Sono tempi luttuosi, critici, parossistici, propedeutici per l’autolesionismo: è la stagione delle piogge corrosive. Nel mondo e nella mia esistenza si succedono eventi tutt’altro che piacevoli, ma io resisto alle forze contrarie e ci provo gusto. Ricorro all’archetipo del guerriero e alla sublimazione per fronteggiare il senso del vuoto e la pochezza che pretende di riempirlo. Le prove di forza non bastano, quelle d’intelletto senza le prime sono esercizi di stile e la sintesi d’entrambe è difficile, ma al contempo troppo attraente per non perseguirla. Avverto scariche d’orgoglio che mi fanno sentire vivo. C’è un romanticismo imponente e una dolcezza infinita nell’amore autentico verso sé stessi. Le cadute sono inevitabili e un giorno ce ne sarà una irreversibile, ma può bastare un appuntamento certo per negare tutto ciò che non rientri in una prevedibilità altrettanto granitica? Per me la risposta è no. Cerco di non ripetere gli errori di chi mi ha preceduto e non lascio la mente alla mercé delle circostanze. Qualche volta devo compiere due passi indietro per farne tre avanti, ma lo accetto perché so che l’alternativa è ancora più spossante. Non temo troppo il futuro e manco il presente benché quest’ultimo fagociti ogni cosa e sputi sentenze di morte.
La mia indole è coriacea, ma non so bene in che misura sia merito mio e quanto invece sia da ascrivere a fattori congeniti. Qualche volta ho la sensazione di ritrovarmi la forma mentis di un avo dimenticato che abbia speso l’esistenza a falciare paure, ansie, fisime e quant’altro spesso causi un fratricidio endogeno: l’Es che dilania l’Io. Non riesco a tollerare la meccanicità delle azioni, non voglio farmi coinvolgere dalla mediocrità più di quanto già vi sia esposto, bensì ho il bisogno di agire consciamente, di strappare più terreno possibile ai processi nascosti che sono schierati su alture profondissime. Non è finito proprio nulla: mi sono appena affacciato al preludio.