In questi ultimi tempi ho pensato a una persona che di recente ha lasciato il corpo. Era ancora giovane e io non avevo mai avuto particolari legami con lei, però la ricordo ancor oggi come una simpatica compagna di classe all’interno di aule che ho sempre frequentato poco. Per me sotto certi aspetti la morte non significa nulla, tanto meno la considero una fine, così come non ritengo la nascita un inizio, tuttavia queste mie intime convinzioni non hanno carattere consolatorio giacché la prospettiva di non poter non essere (non vi è alcun refuso) risulta ontologicamente inquietante e dà molto da pensare.
Talora quando una giovane vita viene spezzata anzitempo ho la sensazione che essa dietro di sé si lasci qualcosa d’incompiuto, però non so se poi sia realmente così. A volte l’entità di una grande sofferenza dipende soltanto da un tempismo cinico e crudele, laddove tali termini acquisiscono la loro esiziale portata in ragione dell’emotività umana, perciò vorrei che vi fosse una forma di sollievo per quanti si trovino a fare i conti con le insostenibili assenze delle persone a cui erano legati. In alcuni casi avverto un fastidioso senso d’impotenza davanti al dolore altrui, come se l’impossibilità di sistemare le cose a proprio piacimento ci tenesse a rammentarmi quanto i poteri della mia specie siano lontani da quelli di un demiurgo.
Fatta eccezione per mia madre io non ho mai avuto affetti e quindi non conosco l’attaccamento né la perdita, non so cosa significhino davvero se non per interposto lutto e indiretta testimonianza. Alla fine ho sempre rivolto gli investimenti emotivi verso di me e questo mi ha messo al riparo dai problemi dell’identificazione, quindi non posso permettermi di scrivere o di dire a qualcuno che “lo capisco”, nondimeno gli auguro ogni bene.