualora il coraggio abbondi lo si può usare come propellente per spingersi nella ricerca spasmodica di un brandello di oggettività. Non è semplice proiettarsi verso qualcosa che non offre una ricompensa e la sofferenza di questo processo sembra tanto insensata quanto intollerabile, ma credo che la possibilità di addolorarsi o di adorare autenticamente sia una delle più grandi conquiste interiori a cui l’essere umano possa ambire. Le religioni e le ideologie sono le caricature delle loro promesse, ma non bado a chi mette le carote davanti agli asini e procedo sulla linea del tempo senza frapporre tra me e la mia fine delle utopie antropomorfiche.
La trappola della tranquillità apparente
Pubblicato mercoledì 19 Settembre 2007 alle 15:08 da FrancescoTrovo che sia inquietante il modo in cui il microcosmo di un individuo possa stravolgere la percezione di ciò che lo circonda. Un osservatore esterno può notare quanto siano radicate le convinzioni di un suo simile e può constatare quanto tali convinzioni siano in grado di ridurre pericolosamente la realtà a un elemento accessorio. Le idee talvolta si inerpicano più di quanto dovrebbero per coprire i vuoti lasciati dalle mancanze emotive e creano una vegetazione così fitta attraverso cui la percezione di ogni accadimento riesce a filtrare solo parzialmente. Ritengo che sia inquietante l’attenzione morbosa che taluni riservano agli interessi che sono in grado di deviare il loro pensiero dalla contemplazione delle mancanze affettive. Oltre a questo atteggiamento di difesa penso che si possa scorgere un comportamento antitetico e credo che quest’ultimo mi riguardi. Qualcuno tenta di nascondere le reali condizioni della sua esistenza e qualcun altro, come me, insiste tenacemente sull’analisi e la descrizione della propria vita alla luce del sole. Trovo che entrambi i casi non portino risultati soddisfacenti, ma credo che il secondo presenti qualche spiraglio in più del primo a patto che non si atrofizzi con la speculazione intellettuale della propria condizione. Presumo che questo processo si possa realizzare solo attraverso un’autocritica e un’analisi di sé tanto ferree quanto sincere e ritengo che solo il diretto interessato possa esserne artefice; escludo a priori la validità di qualsiasi intervento esterno e lo connoto come un semplice atto di vanità di qualche aspirante samaritano. Suppongo che la modificazione degli attributi della propria vita possa avvenire solo empiricamente e immagino che la riflessione sia in grado unicamente di affinare gli strumenti con i quali agire concretamente su se stessi. Nel cambiamento d’essere credo che il tempismo giochi un ruolo fondamentale: ogni mossa a tempo debito.
Trascorsi l’infanzia a osservare le condotte degli adulti e con l’orecchio captai le prime dissonanze sulle quali cominciai a riflettere tra i succhi di frutta e le pubblicità della Mattel. Imparai l’ambiguità dei triangoli prima che mi venissero impartite lezioni di geometria e fu grazie alla mia curiosità che scoprii i tre vertici di una trasgressione banale: un padre, sua moglie e un’amica di quest’ultima. Osservai i vizi capitali di alcune damigelle e provai una forte repulsione verso le loro abitudini malsane. Iniziai a studiare il malessere di coloro che avevano preceduto la mia nascita e ne feci tesoro per gli anni seguenti. Quando appresi le aberrazioni comuni delle persone normali diventai schivo e sfiorai la misantropia più volte prima di assumere il controllo di me stesso. La mia inesperienza disseminò paure ridicole dinanzi al mio cammino e io persi tempo di fronte alle loro ombre burlesche. Cercai un’identità tra gli stereotipi, ma non riuscii a indossarne nemmeno una e mi avvicinai al vuoto per la sua mancanza di attributi: lo reputai un ottimo punto di partenza e non me ne pentii. Sfuggii dall’avvento dell’edonismo nocivo ed evitai di finire in un suo gulag. Mi rifugiai nel silenzio e rimasi nel mio eremo fino a quando le tendenze all’autodistruzione non abbandonarono i confini delle mie regioni encefaliche. Nel corso dell’assedio emotivo studiai alcune mappe frammentarie per ripiegare verso la mia evoluzione e quando le ostilità cessarono io iniziai a seguire la linee oblunghe che avevo tracciato con un compasso temporale sul piano dello spazio.
Prima o poi V. mi telefonerà di nuovo nonostante le abbia chiesto di non farlo più e quella notte, per la prima volta, la insulterò pesantemente. Ogni mio addio nonostante le incertezze iniziali deve durare tutta la vita come un mutuo inestinguibile. Quando conobbi V. le dissi subito: “Noi non potremo mai essere amici, ricordatelo”. Per me non è stato facile allontanarmi da V. ma non avevo altra scelta. V. non è una stupida e possiede un cervello funzionante. Un anno fa durante una sua telefonata inaspettata mi disse: “Sai, forse sapevo dall’inizio come sarebbero andate le cose”. Anch’io lo sapevo ed è per questo motivo che ne ho cercato la conferma prima di accettare la realtà. Mi è rimasta impressa una cosa che V. mi ha detto circa un mese fa nel corso della nostra ultima conversazione: “Tu hai conosciuto la mia parte migliore e non capisco perché tu veda in me qualcosa di buono, io non mi sento così”. Ho buttato molti nomi nella foiba del passato e ogni tanto mi chiedo se sia stato giusto. Non voglio rapporti annacquati e preferisco prolungare gli insegnamenti della solitudine piuttosto che arenarmi sull’ipocrisia di un sentimento modificato artificialmente. V. è scomparsa dalla mia esistenza per sempre nonostante il suo nome appaia ogni tanto tra queste pagine di cui lei non conosce l’esistenza. Penso che la forza del proprio carattere stia anche nell’accettare la morte di qualcuno che è ancora in vita per non scendere a compromessi con i propri sentimenti. Non è semplice lasciarsi le persone alle spalle, ma forse è l’unico modo per valorizzare chi rimane al proprio fianco e finora solo la mia volontà mi è restata vicina, perciò lode a lei e alla sua devozione.
Nei prossimi giorni riprenderò ad allenarmi fisicamente per aumentare ulteriormente la mia muscolatura al fine di completare l’opera corporea che ho incominciato due anni fa. A breve la signora a cui appartiene la vagina dalla quale sono uscito mi donerà un’auto usata con il cambio automatico, perciò in futuro mi metterò alla guida per seguire qualche strada che porta da qualche parte. Integrerò le mie escursioni su due ruote con l’aumento dell’allenamento pesistico e ammanterò il mio ozio con una valenza ricostituente. Mi prenderò qualche altro giorno per riprendermi completamente dal jet lag e poi mi immergerò nuovamente nell’incanto salutare dei miei itinerari ciclistici. Terrò a mente quanto mi ha detto il luminare statunitense che ho incontrato due giorni fa a Seoul: “Ciò che puoi ottenere dalla tua vita dipende dall’interazione dei tuoi emisferi”. Transiterò nel mio tempo e affinerò il mio modo di viverlo: lo farò per obblighi biologici, per curiosità prenatale e per un sentimento di profondo affetto nei confronti dell’esistenza. Quando il mio entusiasmo si assopirà io lo lascerò riposare con indulgenza materna. Nuovi fallimenti bruceranno nella mia atmosfera, perciò non riusciranno a provocare crateri sulla mia interiorità.
Non lascio che l’aspetto minaccioso della vita mi inganni e non sono disposto a deporre il mio respiro. Rivendico ancora una volta il mio cazzo di diritto a vivere. Prendo sempre la sofferenza di petto anche se mi faccio male e ogni volta corro il rischio di cadere in un baratro senza fine. La mia forza di volontà è così grande che sfugge al mio controllo. Non ho speranze a cui aggrapparmi né voci amiche da ascoltare, ma combatto da solo sulle alture della realtà perché non amo i rifugi onirici. I miei fallimenti vogliono farmi diventare un cinico e un pezzo di merda, ma non ci riescono perché conosco i loro trucchi. I miei sentimenti sono immacolati e splendono ancora come il giorno in cui li ho ricevuti in dono dalla mia ragione. Qualsiasi dolore che provo non fa che ingigantire la mia capacità di amare e mi stimola ad andare avanti. Quando supero un brutto momento mi faccio una tacca sull’anima e dopo un pianto catartico ci verso qualche lacrima notturna per impregnarla di valore emotivo. Le proposte di un paradiso futuro le brucio nell’indifferenza e rinnego ogni dottrina che vuole strapparmi comodamente dalla lotta contro il malessere. So di cosa ho bisogno e so anche che non mi spetta di diritto, ma non ci rinuncio e continuo la mia corsa contro il tempo. Ho sopportato anni di isolamento, ho ascoltato i rifiuti delle regine, sono stato rinnegato e dimenticato, ma la cosa peggiore che mi sia successa è stata la compassione saltuaria che ho provato per me stesso. Ho superato momenti di parossismo indicibile senza l’ausilio di nulla e nessuno. La mia schiena è ancora intatta nonostante le delusioni abbiano tentato di frantumarla. Vaffanculo, io sono vivo perché sono in grado di amare.
Quando sono molto abbattuto guardo questo vecchio video di Gary Moore e mi sento un po’ meglio. Penso che nessuno abbia mai espresso tanto chiaramente e semplicemente cosa si prova nelle stanze vuote dove si impara a vivere senza amore. In questo pezzo trasuda una sensibilità maestosa e sincera. È incredibile come nove parole riescano a spiegare una delle sensazioni più lancinanti dell’animo.
Quanto è vero?
“You hope that she will change her mind
But the days drift on and on
You’ll never know the reason why she’s gone”.
È verissimo.
Mi osservi di nascosto perché l’orgoglio non può sporgersi più di tanto. Le parole che non ci doniamo a vicenda restano appese al silenzio. Nessuno di noi compie il primo passo perché entrambi crediamo che possa essere l’ultimo e attendiamo vigliaccamente che il tempo calmi le acque per affogare nell’indifferenza. Siamo muti e distanti, ma in realtà vorremmo leggere il nostro labiale a occhi chiusi. I nostri pensieri viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda e non abbiamo potere su di loro né sulle loro evoluzioni acrobatiche. Fingiamo che il nostro regno sia un castello di carte, ma in realtà non è mai apparso nulla di più adamantino delle nostre incertezze simbiotiche. Un triangolo con un punto interrogativo per ogni vertice rappresenta la perfezione della nostra stupidità. Non vogliamo che la somma dei nostri giorni giaccia nel nulla, ma non muoviamo un dito per accarezzare il pensiero di tornare in auge. L’entusiasmo è evaso e il risentimento ci ha preso in ostaggio. Siamo le parti mancanti di un problema reciproco, ma non riusciamo a capirlo e ci ostiniamo a patire. Ingrandiamo le nostre delusioni perché sono l’ultimo ostacolo che si frappone tra noi e qualcosa che non ha nome né forma. Abbiamo ascoltato la cattiva consulenza dell’impulsività e abbiamo rifiutato un processo equo. Un errore ci ha giustiziato e poi è scomparso insieme alla causa della nostra morte. Cucirò un monogramma sulla mia aorta se torneremo a vivere e sarà una elle: la elle di Lazzaro.
Non c’è nessuno dietro le mie spalle né davanti ai miei occhi. Mi sento libero in un mondo senza tempo. Ogni cosa assume un’altra tonalità quando la solitudine mi mostra il suo lato romantico. Non temo l’ignoto che si staglia sopra miei giorni e non ho bisogno di risposte che mi consolino. Non cerco conferme e non mi servono certezze quadrate da appendere sulle pareti del futuro. Ho una matita per disegnare sorrisi sui volti delle persone e spero di imparare a usarla prima o poi. Accetto i miei limiti con lo stesso amore con cui una madre accetta un figlio Down, ma quotidianamente mi propongo di superarli per evitare che lo sconforto mi confini nella sua staticità. Le cazzate che mi circondano non riescono a distrarmi dal fascino dell’esistenza. Quando dialogo con me stesso le parole perdono ogni significato e scivolano lungo la mia strana felicità. Chiunque può spacciarmi le sue verità tanto non le assumo come tali perché non sono un tossico né un giovane timorato. I giudizi e le frasi impulsive rotolano sulla dorsale dell’emotività e si arrestano soltanto di fronte alla consapevolezza della loro inutilità. La malinconia può sedurre la mente con estrema facilità, ma trovo che sia banale e tremendamente kitsch. Il travaglio interiore non è una necessità, ma ha la forma di un vizio inveterato che fortunatamente non mi appartiene. Non sono il figlio del destino. Sono un orfano solitario che sorride anche quando non c’è un cazzo da ridere. Adoro la vita e sono contento che gli anni si limitino a imbiancarla invece di sbiadirla.
Stanotte ho ricevuto una telefonata inaspettata. V. mi ha chiamato alle due per raccontarmi le sue traversie e io per l’ennesima volta non mi sono sottratto dal ruolo di confessore notturno. Era molto tempo che non sentivo V. e mi sono reso conto di quanto sia cambiata. All’inizio della nostra chiacchierata si è dichiarata un’egoista e io le ho dato ragione. Abbiamo parlato della sua vita e io non ho potuto fare a meno di scuotere la testa a più riprese. V. mi è sembrata piena di disillusioni e mi è parso che la sua arrendevolezza funzionasse a pieno regime. Le sue parole sono state tragicomiche, ma sono felice che lei non si sia ritrattata dalle mie battute cattive. La telefonata si è incentrata sul suo lato materialista, sui suoi vizi e sulle sue difficoltà. Non mi sono mai limitato ad assecondare V. né le altre persone con cui ho parlato a lungo e com’è già accaduto in occasioni analoghe ho toccato dei tasti dolenti per essere sincero, ma fortunatamente lei non è fuggita con la coda tra le gambe e ha dimostrato per lo meno un po’ di maturità di fronte alle parole. V. non è la stessa persona che ho conosciuto due anni fa, ma in lei c’è ancora qualcosa di meraviglioso e spero che qualcuno riesca ad aiutarla a vivere meglio. Alla fine del nostro dialogo, dopo circa due ore e tre quarti, le ho fatto promettere dolcemente di non chiamarmi più e spero che mantenga la parola data. Sono in grado di amare una persona, ma non posso vegliare sulle esistenze di coloro che mi hanno conosciuto a fondo. Non sono un punto di appoggio per le ombre del passato e poi l’aureola non mi dona affatto. Tre giorni fa, dopo parecchi mesi, ho sentito anche A. per puro caso, ma ho rotto i ponti anche con quest’ultima per le ragioni che ho esposto poc’anzi. Ho fabbricato tre addii platonici in tre settimane: un surplus di distacchi inevitabili. Ho deciso di non riportare i dettagli della conversazione che ho avuto con V. perché non ho mai sfruttato i suoi racconti né quelli di chiunque altro per scopi personali. Nel corso degli anni ho capito che anche un nullafacente deve avere una sua deontologia e la mia è severissima.