Fatico ancora ad addormentarmi e quando non mi alleno sono pervaso da una sensazione di stanchezza che non è imputabile agli sforzi fisici benché questi siano intensi e prolungati. Ogni tanto mi ricordo di avere quasi ventisette anni, però nel mio passato non c’è traccia d’amore che non sia quella materna e, con la complicità dell’insonnia, questa constatazione mi toglie sempre il fiato. Certe volte vorrei accelerare il tempo ed essere già anziano, almeno potrei stare in pace per gli ultimi anni della mia esistenza. Anche la sofferenza deve scomparire prima o poi perché neppure a lei è concessa l’eternità. Questi pensieri arrendevoli si presentano a me appena appoggio la nuca sul cuscino, però al risveglio scompaiono quasi tutti, come se venissero inceneriti dalla luce di ogni nuovo giorno. In passato la notte era il mio regno solitario, ora invece mi sento un clandestino tra le sue ore. Mi sembra di essere tornato adolescente dato che per calmare le mie ansie devo masturbarmi due volte al giorno.
Mi sto rendendo conto che presto o tardi dovrò scegliere se lasciare il mio cuore aperto o cospargerlo di cemento armato. Per tutti questi anni sono riuscito a stare da solo e allo stesso tempo sono stato pronto ad abbassare tutte le difese ogni volta che ne valesse la pena, ma sono sempre stato trafitto da delusioni potentissime. Se conservassi almeno un ricordo piacevole delle occasioni perse, se almeno avessi assaporato un po’ la complicità, fosse anche per un periodo brevissimo, allora oggi, forse, potrei resistere più a lungo. Sono giovane, ma non sono più un pischello e ormai fatico a tenere in equilibrio la solitudine assieme al desiderio d’amare: non ci sarà sempre posto per entrambi. Non provo rancore verso nessuno, ma non posso fare più di quanto le mie forze mi consentano. Se in passato fossi stato più superficiale e avessi cercato relazioni prettamente carnali forse la mia vita privata sarebbe stata più semplice, o almeno sarebbe esistita. Il sesso non mi incuriosisce perché immagino che senza amore sia soltanto una sega più articolata, ma suppongo che la mia inesperienza qualche volta abbia contribuito a precludermi certe occasioni. Forse anche la migliore delle donne vuole che altre l’abbiano preceduta, come a certificare la qualità del suo uomo. Sono certo che tutto passerà.
Ho commesso errori monumentali, come se avessi ancora bisogno di altre cattedrali nel deserto. Pago i miei sbagli senza buttarmi giù. Ultimamente faccio fatica ad addormentarmi, però non ho paura dei fantasmi che mi sfidano. Erano anni che non mi trovavo a combattere contro il dolore. Una parte di me vorrebbe abbattersi perché è più facile e consolante, ma non ci penso proprio a cadere. Conosco le astuzie dell’inconscio. Incasso i colpi che non riesco a schivare e mi sembra che qualcosa mi laceri dallo sterno fino all’ombelico, ma in questi casi ritraggo l’addome e me lo batto con colpi secchi per attenuare i picchi di frustrazione.
Se mi lasciassi andare allo sconforto per me sarebbe la fine e di certo non troverei mani tese ad aiutarmi. Non mi serve la comprensione, ma voglio meritarmi la possibilità di amare e per quanto sia difficile, la perderei irrimediabilmente se in primo luogo dimenticassi d’amare me stesso. Per quanto mia madre mi voglia bene, io non riesco a primeggiare neanche nel suo cuore e non la incolpo per questo, ma nel corso degli anni, di conseguenza, ho finito per credere che non sarei mai riuscito ad essere un punto di riferimento per una ragazza e anche a causa di questa convinzione sbagliata sono rimasto distante dall’altro sesso.
Mi sono concentrato troppo su me stesso, ma la mia unica alternativa era l’autodistruzione e se l’avessi scelta allora la croce invece di sfasciarla in terra me la sarei ritrovata due metri sopra il cranio. Avverto una sofferenza profonda che voglio sconfiggere benché per adesso riesca solo a conviverci. Qualcuno si anestetizza con il tabacco, con l’alcol, con la droga o con le parole degli amici, ma io non sono mai ricorso a nulla di tutto questo e oggi più di ieri voglio la lucidità al mio fianco per attraversare un periodo che si preannuncia lungo e denso di mestizia.
Pago sempre la mancanza di esperienza e dentro di me c’è molto d’inespresso che non riesce a trovare uno sbocco. Dopo anni di serenità solitaria forse era inevitabile che arrivassi a questo punto, ma ne sono contento perché mi sento vivo. Soltanto una malattia grave potrebbe avere qualche chance di annientarmi, perciò se un cancro volesse mettersi i guantoni… Adesso io non posso più vantare la brutta copia dell’atarassia, ma chissà, prima o poi potrei riappropriarmene.
Finalmente sono riuscito a liberarmi dai pensieri di colei che non era lei. È stato un aborto lungo e travagliato, ma alla fine è riuscito. Le cose buone accadono da sole anche quando sembra che i diretti interessati si sforzino molto per farle succedere, ma in questa occasione non v’erano manco le premesse. Probabilmente passerà qualche anno prima che il caso mi offra un’altra possibilità per conoscere qualcuno affine a me, però non me ne preoccupo affatto e sorrido con arroganza all’avvenire che vorrebbe farmi genuflettere ai piedi di un passato appena creato. Ormai sono vaccinato contro le delusioni, ma questo non mi rende freddo né distaccato, infatti sono sempre pronto ad abbassare tutte le difese e ad abbandonare le comodità della mia splendida solitudine per votarmi verso ciò che non ha pari in questo mondo e che forse non ne ha neppure altrove. A giugno compirò ventisette anni e, per amor del vero, benché ancora giovane, non posso negare che si stia chiudendo la mia finestra temporale per avere una relazione sentimentale. Già da tempo ho messo in conto quanto ora comincio a scorgere all’orizzonte ed è proprio per questo motivo che non ne sono intimorito. Quando il dubbio si farà certezza il contraccolpo sarà forte, però saprò superarlo perché non c’è nulla dentro di me che possa annientarmi emotivamente. Io sono nato per vivere. Per spirito di solidarietà vorrei infondere la stessa forza in quelle persone che purtroppo si lasciano schiacciare da esiti o prospettive simili. Le croci non mi donano, perciò le spezzo e ciò che ne resta lo lancio verso il futuro per ricordare a quest’ultimo che volente o nolente dovrà prepararsi al mio arrivo. Io cado in piedi, ma per darmi uno slancio ancora maggiore verso l’alto. In circostanze come queste il mio amor proprio esonda e mi fa sentire ancor più vivo di quanto già io mi senta solitamente. Non ho sensi di colpa, non ho rimpianti né altre zavorre e potrei finire negli abissi soltanto se il mondo si capovolgesse. Sono contento di scrivere queste frasi, ma sono ancor più felice di custodire ciò da cui scaturiscono e voglio che per un po’ campeggino tra questi appunti scevri di polvere. Non voglio essere il riflesso di un mondo violento né di una falsa personalità che ceda e si accasci su se stessa, bensì voglio mantenere i legami con la mia infanzia e la serenità da cui non c’è modo che io mi separi. Mi piace l’autenticità e disprezzo quanto le sia ostile. S’intristisca chiunque lo voglia, ma io voglio e provo ben altro.
Quandunque il Sé si trasmetta in differita
Pubblicato giovedì 21 Ottobre 2010 alle 00:14 da FrancescoAnni fa mi denigravo giustamente. Se non avessi insultato me stesso non sarei mai riuscito a svegliarmi dall’apatia. Non ho mai trovato un maestro né qualcosa che potesse guidarmi, sennò avrei risparmiato un po’ di tempo. Ho sempre ricevuto esempi negativi che fortunatamente sono stati ottenebrati dalla mia lungimiranza. Anche quando ero sfiduciato e versavo nella mestizia in me sopiva la forza interiore che ancor oggi mi permette di camminare a mezzo metro di altezza. Potrei essere invulnerabile emotivamente, ma se assecondassi questa tentazione arrogante e arida dimostrerei soltanto una forma di debolezza meno palese, invece sono ancora disposto ad abbassare ogni difesa qualora delle circostanze eccezionali lo richiedano e proprio in questa capacità venata di consapevolezza io intravedo la parte migliore di me: non sono affatto freddo.
Il mio approccio ai sentimenti non è passionale né razionale, ma è dettato dall’unione di Psiche ed Eros alla luce del sole e non tramite incontri al buio come nell’opera di Apuelio o nelle usanze pulsionali delle decadi più recenti.
Il tempo non mi inganna più benché io qualche volta riesca a buggerare lui. Sono giovane, però comincio a rischiare di non vivere alcun trasporto emotivo e non mi faccio fregare da un timore che dovrebbe sorgere in me: fanculo, io lascio che divori le energie di qualcun altro. Il futuro è in divenire per definizione e così come non lo metto nelle mani di una cartomante, non lo depongo neanche sulle paure millantatrici che tra l’altro non trovano spazio nella mia lettura della realtà. Nei paraggi della mia persona, dalle anime in pena si levano cassandre esagerate e previsioni cupe, pare inoltre che per costoro ogni passo avanti debba essere seguito da un salto indietro. Mi disgusta questo leitmotiv depressivo e tendo a non dare fiducia a chiunque non l’abbia in sé. Spesso avverto grandi reticenze, sovente più assordanti delle verità che nascondono. L’onestà nei confronti altrui è auspicabile per vivere bene, però credo che quella verso sé stessi diventi addirittura imprescindibile per sventare certi disastri. Proroghe continue, rinvii ingiustificati e vari ricorsi a impegni abituali possono ritardare molto l’incontro di un individuo con i limiti a cui prima o poi dovrà dare udienza. Un tumore che viene lasciato ingrandire, un nemico a cui si concede il tempo di rinforzarsi: a terribili infermità porta la ferma decisione di lasciare altrettanto ferme le questioni insolute a livello interiore. Non critico la società poiché è troppo eterogenea per prestare il fianco a dei giudizi attendibili, però cerco di comprenderne una parte per non farmi contagiare dalla cecità volontaria. Lo ripeto per l’ennesima volta: io non pretendo di cambiare il mondo, d’altronde sarebbe un moto infantile di romanticismo, ma compio gli sforzi intellettuali e fisici per evitare che accada l’esatto contrario. Insomma, i conflitti intestini hanno ripercussioni sull’esterno e prima di puntare il dito contro gli altri forse un individuo dovrebbe domandarsi se non sia stato lui per primo a commettere l’errore di avvicinarsi a persone incompatibili. Talvolta l’incompatibilità è del tutto artificiale e viene evocata per negare qualsiasi valenza ad un’affinità che oltre alla gioia porterebbe anche la necessità di un confronto personale in uno dei soggetti interessati. Credo che nei veri inetti la felicità sia subordinata alla sopravvivenza di determinate istanze psichiche malgrado la parvenza di normalità e d’integrazione sociale che può risultare da un’attività febbrile in più campi o dalla semplice ripetizione di una routine cristallizzata.
Nei mezzi d’informazione forse la questione dei suicidi non viene affrontata spesso per evitare un aumento del tasso di mortalità, ma non sono rari i casi in cui una mancanza di insight porta alla morte come se si trattasse di una carenza organica. Forse una morte vivente insorge anche in coloro che si adattano alla tristezza e dunque l’adattamento a livello personale non rientra nei principi della selezione naturale perché quest’ultima, secondo me e limitatamente al campo emotivo, si spinge al di là di quanto è stato teorizzato per la sopravvivenza. Non compatisco chi decide di togliersi la vita sebbene per questa regola io preveda doverose eccezioni, contenute nel numero e mai nelle circostanze. Il suicidio fisico e quello emozionale per me rappresentano le lezioni più convincenti della natura per quanto riguarda la salvaguardia di sé stessi.
Suppongo che in una relazione amorosa la sessualità svolga una funzione capitale. Trovo banali e poveri i rapporti che offrano soltanto la carnalità o un appagamento platonico, insomma tutti quei legami incompleti che ancor oggi evito e derido, tuttavia mi domando se io sia all’altezza di sostenere un rapporto che racchiuda in sé un equilibrio perfetto tra istinto e intelletto.
Ormai credo che io abbia conseguito una certa esperienza sotto l’aspetto platonico, però sono completamente impreparato al contatto fisico. Una sciagurata che decidesse d’imbarcarsi in una relazione con me dovrebbe pazientare un po’ per raggiungere l’orgasmo. Probabilmente i primi tempi mostrerei la mia goffaggine e non sarei in grado di fottere come si conviene: ah, diamine! Immagino che una donna percepisca l’abilità del partner a toccarla e penso invece che un uomo difficilmente si renda conto di come i propri gesti impattino sulla cute femminile, tuttavia non mi preoccuperebbe la mancanza di tatto che potrei mostrare all’inizio e dunque neanche l’ansia da prestazione riuscirebbe a farsi spazio in me.
Dalla mia prima sega ne è passato di sperma sotto i ponti, tuttavia non credo che la pornografia mi abbia insegnato granché sul sesso: tanti calli e poche nozioni. Forse soltanto l’esperienza può insegnare le dinamiche dell’amplesso a chiunque sia disposto ad apprenderle senza curarsi subito del proprio appagamento. La sessualità è una dimensione piuttosto lontana da me e con una licenza poetica la definirei in perenne afelio dalla mia realtà, ma ne immagino il potenziale e credo che quest’ultimo sia sconosciuto anche a coloro i quali, pur sessualmente attivi, abbiano soltanto dei rapporti meccanici, improntanti a degli automatismi atavici. Io uso la masturbazione come valvola di sfogo per le pulsioni sessuali e nella mia vita la sua incidenza è tutt’altro che compulsiva, tuttavia non credo che quest’ultima possa svolgere un’altra funzione oltre a quella regolatrice per cui io la osanno.
Io vivo bene nonostante la mancanza d’amore perché ho la consapevolezza dalla mia parte e conosco, da spettatore estraneo ai fatti, quali danni inenarrabili possa subire una vita qualora forzi se stessa per obbedire alle debolezze. La pazienza è la virtù dei forti e talvolta non porta a nulla, ma io la ritengo preferibile a tutta la gamma di disastri annunciati che ormai tracima dai libri d’ogni epoca e dai volti di molta gente.
In quest’epoca di pace apparente ci sono individui che cercano ugualmente un rifugio e alcuni di loro lo trovano nella cultura. Mi fa sorridere chiunque ritenga che sia sufficiente coltivare le virtù dianoetiche per tenere a debita distanza i propri limiti. Io non entro in una torre d’avorio, però una pisciata prospiciente il suo ingresso sono sempre disposto a concederla.
Pare che per qualcuno la lettura di certi libri e la frequentazione di determinati corsi forniscano un voucher con cui ritirare subito un attestato per la propria personalità. Ai miei occhi la sete di sapere è pressoché identica a quella di potere ogniqualvolta dismetta i panni della necessità evolutiva per diventare la tonalità dominante del proprio autoritratto. L’edonismo intellettuale è piuttosto squallido. Per fortuna non sono abbastanza acculturato da tenere più alle nozioni che a me stesso. Non di rado odo invettive vivaci contro certe figure dell’intrattenimento televisivo e solitamente queste critiche feroci provengono da individui che sentono il bisogno di sminuire quanto risulti contrario al loro mondo per avallare ulteriormente quest’ultimo. Nemmeno io sono sempre estraneo a questi infantilismi, perciò posso tenere per me qualche frase di scherno da rivolgermi all’uopo; come si suol dire: “Prendi l’arte e mettila da parte”.
Nella mia esistenza non cerco di forzare ogni cosa dentro determinati confini per aggrapparmi all’illusione di controllare ogni aspetto della vita. Io non sono né la somma delle mie conoscenze frammentarie né il feto di un futuro gravido e non sento proprio la necessità di definirmi poiché già negarmi per me costituisce un certo impegno. La morte di Raimon Panikkar mi ha riportato alla mente Jiddu Krishnamurti e in particolare un passaggio di una sua conferenza che ho letto mesi fa in quel di Taiwan.
“Per poter sperimentare la morte mentre siamo ancora vivi, dobbiamo abbandonare ogni sotterfugio mentale, ovvero tutto ciò che ci impedisce un’esperienza diretta. Siamo plasmati dal passato, dalle abitudini, dalla tradizione, dagli schemi di vita; siamo invidia, gioia, angoscia, zelo, godimento, ognuno di noi è questo, ovvero il processo di continuità. Ognuno è attaccato alle proprie opinioni, al proprio modo di pensare, ed ha paura che senza i suoi attaccamenti non sarebbe nulla, allora si identifica con la casa, la famiglia, il lavoro, gli ideali… ma quanti sono quelli capaci di porre fine a tale attaccamento e realizzare il distacco? È necessario comprendere i processi del pensiero e la comprensione del pensiero è la cessazione del tempo. Il pensiero, tramite un processo psicologico, crea il tempo, e il tempo poi controlla e configura il nostro pensiero. Il senso di continuità è stato edificato dalla mente, quella mente che guida se stessa per mezzo di precisi schemi e che ha il potere di creare ogni sorta di illusione. Lasciarsi intrappolare mi sembra una scelta tanto inutile quanto priva di maturità”.
Non mi ritengo ancora in grado di esperire il distacco a cui si riferisce Krishnamurti e di cui comunque fiuto la validità, però lo inquadro come un atto episodico da compiere a tempo debito e nient’affatto come un invito a praticare un’ascesi vitalizia. D’altronde egli derideva spesso i santoni, i guru, le meditazioni e ogni altro balocco mistico con un’ironia fantastica. Ricordo che una mattina, mentre ero intrappolato nella metropolitana di Taipei, sul mio volto comparve per l’ennesima volta un’espressione divertita e in quell’occasione l’innesco dell’ilarità fu una frase di Krishnamurti che paragonava l’ashram a un lager.
Io non mi avvicino a certe tematiche per sopperire alle mancanze della mia vita e non cerco un pensiero al quale uniformarmi per denigrarne degli altri. Raccatto qualche visione d’insieme qua e là per prenderne ogni spunto che mi possa tornare utile nell’introspezione. Non m’interesso all’interpretazione del mondo in senso lato benché spesso l’autoanalisi la chiami in causa. Sono io la mia priorità, ma allo stesso tempo non posso inquadrarmi al di fuori del contesto sociale in cui vivo e se provassi a fare una cosa del genere mi limiterei a coltivare una nevrosi autoreferenziale. Faccio parte di questo mondo a tempo determinato e ormai, dopo quasi due decenni di adattamento, posso affermare di trovarmici bene.
Introspezione retrospettiva: terza parte
Pubblicato venerdì 27 Agosto 2010 alle 06:08 da FrancescoTra la prepubertà e la tarda adolescenza ho custodito regolarmente delle fantasie affettive in relazione all’altro sesso. A letto, prima di addormentarmi, assumevo spesso una posizione fetale e solevo cingere uno dei miei due cuscini per ricreare dei momenti d’intima dolcezza. Tutto ciò avveniva in modo spontaneo e mi faceva sentire bene, in particolare di domenica, quando alla possibilità di dormire più del solito si aggiungevano gli effetti di quella simulazione sentimentale. Non escludo che a quel tempo l’assenza di rapporti con le mie coetanee, oltre alla timidezza coeva, sia dipesa in minima parte anche dalla mia disponibilità a farmi bastare quelle fantasticherie notturne per soddisfare le mie esigenze emotive. Alla luce dei particolari anzidetti mi permetto di suppore che già allora in me fosse nascente l’attuale concezione dell’amore, seppur in una forma ancora grezza. Probabilmente le mie prime conclusioni sono state ideate attraverso gli sbagli altrui che ero abituato a ricavare in modo naturale dai discorsi degli adulti, durante quei pranzi e quelle cene in cui venivano consumati piatti abbondanti e sistemi nervosi. Senza saperlo io giocavo con le contraddizioni che udivo, giustapponendole e incastrandole come dei mattoncini colorati fino al punto di ottenere delle costruzioni rivelatrici.
Da adolescente non mi sono mai esposto ai pericoli dei rifiuti, però ho accolto le attenzioni di alcune ragazze curiose e sulla scorta di cotanta superficialità si sono originate delle infatuazioni platoniche piuttosto ridicole da cui ho comunque saputo trarre qualche insegnamento.
Ricordo una certa pudicizia nelle mie prime fantasie amorose che io faccio risalire all’età di dieci anni. Ricordo che allora l’idea di un bacio mi catapultava in un imbarazzo tremendo e quasi non riuscivo a concepirla. Provavo una sensazione analoga ogniqualvolta appoggiassi la mano destra sulla zona vuota di un banco scolastico: mi sembrava di mettere il palmo sulla parte superiore di una coscia. Non sono mai riuscito a risalire fino all’origine di questo turbamento, ma credo che abbia evidenziato una dissonanza tra la totale estraneità all’erotismo e le prime masturbazioni, in concomitanza delle quali è poi sparito del tutto.
La mia fantasia nell’arco di tempo in esame si è divisa tra la pornografia e il desiderio profondo di avere una relazione: in seguito questi livelli della mia immaginazione si sono sovrapposti per conformarsi all’idea idilliaca di un legame completo. Se in questa fase delicata del mio sviluppo io avessi avuto una relazione sentimentale forse la mia mente si sarebbe impigrita e avrebbe compromesso o almeno reso più difficoltoso il mio percorso introspettivo. Quest’ultimo dettaglio non è nuovo, però mi piace riproporlo di tanto in tanto poiché lo considero come l’aneddoto di qualcuno che abbia scampato un pericolo enorme.
Anche grazie a questo iter tortuoso sono giunto a un livello di autocoscienza che reputo buono. Il processo di cambiamento è stato così veloce in me che ha doppiato la vecchia identità, ma a uno sguardo estraneo potrebbe sembrare che quest’ultima sia ancora in testa, anche in senso letterale. Un mutamento graduale e costruito sarebbe stato possibile da parte mia, ma avrebbe snaturato completamente la mia personalità per adeguarla a maggiori occasioni sul piano delle relazioni umane. La mia introspezione ha escluso l’evenienza dell’anaffettività nel mio carattere e per me già questo particolare è un motivo di contentezza abnorme, ma forse se me lo facessi bastare mi ridurrei ad ammodernare l’errore che fu proprio della mia pubescenza. È un segno di salute psichica la mia voglia d’amare ed è un capolavoro dell’autoanalisi la mia capacità di non sentirmi frustrato né amareggiato per l’attuale impossibilità di farlo, ma su questo punto non intendo spendere altre parole poiché in più occasioni ho incensato giustamente il mio stato d’animo e, per quanto sia stupefacente, a ‘na certa pure io mi rompo i coglioni di elogiarlo.
Introspezione retrospettiva: seconda parte
Pubblicato mercoledì 25 Agosto 2010 alle 03:43 da FrancescoTra l’infanzia e l’adolescenza mi sono sentito sempre inadeguato al cospetto della vita. Credevo di non essere affatto in grado di piacere agli altri, perciò spesso tendevo a isolarmi in silenzio o assumevo dei comportamenti asociali, volgari, talvolta persino aggressivi. Mangiavo molti dolci per colmare i vuoti affettivi, ma ovviamente non me ne rendevo conto, con buona pace del povero cesso che per oltre una decade ha ospitato i miei tocchi di merda. All’origine del mio disagio penso che vi sia stato un concorso di cause. In primis, ricordo un episodio che mi segnò.
Quasi certamente avevo cinque anni quando una sera d’estate i figli dei vicini mi esclusero dal loro gruppo e mi lasciarono davanti alla porta chiusa di una casa in cui erano entrati prima di me per giocare insieme. Io non ebbi alcuna reazione particolare, ma scesi le scale e rincasai. Da piccolo ero tremendo e fastidioso, perciò non escludo che l’assenza di proteste da parte mia sia stata in realtà un’ammissione di colpa (anche solo inconscia) e dunque posso supporre che io abbia ritenuto (giustamente) d’essermi meritato quel trattamento.
In seguito stentai sempre di più a relazionarmi con gli altri perché temevo di rivivere lo stesso dispiacere. A quell’età non sapevo ancora scorgere né analizzare i movimenti del mio mondo interiore. Comunque l’episodio dell’esclusione mi espose ancor di più al clima familiare che era piuttosto teso, tanto che non c’era nulla che ricordasse anche solo per sbaglio il Mulino Bianco; manco i biscotti di quella marca arrivavano in tavola e difatti bruciavano prima in quell’atmosfera domestica, quasi come delle meteore ignifere. Il mio presunto padre era occupato con le amiche di mia madre e mia madre tra le sue priorità aveva l’onere di soffrirne. Mi ricordo ancora quando il mio presunto padre mi parcheggiava in sala giochi sotto l’egida del titolare (un suo amico) e se ne andava per qualche ora: io passavo i pomeriggi là, con i videogiochi, e mi divertivo.
Immagino che anche la mancanza di una figura paterna abbia contribuito a rafforzare in me una condotta erronea per tutta la fase del mio sviluppo, ma non posso certo negare quanto mi sia piaciuta quella libertà e probabilmente è stata più propedeutica di quanto avrebbe mai potuto esserlo una presenza soffocante.
È troppo facile accusare i propri genitori di essersi comportati male e io non mi avvalgo di una giustificazione del genere, altrimenti oggi, malgrado tutto, non sarei così radicalmente diverso da com’ero un tempo. Nessuno può imparare a crescere un figlio e la pedagogia non è una scienza esatta. Chi mi ha messo al mondo ha provato a tirarmi su, ma sotto molti aspetti ho dovuto rimediare io alle mancanze altrui. Comunque ho goduto anche di alcuni privilegi e ancor oggi devo molto a mia madre, perciò è giusto che io sottolinei anche questo particolare.
In fin dei conti non me la sono mai passata male e se pensassi il contrario allora dovrei proprio chiedermi come valutare le esperienze di quei miei coetanei che sono cresciuti nell’indigenza, tra storie di abusi e indifferenza. Certi figli tendono a fare i vittimisti per non prendersi alcuna responsabilità in merito ai loro demeriti, ma io non ho nulla da rimproverare a nessuno e sono contento di come mi sono corretto. Il mio carattere tra l’infanzia e l’adolescenza mi ha portato a non coltivare amicizie profonde né rapporti con l’altro sesso, infatti mi sono tagliato fuori da molte dinamiche sociali, ma questa mancanza, per quanto possa essere ritenuta gravosa, mi ha facilitato la vita. Oggi sono abbastanza maturo per intrattenere rapporti di ogni tipo e potrei persino avere una relazione, ma sono uno sconosciuto sereno e questo paradosso mi fa morire dalle risate. Va bene così.
Introspezione retrospettiva: prima parte
Pubblicato martedì 24 Agosto 2010 alle 04:14 da FrancescoNon ricordo esattamente quanti anni avessi il giorno in cui si verificò questo episodio, tuttavia frequentavo la scuola elementare e il mio rapporto con il buio notturno non era ancora sereno. Una mattina mi svegliai prima di mia madre e dopo averla guardata per un attimo mi diressi in cucina per prendere un coltello. Dopo qualche difficoltà dovuta all’altezza a cui erano riposte le posate, riuscii ad afferrarne una e tornai subito nella stanza. Mi fermai a più di mezzo metro dal letto di mia madre e stetti attento a non fare rumore. Probabilmente non trascorsero neanche trenta secondi prima che in me sopraggiungesse uno spavento enorme. Mi allontanai dalla camera e ritornai in cucina per mettere a posto il coltello, però durante l’azione non riuscii a liberarmi dalla paura che mi aveva assalito qualche secondo prima e gli effetti di quest’ultima echeggiarono per giorni nel mio cranietto ingenuo.
Una lettura superficiale di questo episodio potrebbe indurre qualcuno a credere erroneamente che io abbia provato a commettere un matricidio senza riuscirci, ma trovo che un’interpretazione del genere sia risibile. Dopo molti anni penso di essere giunto a una spiegazione plausibile per quella strana mattina. Quand’ero bambino temevo tremendamente di perdere mia madre poiché se lei fosse morta io sarei rimasto solo al mondo, perciò mi inquietava molto questa idea ricorrente che spesso mi tormentava prima d’addormentarmi.
Quella mattina cercai di simulare una situazione pericolosa per capire quali sarebbero state le mie reazioni a una morte prematura di mia madre. Lo spavento che mi colse subitamente evidenziò un attaccamento forte e un timore altrettanto grande. Il mio stazionamento con un coltello in mano davanti a lei dormiente riprodusse per un breve momento la possibilità della sua scomparsa e non necessariamente per mano di un’altra persona, ma anche a causa di una malattia o di un incidente. Non ho mai avuto rancori forti con la mia genitrice, neanche durante l’adolescenza, quando cominciarono a crescere dei conflitti che poi svanirono del tutto un po’ di tempo dopo, quando ormai io avevo già passato la maggiore età. Ho vinto da pochi anni la paura di affrontare ed elaborare la perdita di mia madre, come del resto, sempre da parte mia, sono piuttosto recenti i superamenti di altri timori che alcune vite ospitano per tutta loro durata. Voglio bene alla mia mamma, specialmente ora che il cordone ombelicale non può più essere utilizzato sul patibolo.
In questo periodo non ho granché da annotare e con il passare del tempo mi sembra che io abbia sempre meno da scrivere, ma trovo che la sporadicità dei miei appunti sia un fenomeno normale. La mia mente non è sterile, ma non riesce a partorire idee e preferisce godere dei suoi interminabili momenti di serenità. Non ho mai scritto qualcosa di monumentale perché non ho mai giaciuto in una tristezza abissale e dunque non ho mai potuto raggiungere quelle profondità del dolore dalle quali è possibile estrarre concetti di rara bellezza; taluni sono stati trascinati in una ricerca simile senza volerlo e sono rimasti sepolti sotto il peso delle loro scoperte come accade ancor oggi a certi minatori asiatici per un compenso di gran lunga inferiore. Durante le fasi più concitate della mia introspezione mi sono spinto fino a dove ho dovuto, ma non ho mai provato a oltrepassare certi limiti perché per farlo avrei dovuto procurarmi volontariamente del male, ma la mia indole tende verso il bene e per fortuna non sono in grado di arrecare danno a me stesso in maniera intenzionale. Non ho grandi eventi da celebrare né mi fronteggiano chiome che io possa incoronare, ma al cospetto di ogni giorno io provo una sorta di esaltazione per il solo fatto di vivere e questa sensazione non è figlia di alcuna struttura dogmatica. Io non sono in grado di spiegare ciò che alimenta positivamente il mio umore, ma è qualcosa di autentico che sfugge alle parole e che a mio avviso non può scaturire direttamente da nessun indottrinamento. Forse dovrei ricorrere a due termini filosofici per dare una vaga idea di ciò che intendo e con l’accostamento del cinismo filosofico allo stoicismo potrei lasciare un indizio a questo riguardo, tuttavia quest’ultimo risulterebbe tale persino per la mia capacità descrittiva data la natura sfuggente della sensazione stupenda che mi accompagna da un po’ di tempo e che ho fatto oggetto di esame per l’ennesima volta. Se io leggessi queste parole con gli occhi di un estraneo non potrei fare altro che schernirle. Ciò che ho scritto finora risulta vago e approssimativo persino per me, ma il carattere indeterminato di questo appunto non dipende affatto dalla mancanza di conoscenza dell’argomento in questione ed è soltanto la conseguenza della difficoltà di spostare una sensazione da un piano ineffabile a un piano intelligibile. Pazienza.