Iersera mi sono recato alle porte di Roma per vedere Frank Gambale al Crossorads Club, lo stesso locale in cui tredici anni fa lo ascoltai per la prima volta dal vivo: è stato uno dei migliori concerti a cui abbia mai assistito. Oltre al buon Frank ho avuto modo di apprezzare anche Dominique Di Piazza al basso, ma tutto il quartetto è stato stellare!
Due virtuosi in una settimana (Malmsteen lo scorso venerdì): quando mi ricapiterà? Questa volta al buon Frank ho fatto firmare un suo album in CD, Coming to your senses che acquistai quasi vent’anni or sono: fu il mio battesimo di fuoco nel mondo della fusion!
Venerdì pomeriggio mi sono messo alla guida del mio catorcio per raggiungere la culla del Rinascimento con il fine precipuo d’assistere al concerto del leggendario Yngwie Malmsteen, un chitarrista divisivo che io ho sempre venerato e per il quale non mi aspettavo che vi fosse ancora una così grande attenzione in Italia, difatti avrei dovuto vederlo nella data del giorno prima in quel di Ciampino se, con mia somma sorpresa, le prevendite per la tappa laziale del tour non si fossero concluse con il tutto esaurito: sold out!
Poco male giacché da anni mi ripromettevo di mettere piede nel Viper Club, un locale fiorentino che non di rado ospita artisti di mio gradimento ma nel quale non avevo mai avuto occasione né voglia di recarmi prima: c’è voluto uno stato di necessità per vincere la pigrizia e la convenienza. Ne è valsa la pena!
La serata è stata fantastica ed esaltante: Malmsteen si è fatto trovare in forma strepitosa, come sua abitudine ha lanciato molti plettri verso i questuanti e ha proposto alcuni tra i brani più celebri della propria discografia. Ho avuto la fortuna e la tenacia di guadagnarmi un posto in prima fila ancorché un po’ defilato: ripeto, concerto eccelso, già inciso su pietra e nella mia materia grigia come uno dei migliori ricordi della mia carriera da spettatore.
Di recente ho visto questo film del 1973 che a mio parere possiede un’atmosfera fiabesca e un finale meraviglioso. Di norma tendo a non dare troppo peso alle assegnazioni dei premi Oscar, ma secondo me fu ampiamente meritato quello conferito nel 1974 a Tatum O’Neal come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Addie: un’interpretazione adorabile a soli dieci anni!
Credo che Paper moon si possa definire un road movie, difatti la piccola Addie, rimasta orfana, viene affidata a Moze affinché questi la porti da alcuni parenti presso cui deve trasferirsi: Moze è un giovane truffatore che conosceva la madre di Addie e forse è proprio lui il padre della bambina sebbene egli lo neghi. La coppia scopre subito di avere delle affinità elettive nell’arte di arrangiarsi benché tra i due ci siano dei contrasti, difatti Addie è molto sveglia per la sua età e Moze, nonostante viva di espedienti, dimostra di possedere un’indole buona.
Per me il film è dettato da un ritmo perfetto, con un giusto equilibrio tra le scene urbane e quelle bucoliche, tra i momenti di rabbia e gli slanci di affetto, tra l’azione concitata e la piccola suspense. Azzeccata anche la scelta del bianco e nero per la quale Bogdanovich aveva già optato ne L’ultimo spettacolo. Per come i due protagonisti diventano partners in crime mi è tornato in mente un film di Luc Besson uscito circa vent’anni dopo: Léon.
Non aderisco a quelle convinzioni nostalgiche che negano ai tempi odierni la possibilità di figliare ottima musica, difatti ancor oggi compulso le nuove uscite nei miei generi preferiti e non di rado compio piacevoli scoperte. Non vivo nel passato sebbene quest’ultimo dimori ed echeggi in me. Certo, sono molto legato ad alcune pietre miliari, però non lascio che si trasformino in zavorre e mi tengo a galla nel presente grazie all’ambigua posizione del morto.
Negli ultimi sette giorni ho ascoltato oltre novanta volte Zio Klaus, quarta traccia di Imilla, il nuovo disco de Il Bacio della Medusa (band che seguo dal 2008 e di cui posseggo quasi tutta la discografia), un simpatico concept album di rock progressivo italiano (prog, per amici ed estimatori) che racconta la parabola di Monika Ertl, la militante dell’ELN che sparò tre colpi a Quintanilla Pereira (formandogli in petto una vu di vittoria), reo quest’ultimo di aver mozzato le mani al cadavere di Che Guevara. L’intero disco è grandioso, intriso di atmosfere da spy story che sono rese in maniera magistrale dal classico stile del gruppo, ma in Zio Klaus sento forte la vocalità alla Peter Hammill e l’impronta dei Van Der Graaf Generator, inoltre il testo di Simone Cecchini è un vero gioiello. Spero di rivedere presto Il Bacio della Medusa dal vivo in quanto serbo un bel ricordo di un loro concerto a Perugia a cui io presenziai e in occasione del quale la band registrò il suo primo live.
Avevo già apprezzato lo stile corale di Altman nel corso di M*A*S*H* (acronimo per Mobile Army Surgical Hospital), sua opera del 1970, però io trovo che in Nashville questo modus operandi venga impiegato con un’efficacia persino superiore.
Nel film non vi è un protagonista in senso classico e stretto, ma molti comprimari dall’apparenza di monadi che la narrazione via via tesse e interseca in modo eccelso a favore del suo stesso ritmo, difatti per me scorrono alla perfezione le oltre due ore e trenta di questa pellicola del 1975 dopo Cristo. Il titolo si riferisce alla celebre città del Tennessee, mecca del country, perché la musica ha un ruolo preminente nella storia e, non di rado ma volutamente, viene sovrapposta ai dialoghi, perciò ne consegue un muro sonoro un po’ confusionario in ragione di cui trovo opportuni i sottotitoli in inglese: invero non so se ne esista una versione doppiata in italiano e adoro il carattere grottesco, surreale ed esagerato di tutte le miserie ivi rappresentate.
A mio parere una parvenza di protagonista può essere rintracciata non tanto in un ruolo, bensì in una vicenda, ossia la campagna elettorale di un fantomatico politico che si manifesta solo come voci fuori campo, tuttavia è su quest’ultima circostanza che i vari personaggi si stagliano e alla fine confluiscono: lo sviluppo di questo iter è puntellato da una sagacia spassosa e da un approccio caricaturale nei suoi tratti apparentemente documentaristici.
Il country non è il mio genere musicale d’elezione, ma le numerosi canzoni presenti si sposano bene con il resto del film senza che il tutto trascenda mai negli stilemi di un musical vero e proprio. In conclusione: per me Nashville è un film tanto lungo quanto divertente e lo reputo attuale giacché ancor oggi, secondo me, dice molto della società statunitense.
Il mondo al contrario di Roberto Vannacci
Pubblicato venerdì 15 Settembre 2023 alle 15:00 da FrancescoÈ mio costume leggere con attenzione e ad alta voce, prassi che ho seguito anche per “Il mondo al contrario” del Generale Vannacci (rimandando l’inizio de “La parte maledetta” di Georges Bataille).
Non so se la mia copia sia difettosa e manchi di qualche pagina, ma non ho trovato né razzismo né omofobia e anche la misoginia risulta assente: forse non sono inclusi (ops, inclus*) nel prezzo e vanno aggiunti di propria sponte in base alla faziosità di riferimento. Chiunque decontestualizzi le frasi altrui compie un’opera meritoria giacché palesa agli altri la propria disonestà intellettuale. Per me pari(ah) sono coloro che hanno stigmatizzato o lodato “Il mondo al contrario” per partito preso: gente da cui guardarsi, gonzi di prim’ordine, danni collaterali del suffragio universale a prescindere dalle inclinazioni politiche. Lo scritto del Generale Vannacci raccoglie le idee di un uomo posato, convintamente democratico (questo per me è un difetto), pragmatico e ragionevole.
Nulla da eccepire su quanto afferma in merito alle energie rinnovabili, ossia un traguardo da raggiungere facendo però valere il principio di realtà, senza porre in essere quell’evirazione economica a detrimento dei ceti medi e meno abbienti di cui le sinistre progressiste (per me regressive) sono sostenitrici; ovvie e condivisibili le sue considerazioni in termini di giustizia, tasse e immigrazione: tutti questi argomenti sono suffragati da dati riportati come corollario e di cui ognuno può verificare motu proprio l’attendibilità. In oltre trecento pagine non vi è una sola virgola che possa indurre qualche magistrato a formulare un’ipotesi di reato, però immagino quale grande dispiacere ciò provochi lungo tutte le ZTL popolate dalla gauche caviar italiana. Il concetto di “normalità” evocato da Vannacci in merito all’orientamento sessuale fa leva su un dato statistico e non è un giudizio di valore né ha presupposti discriminatori, ma al contempo è una ghiotta occasione per chi voglia distorcere il significato delle parole pro domo sua: tanto chi se ne frega dell’autenticità, no?
Il pregiudizio diventa l’arma di chi millanta una lotta al pregiudizio stesso: questo cortocircuito mi fa pisciare addosso dalle risate. Dovrò cambiarmi il pannolone, ancora una volta.
Il Generale Vannacci non ha lo stile di Tommaso Landolfi e nel testo si succedono refusi (che ho appuntato in un file), un uso della di eufonica a me sgradito e qualche passaggio incerto, ma credo che il suo scritto non abbia intenzioni né vocazioni letterarie e quindi ogni critica esasperata alla forma mi fa sospettare che ci siano serie difficoltà a controbattere la sostanza.
Forse qualche “giornalista” non ha mandato giù il successo di un’autopubblicazione e può darsi che qualcun altro abbia dovuto accorgersi controvoglia di quale sia la maggioranza silenziosa del paese. Se Vannacci scendesse in politica io non lo voterei perché non credo nella democrazia, ma se facesse un colpo di stato avrebbe il mio pieno supporto.
Ho terminato la lettura de Il cinema secondo Hitchcock, una lunga intervista che Sir Alfred rilasciò in più occasioni a François Truffaut. Sotto il profilo aneddotico ho trovato questo volumetto meno divertente rispetto a quello curato da Peter Bogdanovich per la sua brillante intervista a Orson Welles, anch’esso pubblicato da Il Saggiatore, ma ha saputo ugualmente carpire il mio interesse e mi ha dato qualche strumento in più per inquadrare il cinema tout court: in entrambi i casi ho appreso qualcosa dall’intervistato e dall’intervistatore giacché tutti registi.
Di Alfred Hitchcock ho visto trenta film, dal 1940 con Rebecca, la prima moglie, fino al 1975 con Complotto di famiglia. Mi viene difficile esprimere una preferenza assoluta in questa panoplia di opere stupende, ma devo ammettere un’inclinazione verso La finestra sul cortile, Caccia al ladro e Il delitto perfetto per la presenza di Grace Kelly, a mio parere la donna più bella e aggraziata che sia mai scesa su questo pianeta. Apprezzo molto anche Intrigo internazionale con il leggendario Cary Grant in quanto stilistico precursore di tutta la saga basata sul personaggio di James Bond; il già citato Rebecca, la prima moglie con una stupenda Joan Fontaine e L’ombra del dubbio sono altre due pellicole di mio sommo gradimento. Forse, tra quelli da me visti, gli unici film di Hitchcock che non sono riuscito ad apprezzare sono gli ultimi due, ossia Frenzy e Complotto di famiglia. Titoli eccelsi come Nodo alla gola, Psyco, Gli ucccelli e La donna che visse due volte parlano da soli.
Di recente ho visto quest’opera di Ferreri che mancava nel mio bagaglio di aspirante cinefilo e ne ho ricavato un’opinione ambivalente. L’aperta provocazione del regista mi ha ricordato, in parte e in una forma più attenuata, quella pasoliniana di Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Laddove il film di Pasolini si occupa del potere nelle sue implicazioni più anarchiche, Ferreri, per sua stessa ammissione in un’intervista, realizza un’opera fisiologica, scevra di sentimenti, dove l’edonismo lascia spazio (appunto) alla fisicità in quanto realtà ultima; non è solo nel cibo che ravviso un vago parallelismo tra le due pellicole, ma in una più generale (e a mio parere comune) estetica con la quale l’uomo viene mostrato in quanto uomo, in quanto corporeità, in quanto finitudine. In ambo i casi credo che il registro stilistico sia simile, quello grottesco, ma differisca in intensità.
Ne La grande abbuffata è palese la disperazione borghese, la trasformazione del piacere in abitudine e quindi l’incapacità di ripetere a comando l’edonismo originario: la resa del corpo al corpo e una collettiva volontà di autodistruzione. Per scomodare Freud, così da destare in me risate verso un’altra parte di me rivolta alla cinefilia, mi sembra che nel lavoro di Ferreri si affermi la pulsione di morte con una gita stanziale e culinaria al di là del principio di piacere.
Girato perlopiù in interni e con un grande cast (i personaggi usano i loro veri nomi di battesimo), per me è un film che assolve il compito per il quale è stato concepito nelle intenzioni del regista, ovvero trascurare lo spettacolo per innescare un crudo meccanismo d’identificazione, perciò lo reputo efficace in questo senso e nullo (per i miei gusti) sotto il profilo dell’intrattenimento.
A quest’ora potrei starmene su qualche autostrada deserta a guidare col solo scopo di godermi l’aria notturna, però mi trovo bene anche a casa mia perché ho un certo riscontro, invero l’unico. Mi viene spesso da ridere perché la mia è un’indole gioviale e narcisistica: sono un puer fatto e finito. Non esistono solo i problemi reali, ma anche le loro contraffazioni che superano in numero gli originali: mi chiedo se simili riproduzioni siano trattate dai venditori ambulanti sulle spiagge e negli immediati dintorni. Cocco, borse griffate, ansie, occhiali da Sole e sole occhiaie.
Mi considero alla stregua di un pianeta e di rado, per ragioni insondabili, attiro corpi celesti con cui non entro mai in contatto: si sfiorano le orbite astronomiche e non quelle anatomiche, com’è giusto che sia. Un fatto resta certo: meglio uno squilibrio gravitazionale e l’alterazione delle maree al rischio di scambiarsi una testata nel goffo tentativo di assecondare un’effusione.
Amo molto una spiegazione che confuta certe idee bislacche e non concede spazio a ulteriori dibattiti: se la Terra fosse piatta i gatti avrebbero già fatto cadere ogni cosa oltre i suoi margini. Vedo in ogni creazione e distruzione una danza più o meno aggraziata, così come suggerisce la tradizione induista, perciò anche i rapporti tra le persone sono soggetti a questi movimenti che hanno già in nuce le loro implicazioni ultime.
Il sé viene alla mente di Antonio Damasio
Pubblicato venerdì 16 Giugno 2023 alle 00:18 da FrancescoQualche settimana fa ho terminato la gradevole lettura de Il sé viene alla mente, un saggio neuroscientifico in cui Antonio Damasio si avventura in una speculazione volta a rintracciare le fondamenta fisiologiche della coscienza. È un lavoro articolato, certosino, in cui ho trovato una buona esposizione con uno stile potabile, perciò fruibile anche da chi non sia un addetto ai lavori. I miei pochi e sparuti appunti non rendono giustizia al testo.
Nello scritto il sé è presentato come un processo diadico diviso in sé-oggetto e sé-soggetto, laddove il secondo deriva dal primo benché il sé-oggetto abbia una portata più limitata: tra i due vi è continuità e progressione, nessuna opposizione. I concetti di proto-sé (sentimenti primordiali), sé nucleare (relazione tra organismo e oggetto) e sé autobiografico (“pulsazioni” del sé nucleare) sono gli stadi che rappresentano l’ascesa del sé alla mente e quindi la nascita della coscienza.
In merito alla soggettività Damasio nega a quest’ultima un ruolo alla base degli stati mentali, bensì lo attribuisce alla consapevolezza della medesima: per quanto sottile, a me pare una differenza evidente. Le cosiddette percezioni sono indicate come effetti derivanti dalla capacità del cervello di creare mappe (le quali sono tripartite in enterocettive, propriocettive ed esterocettive): tali mappe pare che si originino in strutture subcorticali che risiedono nel tronco encefalico. A corredo di tutto riporto quanto mi ha fatto ridere di gusto per ragioni sulle quali evito di soffermarmi, ovvero l’affermazione inconfutabile secondo cui l’intenzione di sopravvivere che si trova nella cellula eucariotica è identica a quella implicita nella coscienza umana.