Cammino lentamente lungo un viale deserto. Tengo il capo abbassato e le mani dietro la schiena mentre la mia andatura pacata mi porta verso nuovi silenzi. Sporadicamente rivedo l’imponenza di alcune porte chiuse e impedisco a una goccia agrodolce di gettarsi da uno dei miei zigomi, ma in altre occasioni sento le carezze del mio stupore e mi lascio rapire dall’estasi di un momento intenso, isolato e imprevedibile. Osservo la mia giovinezza come se fosse già un ricordo lontano, ma il mio punto di vista è viziato dai tranelli del tempo. Non accetto consigli perché sono in grado di sbagliare da solo, ma ascolto con attenzione la voce supplichevole che di tanto in tanto emerge dai miei recessi. Mi chiedo se il mio viaggio verso la senescenza preveda una sosta importante, ma non faccio affidamento su questa evenienza e procedo senza collezionare rassicurazioni temporanee. Compio molti sforzi per non consentire alla stanchezza di parlare al mio posto e per proibirle di fare le mie veci. Cerco di migliorarmi per non versare il mio tempo nelle casse degli errori. I miei progressi non sono sempre visibili e talvolta sembrano inezie o stupidaggini, ma non mi preoccupo della loro estetica nonostante io sia un’amante della forma oltre che della sostanza. Mi accingo a fare il prossimo passo senza pormi troppe domande.
Quattro ruote, due pedali e una mente
Pubblicato venerdì 23 Novembre 2007 alle 02:49 da FrancescoPrima di guidare metto le mani sul volante e levo ogni peso dalla coscienza. Esco lentamente da un parcheggio e sfilo sotto le luci arancioni che sono deputate a indicare una via senza fine ai raminghi notturni. I miei pensieri volano ai lati dell’auto all’altezza degli specchietti e le loro evoluzioni non rassomigliano affatto a quelle di una descrizione paesaggistica piena di gabbiani, ma ricordano il transito oscuro di un pipistrello intimorito dalle fobie che alloggiano nei crani dell’homo sapiens. L’asfalto indossa gli stracci della notte e tenta vanamente di abbellirsi con gli orpelli lunari quando il cielo glielo consente. Accelero lievemente per non sorpassare i limiti della prudenza e seguo con lo sguardo un veicolo che sparisce nel buio assieme ai suoi fari. Il vento spira forte, ma le folate non riescono a piegare lo stelo fragile di una parte della memoria. Nel cuore della notte un distributore deserto emana un senso di desolazione che svuota i serbatoi delle aspirazioni individuali. Le ore piccole ingigantiscono ogni cosa e deformano il corso delle riflessioni. I fuochi fatui indicano la strada del ritorno, ma il punto di partenza e il motivo della sua ubicazione restano sconosciuti anche sotto la luce solare. Può risultare difficile capire dove andare senza conoscere la propria provenienza e può apparire altrettanto arduo annotare queste righe senza dare peso agli strascichi di banalità apparente che le seguono. Effettuo delle manovre semplici e spengo l’auto prima di scendere nel punto dal quale sovente mi stacco da terra per mettermi alla guida di un loop. Il cambio automatico mi consola.
Un corpo nudo si muove lentamente sopra un’altura verdeggiante. Gli arti tracciano linee eteree ed eseguono con precisione una danza scheletrica. Un derviscio siede sopra una roccia e muove lievemente il capo per mostrare il suo consenso verso i movimenti delle nudità. I venti trasportano i sibili notturni del genere umano. Il tempo orchestra i gemiti delle tre dimensioni e rivisita alcune sinfonie antiche per attualizzarle. Le acque cristalline dei ruscelli trasportano lembi di pelle mentre un oceano sconosciuto si occupa di spingere alla deriva i sogni dei suoi bagnanti. L’entusiasmo affoga in un momento e riaffiora dopo un decennio nello stesso punto. La superficie marina nasconde i relitti che si trovano sui fondali: rottami inabissati e dimenticati. Ogni tanto un vascello incorre in una tempesta ormonale e perde il suo carico di gioia. La calma dell’acqua ammutolisce qualsiasi tipo di disperazione senza calmarla. Le memorie possono erodere le ossa come il mare erode le spiagge. Una madonna canuta si trova in ginocchio su un promontorio mentre la brezza scuote il suo chador. Ella ha le mani giunte e il capo chino, ma non si rivolge al suo dio né al pantheon che lo circonda, bensì affida un altro tipo di preghiera all’apparente infinità dell’orizzonte e nello stesso momento una fotografia versa qualche lacrima sopra la sua cornice.
La mia routine è costruttiva e procede senza impedimenti. Ogni tanto scambio qualche parola trascurabile con un interlocutore casuale, ma di rado converso seriamente con qualcuno. Non mi interessano molto le opinioni, ma apprezzo alcuni modi di esprimerle. Vivo con calma e paziento senza un fine. Ignoro volontariamente certi rumori e tra questi annovero anche delle voci umane. Rinuncio serenamente a ogni offerta deleteria e non mi preoccupo del vuoto che impera all’altezza del mio cerebro. Talvolta mi siedo sul divano tra due diavoli e guardo assieme a loro le tragedie dei loro subalterni. Cambiano i modi di dire, mutano le stagioni, si alternano le mode e gli assassini in voga. I fatti di cronaca nera illuminano gli aspetti più torbidi dell’essere umano e le macchie di sangue mettono in risalto l’efferatezza delle violenze più eclatanti. Un clima di tensione alza l’audience e distribuisce a ogni telespettatore affabile un senso profondo di partecipazione mediatica. Non applaudo più alla ricerca continua e forzata della teatralità, ma tento di concentrare tutta la mia deconcentrazione in una dormita salutare. Sulle mie espressioni facciali può sembrare che si trovi l’ombra di una depressione incipiente, ma questa impressione è errata poiché i miei tratti somatici riflettono solo il desiderio di un continuo miglioramento individuale. Lavoro sul materiale che ho a disposizione e per adesso ho soltanto me stesso.
I lampioni avvampano prima dell’imbrunire e il buio si presenta in anticipo. L’ora solare getta delle ombre sull’umore della gente e sembra che le persone vivano di meno. I soprabiti avviluppano i corpi che temono un’improvvisata del freddo. Alle volte l’incedere dei passanti appare isterico e altre volte assomiglia a un movimento arrendevole verso un patibolo casalingo. Le buste dondolano dai polsi avvizziti di qualche signora anziana oppure pendono dalle dita curate di una vamp provinciale, ma in entrambi i casi pare che le compere diano una soddisfazione minore rispetto agli acquisti estivi. La beltà si presenta con più discrezione, gli abiti diventano meno succinti e sembra che le voci accompagnino il divertimento delle comitive per dovere invece che per diletto. Qualcuno riesce a trovare un po’ di refrigerio per la sua interiorità arida nel calore intimo e isolato delle lenzuola che si affacciano sulle steppe del riposo dalla penombra di una persiana semichiusa. Gli occhi si perdono nelle immagini tridimensionali di un monitor e nelle pubblicità televisive oppure subiscono l’attrazione letteraria di un libro, ma riescono a dare vita a uno spettacolo senza pari solo quando incrociano due colleghi. Per quanto mi riguarda attraverso le stagioni ombreggiate a forza di bracciate contro la corrente della mestizia. Sudo, incido parole e concedo ampi spazi al passaggio del silenzio. Ascolto le chitarre distorte di persone che sono sopravvissute agli anni ottanta, odo i falsetti di alcune ugole d’oro e attacco la mente al ritmo dell’hard bop che fuoriesce dai sassofoni di alcuni negri leggendari. Firmo un’altra volta la mia presenza su questo mondo e la consegno a me stesso come promemoria esistenziale.
L’atmosfera novembrina avvolge il mio umore e dall’altezza delle guglie interiori osservo con indifferenza una nube nera che si dirige verso di me per sorvolare alcuni dei miei mesi. Non posso imputare nulla alle avversità del silenzio e accetto il loro transito naturale come accetto un giorno di pioggia. Paziento nel presente e dal futuro mi aspetto soltanto la sua venuta. Gioisco in modo anomalo per delle inezie quotidiane e passeggio in equilibrio sulla linea della vita. Conosco benissimo la mia voce e talvolta la divido in due per dialogare con me stesso. Non si arresta mai il moto perpetuo che anima la fabbrica dei miei pensieri e sopra queste pagine riverso una quantità ingente di essi per evitare di ritrovarmi costantemente con un surplus mentale. Le riflessioni sterili gonfiano il mio cranio come una mongolfiera e ogni tanto mi capita di salire rapidamente in uno stato dell’attività cerebrale che risulta totalmente dispersivo. Mi arrampico sopra gli specchi che riflettono i miei limiti e cerco di raggiungere il vertice di questa struttura piramidale con le ventose della volontà. Ambisco ad arrivare a un punto dal quale sia necessario ambire a qualcosa e nel frattempo continuo la scalata che ognuno compie tra cadute rovinose e passi da gigante al di sopra dell’età anagrafica.
Le giornate mi ipnotizzano sopra le pianure spoglie delle ore. Qualche volta parlo con me stesso senza prestare ascolto a quanto dico. Non posso concedermi il lusso di dare un significato ai miei sforzi e allora continuo ad accumulare nozioni ed esercizi fisici. Tampono le emorragie del tempo con quello che ho a disposizione e ogni tanto alzo lo sguardo per assicurarmi che il cielo non si abbassi. Quando ruoto le mani trovo soltanto delle linee interpretabili dalle zingare e noto uno spazio vuoto ogni volta che porto lo sguardo all’altezza dello sterno. Non capto segnali anomali e paziento silenziosamente da un capo all’altro dei miei movimenti. Non attendo qualcosa, e non ho l’aspetto di uno che aspetti ciò ch’egli crede che gli spetti. Non stringo patti né petti, ma accudisco la mia lucidità per evitare che l’immaginazione mi renda pigro. Non sono arrendevole e rianimo i momenti morti mentre dei pensieri appuntiti mi fanno grondare sangue dal cranio. Il mio kit di sopravvivenza è composto dalla musica, dalla lettura, dalla scrittura e dall’esercizio fisico, ma è il mio amore smodato e inespresso per la vita che mi solleva dai precipizi quando il mio volo si fa troppo radente. Scanso delicatamente la mia introspezione nel momento in cui si frappone tra me e la visione degli eventi che condizionano le vite dei miei simili. Faccio parte di un mondo in cui i numeri inducono la gente a constatare sulla propria pelle la legge di gravità. Le manovre errate della mia esistenza sono inezie al cospetto di un mutuo contratto senza lungimiranza o di una malattia contratta consenzientemente, perciò mantengo alto il livello della mia attenzione e continuo a planare tra la bellezza e la sua antitesi. Uso le storie maledette come magneti per attirare la mia attenzione su determinate vicende e per non imbattermi nei drammi che sono già stati portati in scena da altre persone. Ogni giorno guadagno esperienza e ne investo buona parte per tutelarmi contro la mestizia. Non dispenso consigli, ma ogni tanto ne raccatto uno dei miei. Credo che la vita sia un passatempo stimolante.
Anche oggi mi sono immerso nella campagna che avviluppa il mio comune. Dopo ventitré anni i colori della Maremma mi appaiono ancora vividi e probabilmente rimarranno tali anche quando la cataratta mi impedirà di accorgermi del loro splendore. I riflessi solari che galleggiano sulla laguna e gli spazi indorati che le si sovrappongono tutt’intorno conferiscono un tenore pacifico ai miei pensieri. Di tanto in tanto percorro una strada che fiancheggia la linea ferroviaria e quando un treno sopraggiunge io cerco di salutare il macchinista, ma non riesco mai a capire se il mio cenno giunga a destinazione o se si perda nel frastuono prima di cadere sui binari. Le radure che frequento irregolarmente mi suggeriscono immagini e fantasticherie con cui cerco di pennellare poeticamente le mie pedalate. I suoni lontani dell’autostrada e la quiete arancione del tardo pomeriggio mi inducono spesso a ricordare che non mi sono mai allontanato da qualcuno poiché non mi sono mai avvicinato a nessuno. Gli scenari incantevoli che squadro ogni dì, adatti a posare per i paesaggisti pedissequi o per l’ultimo giorno della vita di un uomo malato, rafforzano il sodalizio tra me e la somma dei miei isolamenti, ma in cotanta adulazione assiomatica per la vita non scordo mai l’esistenza di un quid infinitamente superiore a tutte le gioie a me note. Le mie ultime parole non si riferiscono alle sciocchezze della spiritualità né a quelle dell’esoterismo, ma cercano vanamente di rappresentare in modo sommario una forza empirica che talvolta lambisce la mia esistenza.
Le mie giornate trascorrono lentamente: leggo, scrivo, mi alleno fisicamente e ascolto molta musica. Lo spettro delle mancanze affettive mi segue ovunque, ma sopporto pazientemente la sua presenza e non mi scompongo dinanzi ai suoi effetti. Sfoglio pagine numerate, macino chilometri e riempio righe vuote per continuare a migliorarmi malgrado io non abbia un fine per farlo. Anche quest’anno sono pronto ad affrontare le mestizie imperanti dell’autunno e dell’inverno. Mi faccio largo tra i giorni con l’insistenza della mia inclinazione a vivere e affronto silenziosamente ogni inquietudine. Sono un habitué delle zone rurali e mi reco nei luoghi isolati per trovare un po’ di conforto paesaggistico. Ogni tanto penso alla mia morte e cerco di immaginare l’attimo esatto in cui la vita cessa, ma ovviamente fallisco sempre nel mio intento e mi rimprovero quando indugio troppo sulla contemplazione di questo tema. Sono una persona comune e mi appartengono di diritto gli interrogativi ancestrali che ho ereditato dalle radici del mio albero genealogico. Non sono in grado di giustificare la mia transitorietà, ma spero che sia longeva. Sono ancora giovane e devo proteggere la mia determinazione a vivere per affrontare da solo i giorni in cui conterò i miei ultimi capelli canuti. Non voglio diventare una vittima del tempo, ma voglio essere pronto e cosciente per adempiere agli obblighi improrogabili della mia natura. Continuerò a volgermi verso il miglioramento di me stesso fino a quando le mie funzioni vitali me lo consentiranno.
Due notti fa mi sono addormentato all’improvviso sopra le coperte del mio letto a causa della stanchezza che avevo accumulato con i miei esercizi fisici. Mi sono svegliato qualche ora dopo e la luce della stanza era ancora accesa, ma d’altronde solo un blackout avrebbe potuto spegnerla. In quel momento mi è sembrato di essere nuovamente un bambino e ho provato un moto di dolcezza. La scorsa notte mi sono aggirato a lungo per le vie desolate della mia cittadina e verso le cinque del mattino mi sono recato in un panificio per comprare qualcosa da mangiare. Ho acquistato un po’ di pizza e qualche dolce che ho addentato nei pressi di un giardino pubblico. Durante il mio pasto eremitico ho immaginato di essere un animale in cattività che divora la sua preda, ma forse mi sarei avvicinato di più alla realtà se avessi raffigurato me stesso come un uomo che riesce solo ad approvvigionare il suo riflesso. Farcisco le ore piccole con eventi di poco conto perché non ho di meglio a mia disposizione e cerco di farmi bastare ciò che riesco a raccogliere dalla mia capacità di provare emozioni. La mia veglia notturna non ha i colori né i rumori de “La Dolce Vita”, ma assomiglia a una lunga marcia introspettiva. Quando cammino da solo i miei pensieri si accavallano e talvolta il loro peso rallenta il mio incedere, ma non accetto che qualcosa di intangibile mi schiacci e mi oppongo fermamente a quella di parte di me che cerca una forma abietta di conforto nella contemplazione della tristezza. La mia polarità è positiva.