Sono nato più di ottomila giorni fa e inizio a sentirmi un po’ vecchio nonostante la mia età sia l’emblema anagrafico della giovinezza. Certe volte mi dispiace che il caso non mi abbia assunto nel mondo degli aborti e se potessi tornare nell’utero di mia madre forse insisterei con fermezza per aderire alla congrega della morte prenatale. Sono stato un feto inascoltato e ora che ho quasi ventitré anni sono contento di appartenere a questo mondo biologico, ma immagino che talvolta il mio piacere di vivere sia il frutto della mia abitudine di respirare. Ogni tanto la mia serenità intermittente lascia il posto all’ipocondria e quest’ultima non dimentica mai di ricordarmi la precarietà della vita, ma ormai sono cresciuto abbastanza per lasciarmi intimorire dall’ipotetico avvento di patologie devastanti. Certi giorni cammino nudo sotto grandinate di stress inspiegabile. Conosco l’origine del mio malessere saltuario e mi sto adoperando da anni per diminuirne l’azione corrosiva, ma in tutto questo tempo non ho notato progressi sensibili. Gli attacchi improvvisi e apparentemente ingiustificati di entusiasmo esistenziale rappresentano l’aspetto che più mi esalta della vita, ma non escludo che in futuro io possa imbattermi in fenomeni di maggiore intensità. Non conosco l’esistenza, ma solo ciò che ho vissuto e penso che questo limite gnoseologico mi accomuni a tanti altri individui e ai loro errori. A volte credo che riflettere sulla cosiddetta “realtà” sia tanto bello quanto melenso e che le proprie considerazioni trovino il tempo che una persona non riesce a rubare ai suoi vizi intellettivi.
Due sere fa ho ricevuto una telefonata inaspettata da Karimun, l’ortopedica venticinquenne che ho conosciuto durante il viaggio di ritorno dal Giappone. È venuta in Italia per trascorrere qualche giorno di vacanza e oggi ripartirà per l’Inghilterra. Mi avrebbe fatto piacere incontrarla durante la sua breve permanenza a Mestre per scambiare qualche parola con lei e farle pesare il fatto che non è bionda, ma non ho ricevuto abbastanza ispirazione dal mio lato folle per partire alla volta del Triveneto. Avrò un’altra occasione per incontrare Karimun e la sua indole multietnica. È carina, piuttosto intelligente e indipendente, ma non provo nulla per lei e solo il mio bisogno di affetto la desidera. Mi gioverebbe una relazione con lei, ma non ho alcuna intenzione di instaurarla perché non ne sono attratto e come ho già scritto solo il mio bisogno di affetto ne è affascinato. Continuerò a privarmi di qualsiasi gioia carnale e platonica fino a quando non incontrerò una ragazza in grado di evocare la parte più profonda e sconosciuta della mia personalità. Corro un rischio abbastanza grande, infatti è possibile che in futuro io non abbia altre occasioni sentimentali, ma preferisco convivere con il nulla che mentire a me stesso e ai sentimenti di un’altra persona. La sofferenza che genera questa mia rinuncia è salutare e penso che mi faccia bene. Non critico chi usa il cazzo al posto del cuore, ma ho visto troppe vite rovinate dall’incapacità di soffrire e attendere in solitudine. Non è ancora il tempo per il mio primo bacio, non è ancora il tempo per il mio primo contatto con le ovaie di una ragazza, ma è decisamente l’ora per ascoltare un singolo di Mark Knopfler che risale al 2000: “What It Is”.
Osservo con distacco i miei desideri intermittenti e al contempo cerco di preservare la loro intensità. In certi periodi parossistici la mia mente si è focalizzata prevalentemente sulle mie mancanze affettive e ha sabotato il mio contatto con la realtà. Una delle prove di quanto ho appena affermato si trova in alcuni scritti risibili di questo blog. È incredibile quanti inganni autolesionisti riescano a scavalcare le mura della volontà. Nei mesi scorsi ho lambito le mie attuali sensazioni di pace e benessere. Sono sereno e incompleto. Il mio lavorio introspettivo mi ha permesso di fare molti passi in avanti sul piano psicofisico, ma non è ancora riuscito a penetrare più di tanto nei campi che si trovano al di fuori della mia sfera individuale. Confido nella mia perseveranza ed evito di crearmi aspettative soffocanti. Ascolto me stesso e raramente faccio affidamento sulle parole di chi ha la smania di dispensare consigli. Il mio atteggiamento può sembrare altezzoso, ma in realtà si tratta di un rifiuto verso una forma snaturata di altruismo. Ogni tanto qualche buontempone cerca di appiopparmi le sue convinzioni. Credo che i samaritani della domenica tirino fuori la loro verità dalle loro tasche bucate per cercare di valorizzarla con l’approvazione degli altri. Insomma, taluni giocano a fare gli psicologi o le crocerossine per sentirsi meglio e la loro filantropia è un mezzo e non un fine. Preferisco proporre silenzio o ironia al cospetto della sofferenza altrui perché credo che il conforto per determinate afflizioni non possa provenire dall’esterno. Non bado al fiato sul collo che proviene dagli istinti carnivori del tempo. Accolgo le angosce con espressioni silenziose. È una giornata stupenda.
Dammi, dammi quello che non ho mai avuto anche se non mi spetta. Fammi sentire una parte di te. Strappa dalle mie mani la tentazione di pregare un dio umano e non lasciarmi solo. Accompagnami in un posto senza nome: seguimi o lascia che io segua la tue tracce fino alle porte di una nuova vita. Prima che i nostri corpi inizino il loro declino, prima che i nostri desideri diventino la struttura portante della più grande rovina che si possa costruire. Manca il respiro, mancano le parole, mancano le occasioni. Curiamo ed elogiamo i nostri giardini, ma non facciamo nulla per evitare che il loro ingresso venga sbarrato dalle inibizioni. Adoro il collo alto del tuo maglione nero, si intona perfettamente con la banalità dei miei incubi ed è un peccato che io non conosca i tratti del tuo viso. Guardami per sbaglio: sono l’espressione sana del vuoto. Ho controllato anche nelle fessure, ma non c’è nulla nel mio passato né nel mio presente che assomigli a ciò di cui ho bisogno; non ho ancora avuto tempo di rovistare nel futuro, ma ti terrò informata. Guardami un’altra volta per errore: sono la cellula metastatica di una gioventù terminale. Tu chi cazzo sei? Come ti chiami? Dove ti trovi? Non sai chi sono, non conosci il mio nome e non immagini quale sia il mio numero civico. Cerco l’anello di congiunzione tra la mia vita e una vita che non mi appartiene. Non ho un appuntamento, ma sono ugualmente in ritardo. Un piccolo numero di prestidigitazione: riesco ancora a tirare fuori sorrisi spontanei dal mio cilindro rattoppato. A carnevale indosserò una maschera d’ossigeno e per il resto dell’anno tratterrò il fiato.
Credo che il dolore interiore sia un’immensa fonte di apprendimento. La sofferenza è una materia prima che abbonda nella mia realtà individuale e cerco di lavorarla con pazienza e attenzione per costruire opere monumentali in onore della mia serenità. In questo periodo funereo non riesco a scorgere nulla di buono attorno a me, ma non mi lascio scoraggiare dalle visioni desolanti che appaiono prepotentemente di fronte ai miei occhi ogni volta che serro lo sguardo. Provo rispetto per il dolore e non ho alcuna intenzione di narcotizzarlo per ridurre l’intensità della sua presenza. La tenerezza della nicotina, i flussi conviviali e solitari degli alcolici, le esasperazioni sensoriali delle droghe, la furbizia dei sofismi, le consolazioni delle religioni, i piaceri del vittimismo e la banalità delle parole di conforto hanno le stesse radici palliative e trovo che non servano a un cazzo. Non ho bisogno di avere un’identità definita in questo mondo anonimo. Non ho segni di appartenenza a qualcosa di tangibile e non sono legato affettivamente a nessuno. Sono un punto interrogativo che sorride. Non ho un tatuaggio che rappresenti in superficie, e superficialmente, una parte di me, ma sfoggio con naturalezza alcune cicatrici intelligibili. La vita è meravigliosa e non credo affatto che sia il dono di una fantomatica divinità imposta a milioni di fantocci di carne. Sono uno sbarbatello che non si è ancora scontrato con l’innominabile forza dell’amore. Continuerò a lottare in mezzo alle inquietudini e alla merda per difendere l’integrità della mia esistenza vuota.
Sono immerso in un altro giorno senza personalità, ma le sfumature monotone delle ore di veglia non costituiscono un grande problema per la mia serenità. Il modo in cui i palazzi recepiscono la luce del sole non mi suggerisce nulla di nuovo. Ho una buona tolleranza al freddo e ogni tanto esco a maniche corte per dimenticare il gelo che attanaglia la mia interiorità. Non c’è nulla che mi intimorisca in questa fase della mia vita e mi chiedo se sia un bene. A volte ho degli scatti d’ira solitari a seguito dei quali le mie nocche colpiscono oggetti di varia forma che puntualmente arrestano la loro caduta sul pavimento della mia stanza. Le fauci bavose delle frustrazioni cercano di sfondarmi lo sterno per uscire allo scoperto. Addomestico il mio lato peggiore con la pazienza, ma in certi momenti la negatività, che si è deposta nel corso degli anni sul fondo delle mie sensazioni, sfugge al mio controllo e assume le sembianze inodori del monossido di carbonio. Sono sotto pressione. Le contraddizioni mi guardano minacciosamente, le mancanze affettive balbettano frasi insensate, alcuni drappelli di rimpianti partigiani esigono un ruolo di primo piano nella mia esistenza e un folle dottore senza scrupoli vuole iniettarmi dosi massicce di stress. La fortuna è una troia che ultimamente si rifiuta di battere dalle mie parti. Un orgoglio positivo sorregge la mia saluta psichica. Sono il mio migliore amico, il mio angelo salvatore. Sono una carezza artificiale che mi fa sentire importante.
In questo ventitreesimo giorno di dicembre scorgo il profilo di una nuova fase della mia esistenza. Penso continuamente al mio viaggio in Giappone e non vedo l’ora che il mio passaporto elettronico sia pronto. Il periodo natalizio incrementa la quantità di ozio presente nelle vene delle mie ventiquattrore quotidiane, ma la sua azione soporifera non riesce ad assopire i miei desideri latenti. Seppellisco lentamente i rottami del passato nella periferia della mia mente e tra un colpo di vanga e l’altro osservo le meravigliose incognite del futuro. Per me è importante vivere da solo i momenti funesti che ogni tanto fanno capolino dal crinale del presente. Vivo il dolore in una dimensione individuale e lo affronto pericolosamente in luoghi isolati. Sono vivo e sono in salute, sono giovane e sono deciso a versare serenità e consapevolezza sul seno della mia vita. Non mi aspetto che tutto vada bene e sono pronto a fronteggiare nuove avversità. La mia soglia di sopportazione del dolore è aumentata molto in questi anni e adesso non temo più di mettere piede in alcune zone d’oscurità. Continuo a forgiare il mio carattere a colpi di interiorizzazioni ponderate e non smetto mai di battere il martello sulla mia coscienza. Sono esaltato dallo scontro con l’infelicità e spero di avere la meglio. Non ho nulla da perdere e non ho intenzione di permettere che qualche ferita morale mi uccida. Sono stato sconfitto molte volte e probabilmente subirò altre disfatte, ma continuerò a oltranza la mia disputa per la pace dei sensi.
Credo che io abbia conferito un valore eccessivo alle persone che hanno lambito i confini dei miei sentimenti più profondi. L’urgenza di manifestare e ricevere amore mi ha indotto a incredibili errori di valutazione in ognuna delle tre esperienze che ho avuto con il gentil sesso. Quando una ragazza esercita una forte attrazione fisica e morale su di me un meccanismo nocivo si impadronisce del mio metro di giudizio; inizio ad attribuire doti straordinarie alla persona che mi attira e inconsapevolmente creo aspettative esasperanti. I tre rapporti platonici che ho avuto finora, e che rappresentano la totalità del mio bagaglio affettivo, sono accomunati dallo stesso iter: all’inizio una ragazza si sente attratta dall’apparente indifferenza che emanano le mie parole, dalla mia autoironia e dalla atipicità della mia vita, poi mi lascia credere che io sia il suo principe azzurro con un pene modesto e infine fugge dalle mie dichiarazioni melense per andare incontro a un’altra persona. Al termine di ogni rapporto platonico ho sempre ricevuto l’invito della coprotagonista di turno a mantenere un profondo rapporto di amicizia, ma non l’ho mai accettato. Se penso alle mie sofferenze sentimentali, compresa l’ultima, non posso fare a meno di ridere, ma fortunatamente queste esperienze risibili hanno contribuito ad accelerare la maturazione della mia volontà di amare. Lungi da me qualsiasi tentativo di ridimensionare le tre ragazze che hanno lambito la verginità del mio cuore e del mio cazzo. Vivo senza fossilizzarmi sui ricordi e al contempo evito che la mia mente dimentichi le mie esperienze. Sono giovane e ho ancora tutto il tempo per fallire. Tutto sommato è proprio una bella giornata di dicembre.
La fine di una storia mai iniziata
Pubblicato domenica 17 Dicembre 2006 alle 07:13 da FrancescoAttorno alle quattro di stanotte J. ha posto l’ultimo sigillo sulla conclusione del nostro rapporto platonico e lo ha fatto tramite un SMS: “Fra’ penso che sia giusto che tu sappia che ho conosciuto un’altra persona. Spero che tu capisca. Questo non vuol dire sparisci!”. Probabilmente voleva dirmi questa cosa da un po’ di tempo, ma credo che sia riuscita a trovare il coraggio solo qualche ora fa. Per la terza volta nella mia vita qualcun altro è stato preferito a me: tre su tre è un’ottima media. Sono abbattuto, i miei occhi a causa delle lacrime sommesse sembrano degli oblò sfiorati dalle acque oceaniche e non mi vergogno a scriverlo. Credo che il tempo debba ospitarmi di nuovo nella sua clinica. Adesso inizia la fase più dura di questa patologia emotiva così diffusa che di solito viene chiamata “abbandono”. Rammarico, impotenza, afflizione e stanchezza. Prima di oggi sono passato per due volte attraverso questo limbo e ne sono sempre uscito più forte, senza sacrificare l’intensità della mia volontà di amare. Il male vuole uccidermi e forse un giorno ci riuscirà, ma per ora deve rassegnarsi a guardare il ghigno di sfida che campeggia sulla faccia di questo ventiduenne in ginocchio. Ho adorato J. per quasi un anno e in parte sono contento della sofferenza che da un paio di ore si è nuovamente impadronita di me perché mi fa sentire vivo e mi ricorda quanto siano state vere le mie parole in tutti questi mesi. Un altro fallimento si è insinuato nella mia esistenza, ma io sono ancora qui e sono pronto a riprovare con ancora maggiore intensità. Sono soddisfatto di tutto quello che ho manifestato a J. e di come l’ho salutata per sempre. Le ho detto che le voglio bene, ma che non posso rimanere nella sua vita come un semplice amico perché ciò che provo ancora per lei non può essere ridotto a una mera amicizia. Infine le ho augurato molta felicità perché credo che se la meriti davvero. Buona fortuna J. Ci saranno sempre due destini che si sfioreranno senza mai toccarsi. Il tempo trasformerà il mio sentimento per lei, che in queste ore continua a vivere in me, in un dolce ricordo. La mia forza interiore si palesa in tutto il suo splendore in queste occasioni e mette in risalto il lato positivo dell’orgoglio. È fondamentale rischiare ogni frammento di sé stessi per l’amore senza fare calcoli e senza alzare barricate per proteggersi dal dolore. Sono stato scartato un’altra volta, sono stato rifiutato con gentilezza, ma sono ancora al mio posto. Devo assecondare le mie pene per un po’ e sfogarmi con il pianto sommesso di cui ho parlato ieri. Non ho paura di un cazzo e che la morte si fotta. Anche se dovessi concludere la mia vita da sconfitto, l’amore, questa parola così imbarazzante per qualcuno, continuerà a regnare e a benedire i suoi discepoli. Ho scattato poco fa la foto che si trova in fondo a questo ammasso di frasi e voglio che si fossilizzi sotto questo inno per ricordarmi chi sono e cosa provo.
Il tempo mi ha dimesso dalle sua clinica di fortuna e mi ha rilasciato un ticket che ho già utilizzato per farmi catapultare di nuovo in mezzo ai miei giorni senza senso. Un oracolo muto mi ha dato un consiglio, ma non sono riuscito a sentirlo. Attorno a me c’è ancora un grande vuoto che si bea di fronte all’intermittenza degli addobbi natalizi. Sono abbastanza sereno, ma non posso fare a meno di avvertire per l’ennesima volta l’aura di incompletezza che riposa sopra la mia vita. A volte mi sembra che il disco delle mie sinfonie interiori si sia incantato nel punto più dolente. Voglio disseminare suoni armonici sulle mie orme. Ogni tanto provo a immaginare la forza meccanica che occorre per generare un figlio: i movimenti ripetitivi del bacino maschile, il cigolio delle pulsioni e la baldanza egoistica della sessualità umana. Cado sempre sugli stessi argomenti, ma non posso farne a meno. Ciò che mi spinge a scrivere continuamente è la necessità di avere almeno un approccio teorico con alcuni fenomeni che non conosco affatto: amore, morte, perversione e altruismo. Certe volte penso che la mia inesperienza nei campi anzidetti mi offra un punto di vista privilegiato per osservare la parvenza della realtà che si manifesta quotidianamente di fronte ai miei occhi. Voglio lasciarmi alle spalle tutte le parole ampollose con le quali descrivo assiduamente la mia esistenza, ma ancora non posso farlo. Sono aggrappato alla mia grammatica precaria e mi auguro di lasciare presto la sua presa per piombare in una dimensione che non sia fondata unicamente su frasi superficialmente appariscenti. Una breve nota per me stesso: ricorda che queste non sono parole cupe.