Ieri ho camminato più del solito. Prima ho preso la linea tre della metropolitana e sono arrivato fino alla stazione di Madu. Ho girato per Gongyang, la cosiddetta “flower city” che si trova fuori Seoul e poi mi sono incamminato verso quest’ultima per farvi ritorno. Dopo un lungo cammino di circa cinque ore, inframmezzato da un paio di soste e da qualche saluto inglese, ho raggiunto la fermata della metropolitana di Seodaemun e sono tornato nella mia zona per rifocillarmi a dovere. Durante la mia marcia solitaria ho scambiato un saluto con un giovane militare che mi ha mostrato un sorriso bambinesco più grande del suo elmetto. Tre giorni fa sono andato a Yongsan come mi ero ripromesso e mi sono ritrovato in un mercato nero della tecnologia. Ho acquistato un famoso prodotto della Sony e prima di riceverlo tra le mani per provarlo ho assistito a scene degne di un film. All’inizio ho dialogato un po’ con il venditore di turno, un ragazzone coreano piuttosto grasso che indossava una maglietta di Bob Marley e degli occhiali da figlio dei fiori. Parlava un inglese abbastanza comprensibile e ci ho conversato per qualche minuto: mi ha detto che vende abitualmente merce giapponese anche se è illegale e mi ha accennato qualcosa sulla frequenza dei controlli della polizia coreana. Quando gli ho chiesto ciò che volevo mi ha detto di aspettare e poi è andato a parlare con un altro tizio che a sua volta si è rivolto a un terzo uomo in jeans e t-shirt. Ho atteso venti minuti e alla fine ho visto arrivare un sacchetto nero. Non ho contrattato il prezzo dato che era già buono, ma ho passato qualche minuto a controllare il funzionamento del mio acquisto prima di salutare il faccione adiposo del venditore: “Have a nice day”. Dopo le compere illegali ho abbandonato Yongsan e mi sono aggirato nei pressi di Jonggak dove ho trovato il coraggio per comprare un po’ di cibo da uno dei molti chioschi fetidi che popolano Seoul.
Cammino silenziosamente nel frastuono urbano. Osservo le moto cariche di merci che passano sopra i marciapiedi, scambio sguardi casti con le mie coetanee asiatiche, inalo il fetore degli angoli più degradati di questa metropoli malsana mentre un euntusiasmo profondo circonda ogni mio passo. Passeggio sotto il sole, ma rifletto davanti all’apertura alare della solitudine e mi lascio avvolgere dalla bellezza sconfinata del senso di vuoto. Quando la frenesia moltiplica il suono di un clacson le voci convinte dei venditori ambulanti passano in secondo piano. Qualcuno legge il futuro per pochi won e qualcun altro cerca di costruirselo con un lavoro umile. Ogni tanto una tuta mimetica spunta tra la folla e spesso appartiene a qualche giovane militare: in caso di necessità è facile trovare una bandiera da agitare. Potrei vivere a Seoul solo per amore di una donna o per odio nei confronti di un ambiente salubre. Come al solito la lontananza dall’Italia mi fa apprezzare l’importanza del silenzio non come gesto velleitario di saggezza, ma come alternativa economica ai rumori gutturali che qualcuno spaccia per discorsi importanti. Tante frasi nella mia lingua madre non riesco a vederle né a sentirle quando sono composte da parole amorfe prive di contenuto e forse è per questo motivo che non ho problemi con il coreano anche se non lo conosco. Le chiacchiere sono troie che assecondano la dialettica più forte, invece i fatti sono giudici imparziali e adesso mi trovo al loro cospetto sul banco degli imputati per rispondere del reato di felicitá insensata.
Seoul mi piace e sono contento di vagare lungo le sue arterie senza una meta precisa. Attorno al mio hotel si trovano negozi di ricambi per qualsiasi cosa. Ogni mattina passo davanti a file interminabili di ventilatori e gomme per automobili. Sudo molto. Assumo e consumo parecchi liquidi. Forse ho perso un po’ di peso, ma non ne sono sicuro. Ieri mi sono spinto fino alle mura di Seoul e dopo una lunga serie di salite mi sono goduto una vista panoramica della capitale. Anche oggi ho camminato moltissimo e ho trovato un modo per scrivere gratuitamente i miei appunti insensati. In una piazza assolata un ragazzino in skate è venuto verso di me, mi ha detto “hello” e mi ha dato il cinque prima di dileguarsi nel caldo. Al World Cup Stadium ho incontrato due ragazzi dello Sri Lanka con i quali ho intrattenuto una breve conversazione. Ho intenzione di assistere a una partita di calcio del campionato coreano. Domani ho in programma di andare al mercato di Yongsan che è l’equivalente di Akihabara a Tokyo, ovvero un crocevia di prodotti tecnologici. Finora non ho speso molto. Ho fatto alcune fotografie e ho intrappolato circa sessanta minuti di Seoul con la mia videocamera.
Finalmente ho scovato un posto per connettermi. In questo momento mi trovo vicino al World Cup Stadium. Il viaggio è andato bene, anche se il secondo volo, quello da Parigi a Seoul, è partito con quaranta minuti di ritardo. Ho impiegato molto per trovare il mio albergo, ma dopo alcune ore e svariati chilometri sono giunto a destinazione. Prima di mettere piede nel mio hotel mi sono avventurato a lungo per le strade di Seoul e il primo impatto con la capitale coreana è stato piuttosto forte. La città è compenetrata da odori nauseabondi che scuotono l’anima, molti palazzi sono fatiscenti e sembrano in procinto di abbandonare la loro stabilità. La ruggine screzia l’agonia architettonica di questa megalopoli asiatica. Ogni via è popolata da chioschi improvvisati che offrono pietanze di ogni tipo in condizioni igieniche piuttosto inquietanti. La gente mi sembra un po’ incuoriosita e un po’ diffidente nei confronti degli occidentali. Seoul assomiglia a Tokyo, ma ha meno ordine e appariscenza della capitale nipponica. Le persone vendono di tutto e talvota mettono sulle bancarelle prodotti che non riuscirebbero a dare via neanche se fossero loro a pagare gli acquirenti. L’altro ieri una ragazza mi ha offerto un drink analcolico per promuovere una nuova attività e due giovani coreane mi hanno servito con evidente imbarazzo quando sono entrato nella loro pasticceria per comprare qualcosa da mangiare. Una bambina mi ha salutato spontaneamente con un timido “hello” e io le ho risposto con un sorriso. Ho incontrato alcuni occidentali con i quali ho scambiato brevi saluti anglofoni. Nella metropolitana ho scambiato qualche parola in inglese con un coreano grasoccio che indossava una maglietta dei Cypress Hill e sorseggiava un frullato abbondante.