È una notte più buia del solito, ma la sua cupezza è innocua ed è per questo motivo che non ne sono intimorito. Ieri ho perso un’occasione splendida, ma il mio amore per la vita è ancora lo stesso e ne sono felice. Quando mi sento un po’ giù penso a tutte le persone che ho incontrato per caso nei posti in cui ho messo piede e mi tornano in mente alcune delle parole che ho scambiato con loro. Ogni tanto vedo ancora gli sguardi semplici di certi interlocutori che ho incontrato una sola volta nella vita e ricordo con piacere qualche confessione simpatica che ho raccolto nottetempo durante l’attesa per un treno mattiniero. Non ho mai stretto un sodalizio con chicchessia, ma al contempo non ho mai negato a nessuno una risposta e ho compreso quanto sia sublime la convivialità che nasce spontaneamente e si esaurisce poco prima che il treno di uno degli avventori parta da un binario numerato. Amo le considerazioni ironiche e le battute volgari che riempiono le file. Io sono parte della massa anche se conduco una vita un po’ sui generis. Ho sempre amato il caos urbano e ogni volta che visito una metropoli da solo mi sembra di sbarcare in uno splendido Eden composto da chiacchiere sovrapposte e da idrocarburi. Mi piacciono le moltitudini di persone, amo la ressa e la concitazione, ma in uguale misura riesco a gioire del silenzio agreste che talvolta raggiungo in sella alla mia bicicletta. Le parole non mi dicono granché, ma di fronte ai fatti mi levo il cappello senza fiatare. Nel corso della mia giovane vita ho commesso qualche errore di giudizio e ho omesso qualche decisione importante, ma quando ripenso a ogni cosa che mi sono lasciato alle spalle mi viene da ridere e non riesco a pentirmi degli sbagli che hanno contribuito al mio sviluppo. Il melodramma non mi dona, ma una busta di cartone in testa mi starebbe a pennello. Amo l’autoironia e in questo momento non sono in grado di essere triste anche se dovrei esserlo per rispettare gli obblighi contrattuali della logica.
Mi sento libero e sereno. Mi godo la bellezza del mio luogo natio e colleziono attimi di pace davanti all’imperfezione di scenari incantevoli. Gusto la mia giovinezza con semplicità anche se ogni giorno che passa rischio di allontanarmi per sempre dalla possibilità di annullare un nubilato. Mi tengo in equilibrio sul nulla e sono meravigliato dallo splendore che si diffonde dalle mie giornate vuote. Tutto il nichilismo che mi attraversa si trasforma in una gioia di vivere che non dà spiegazioni. Quando mi sento un po’ alienato mi metto alla ricerca delle origini dello stato di benessere che spesso si impadronisce di me e ogni volta finisco per pensare che il principio della mia condizione positiva si trovi nel modo in cui sono cresciuto e nell’assenza di tutto ciò che mi sono negato per fattori contingenti. Conosco persino l’etimologia di ciò che manca alla mia esistenza, ma allo stesso tempo mi rendo conto che si tratta di qualcosa che non dipende unicamente da me e questa convinzione, patrocinata dalla realtà, mi permette di accettare le peggiori ipotesi che si possano formulare in proposito. Una parte di me contiene un orgoglio ancestrale che concerne l’individuo nel suo rapporto solipsistico con la natura e un’altra parte ammira la prima, ma ne riconosce anche i limiti e spinge i miei sensi a inseguire i sensi muliebri in nome di uno stimolo chimico che tuttavia trascende la chimica. Nelle mie parole un po’ ricercate ricorre un argomento che verte su una ricerca ricorrente che muore soltanto quando i ricordi, o chi ne fa le veci, fuggono dal passato e si stanziano nei pressi del futuro.
Porta un rubino all’anulare destro e sfoggia due smeraldi nelle cavità oculari. Sembra che voglia un tetto sopra la testa per allentare i pesi che ha sulla coscienza. Ruba e mente, ma non è una ladra né una bugiarda. Il suo fascino è delicato ed è totalmente estraneo ai canoni di bellezza che vanno per la maggiore nei miei emisferi cerebrali. La sua personalità contiene ancora dissapori adolescenziali, ma dal suo volto austero non traspare questa caratteristica. Ella dispone di un sorriso esperto e di un’emotività suscettibile quanto la nitroglicerina. Ha sembianze mitologiche: metà Afrodite e metà Idra di Lerna. La mia curiosità s’interroga spesso sulle nudità di questa creatura e prima di addormentarmi la fantasia mi spinge a cingerle i fianchi eterei. Adoro la sua intelligenza e il modo in cui certi aspetti del suo comportamento si legano alla conoscenza che ha accumulato in meno di vent’anni. Costei sta su una sponda mentre sull’altra giace ammiccante la solitudine in tutta la sua beltà immortale e in mezzo scorre la realtà con cui compio abluzioni quotidiane. Quando penso a lei scorgo macchie anomale sopra un cielo limpido e mi chiedo se i miei sensi debbano omaggiarla o meno. Mi piace il suo cranio, ma disprezzo certi impulsi che talvolta crescono celermente al suo interno e poi si manifestano con violenza verbale per ordine dell’isteria. Mi chiedo se le coincidenze mi abbiano presentato una mantide religiosa o la parte mancante di quella felicità complementare che non ho ancora conosciuto a differenza della gioia individuale che conosco a menadito.
Sentimenti eterni nel passato remoto
Pubblicato venerdì 15 Giugno 2007 alle 13:47 da FrancescoTempo addietro una ragazza mi concesse il suo interesse con euforia. Non sfiorai mai il suo corpo, ma ricevetti in dono le sue confessioni più profonde. Mi parlò compiutamente dei suoi trascorsi e io, per tutta risposta, ne adulai la dissolutezza. Avvennero traffici di parole e lentamente emersero incongruenze insanabili. Ella mi accusò più volte di inerzia e alla fine mi voltò le spalle con una lacrima di troppo, ma io continuai a stimarla anche in seguito alla sua uscita di scena: si trattò di un’ovazione che protrassi di fronte a un sipario chiuso. Il mio ozio fu la causa del nostro distacco e più volte pensai alla mancanza di pragmatismo che lei mi lasciò come addebito morale. Le dita che avrei voluto inanellare puntarono il mio capo per formulare accuse di inettitudine e mi condannarono all’esilio, ma negli anfratti del castigo ritrovai la solitudine ed essa chiuse un occhio sul mio allontanamento dalle sue grazie e con l’altra pupilla mi sedusse ancora una volta. Le mie qualità non riuscirono ad arrampicarsi sino alle pendici dei miei simili, ma rimasero appese a testa in giù come pipistrelli pigri. Le esplosioni sentimentali di altri esseri umani illuminarono il mio immaginario e io godetti di quella pirotecnica emotiva con piacere e discrezione. Non fui il protagonista dell’opera più nobile a cui ogni persona si candida fin dalla nascita, ma rimasi per forza di cose o per assenza di forze nelle vesti del mio personaggio secondario e trascorsi in sordina il mio ruolo marginale. Mi cibai di un appagamento incompleto e versai gioie naif in un Santo Graal di plastica.
Oggi compio ventitré anni e sinceramente non me ne frega un cazzo. Mi sento ancora un adolescente e sono abbastanza contento di come spendo il tempo da solo. Non ho mai fatto progetti e non ne ho in serbo nemmeno per l’anno venturo. Mi sento bene e sono pago di me stesso. Qualche volta faccio a cazzotti con il mio Ego, ma si tratta di risse introspettive senza conseguenze gravi che affondano le radici nella noia. Non ho tra le mani un nome da affiancare al mio ed è per questo motivo che durante l’appello giornaliero del mio stato emotivo alzo la mano due volte per confermare la mia duplice presenza. Sono libero dalle passioni che non ho mai abbracciato e non rimpiango i vizi deleteri che guidano le vite dei miei simili. Sto lontano dalle giustificazioni e dai comportamenti artificiosi. Prendo a calci l’elemosina della casualità e mi tengo stretto la purezza del nulla. Cerco di chiamare le cose con il loro nome e massacro me stesso ogni volta che perdo un po’ di naturalezza. Sono distante anni luce da tante cose e talvolta mi piace contemplare le mie lontananze stellari senza curarmi degli orizzonti esistenziali. Vado a passo d’uomo e non riesco a fare il passo più lungo della gamba. Sono al centro delle mie attenzioni in mezzo a spazi immensi e mi interesso al mondo per hobby. Lascio che tutto scorra e non agisco solo per paura dell’inerzia. È difficile restare fermi per molti anni, ma penso che la mia immobilità mi abbia permesso di evitare gli errori che nascono dallo stimolo delle necessità meccaniche. È il sei giugno e io sono in dirittura d’arrivo.
In questo secolo in cui la vita umana viaggia sempre più speditamente la solitudine spesso è stigmatizzata e temuta. L’ho già scritto in passato e lo ripeto nuovamente: la solitudine può essere la più sadica delle carnefici o la migliore precettrice che un individuo possa incontrare lungo la sua esistenza. La mia sensibilità continua ad affinarsi grazie a un isolamento prolungato che è inframezzato da momenti aleatori di socialità. Non ho mai avuto legami affettivi e di conseguenza non ho subito le cattive influenze delle delusioni giovanili. I miei sentimenti sono vergini come la mia sessualità e devo la loro autenticità alla mancanza di risentimento che spesso alberga nei cuori dei miei simili. A questo punto della mia giovane vita inizio ad avvertire un profondo senso di distacco da tutte quelle passioni che non ho mai provato. È come se camminassi tranquillamente in mezzo a una folla che corre e scalcia per accaparrarsi un pezzo di carne e qualche sentimento artificiale con il quale condire un po’ il pasto dell’egoismo. Non mi appartiene la fame di sesso dei miei coetanei, non mi appartengono le infatuazioni, non mi appartiene la debolezza della carne e non mi appartengono i sentimenti costruiti a tavolino. L’autocontrollo e la volontà di osservare il mondo da un’ottica imparziale ripagano tutte le rinunce e gli sforzi con i quali tento di migliorare me stesso. La mia mente atea non si nutre di principi religiosi e rigetta qualsiasi consolazione oppiacea, il mio corpo caucasico gode di salute e compie fatiche salubri. A volte mi sento combattuto, ma mediamente riesco a gioire del vuoto sul quale cammino e spero di continuare a procedere in salita fino al giorno della mia estinzione.
L’istinto è un’arma a doppio taglio e spesso devo contrastare il suo lato nocivo per evitare che prevalga nelle mie azioni. Qualche giorno fa ho scritto che dentro di me si annida una grande voglia di amare, ma porto in grembo anche un odio profondo per la somma delle mie sconfitte esistenziali dal quale attingo energia per allenarmi fisicamente. Per esercitare la mente cerco di sfruttare i momenti di relax, ma ultimamente non ne ho molti. Vivo sotto pressione anche se non ho impegni né responsabilità. Un male oscuro mi marca a uomo, ma riesco ad allontanare la sua presenza quando gioco d’anticipo con la mia personalità. Credo che ci voglia una giusta dose di cattiveria e di determinazione per reggere gli attacchi dello sconforto e della pesantezza di vivere. È proprio nei momenti più bui che il mio talento si esalta. Sono stato un individualista per scelta e adesso lo sono contro la mia volontà: conosco entrambe le facce di questo ruolo pericoloso e mi sento un fuoriclasse della solitudine. Ammiro la mia capacità di sopportazione e la mia voglia di rimanere ancorato il più possibile alla realtà anche quando si rivela scomoda per il mio tornaconto emotivo. Il vittimismo è un campionato per dilettanti mentre il delirio e la furia per la lotta contro i propri limiti rappresentano la massima serie a cui la propria forza psicofisica può ambire. Schiero un cuore che pulsa, un lato poetico, una motivazione severa e una riserva di energia grezza. Sono giovane e al tempo stesso sono un veterano dei campi vuoti. È il fascino della fatica e l’orgoglio che riveste la possibilità di essere sconfitto per sempre che alimenta la mia estasi e nutre le mie giornate. Giochiamo a oltranza.
Se fossi un attore i critici mi accuserebbero di non bucare lo schermo e io converrei con il loro giudizio. Non so recitare, ma vivo in una commedia dove individui di diverso calibro culturale s’impegnano a interpretare il ruolo che si sono assegnati. Non intendo colpevolizzare qualcun altro per i miei sbagli e per le mie mancanze. Sono in dirittura d’arrivo per i miei ventitré anni e finora non sono mai riuscito a dare o ricevere amore, persino mia madre ha preferito allontanarmi un po’ per ricongiungersi con quel figlio di troia del mio presunto padre. Sono stato declassato e messo da parte più volte, ma ormai ho tagliato i viveri all’autocommiserazione e mi adopero da tempo immemore per il mio riscatto. Ammiro molto me stesso e lo affermo senza modestia. Non so ancora quale sapore abbia il primo bacio e non sono mai stato in grado di attrarre qualcuno, ma ho riserve infinite di energia e porto in spalla una voglia di amare che si scontra quotidianamente con la realtà. Ho aumentato il mio passo, adesso ho una marcia più alta e con questo ritmo serrato cerco di doppiare i limiti che mi rallentano. Lascio ad altri il compito di piangersi addosso e il piacere di correre a braccia aperte contro un Intercity in movimento. Certe volte la mia costanza ha dei cali e puntualmente cado in baratri emotivi che per uno o due giorni mi impediscono di fare qualsiasi cosa, ma ho imparato a percepire questi momenti come delle indispensabili occasioni di riposo. Il livello di difficoltà della mia esistenza è condizionato anche dall’assenza di sostanze psicotrope, da lunghi e intensi momenti di isolamento, da una discreta collezione di fallimenti e da una totale mancanza di affetto psicofisico, ma ognuna di queste menomazioni interiori mi conferisce il propellente adatto per procedere verso traguardi aulici. Ho dei bisogni celestiali che mi bruciano nell’addome e mi sento vivo in mezzo a visioni funeree.
Qualche settimana fa Karimun (la ragazza inglese di origine bengalese che ho conosciuto durante il volo di ritorno dal Giappone) mi ha proposto di unirmi a lei per un viaggio piuttosto lungo, ma dopo l’entusiasmo iniziale ho riflettuto e ho deciso di non partire. L’incontro con Karimun è stato straordinariamente aleatorio ed è stato uno dei momenti più belli della mia esistenza, nonostante abbia scambiato con lei solo discorsi intimi e battute di dubbio gusto. Se la rivedessi mi innamorerei di lei, ma in questo caso il mio innamoramento sarebbe dettato dalla necessità di stare con qualcuno e non da un sentimento vero e profondo. Non sono disposto a mentire a lei né a me stesso solo per conquistare un po’ di felicità e per questo motivo credo che non la incontrerò mai più. Cerco di preservare i miei sentimenti e la loro purezza anche se il tempo vuole farmi credere che in futuro non avrò altre possibilità per conoscere qualcuno a cui donarli. Diffido della convenienza e dei suoi consigli. Non voglio gioie superficiali e piuttosto preferisco giacere nel nulla. Prima di amare qualcun altro devo amare me stesso e per amare me stesso devo fare sacrifici fisici e mentali senza aspettarmi necessariamente una ricompensa. La sincerità mette in mostra le proprie debolezze e attira più calci in culo che sorrisi, ma cerco sempre di praticarla perché non conosco un’altra via per giungere a una relazione umana in grado di trascendere i vincoli terreni. Cercare di essere veri non porta automaticamente risultati e non dà il diritto di sentirsi in credito con il mondo, ma la menzogna cronica elimina anche anche la più piccola possibilità di ottenere risultati aulici. A Karimun ho scritto le stesse cose, ma grazie all’inglese ho avuto modo di usare un numero minore di parole e uno stile più sgrammaticato.
Evado da me stesso e dai miei limiti per cercare un’evoluzione personale che mi permetta di dare un senso alla mia respirazione. Dalle grate della mia cella emotiva vedevo solo una distesa arida senza fine, ma ho deciso ugualmente di calpestare le crepe della terra morente invece di piegarmi alle comodità della galera esistenziale. Con un passo dopo l’altro mi dirigo verso una leggendaria oasi di pace che non ha nome né descrizione. Sudo anni di riflessioni inutili e occasioni perse, ma nell’incostanza del mio cammino alienante scorgo la forza che mi sospinge senza ragioni apparenti e mi rendo conto che in questo processo prevalentemente meccanico si annida una bellezza sconfinata e ancora acerba. Sia a destra che a sinistra vedo gente che traina pesi più grandi dei miei e non riesco a provare compassione reale per le loro fatiche. Non servono le bussole, i libri mentono e in questo caso persino la stella polare risulta inutile. Non riesco sempre a fidarmi di me stesso, ma non ho altri punti di appoggio a parte il mio Ego e ogniqualvolta mi nego un po’ di fiducia cado a terra e faccio incetta di sabbia con gli occhi e con il palato. Non sono sulla via di Damasco. Ormai non mi chiedo più quando e dove arriverò, ma cerco di concentrare tutte le mie forze sul ritmo della mia marcia solitaria e appendo tra cielo e terra tutte le mie domande senza risposta. Sono così vago in questo scritto vacuo. La mia voce pronuncia frasi di incoraggiamento abbastanza convincenti e voglio ascoltarla per un po’ prima di mettere il prossimo segno di interpunzione.